Che differenza c’è tra il pensiero filosofico e quello scientifico? Che nel primo (caratterizzante l’anima razionale e affettiva) è soprattutto attivo il sentire nel pensare, mentre nel secondo (caratterizzante l’anima cosciente) è soprattutto attivo il volere nel pensare. Questo spiega il perché il pensiero scientifico sia – per dirla con Freud – più “oggettuale” di quello filosofico. Esso non muove infatti dall’essenza (dal concetto) per discendere (deduttivamente) all’esistenza (alla percezione), ma muove viceversa dall’esistenza (dalla percezione) per risalire (induttivamente) all’essenza (al concetto). E ci riesce? Sì, ma solo quando l’esistenza da cui muove è quella del mondo inorganico. La scienza, la tecnica e l’industria moderne stanno appunto a dimostrare la capacità del pensiero intellettuale di dominare la realtà minerale, grazie alla scoperta delle leggi che la governano. Ma riesce, questo stesso pensiero, a dominare la realtà vivente? No, perché le leggi dalle quali questa dipende sono diverse da quelle che governano la realtà inorganica. La realtà vivente dovrebbe essere pensata (e conosciuta) in modo vivente, così come la realtà morta viene pensata (e conosciuta) in modo morto (nel modo, vale a dire, in cui lo permette l’intelletto vincolato all’apparato neuro-sensoriale).
Sembra semplice. Eppure è proprio a questo punto, laddove si pone, ossia, l’esigenza di un’evoluzione qualitativa dell’attività pensante, che si sollevano le più caparbie resistenze. Perché? La cosa è invero strana in quanto l’uomo non avrebbe alcun sensato motivo di paventare uno sviluppo del proprio pensiero, della propria coscienza e di sé stesso. Chi è dunque a paventarli? Evidentemente qualcun altro (col quale l’uomo ha però il torto d’identificarsi). Grazie alla scienza dello spirito, sappiamo che questo “qualcun altro” è Arimane. E’ infatti questa entità a mutare il sano intelletto (che – ricordiamolo – è uno dei sette doni dello Spirito Santo) nell’intellettualismo, nello scientismo o in quella che Horkheimer chiama la “ragione strumentale“: ovvero, nell’attitudine a ridurre le realtà della vita, dell’anima e dello spirito a quella inorganica, e a trattarle di conseguenza (al modo, ad esempio, dell'”ingegneria” genetica o di quella sociale).
Perché diciamo queste cose? Perché Piero Bevilacqua, a un certo punto del suo La mucca è savia – Ragioni storiche della crisi alimentare europea (Donzelli, Roma 2002), si domanda: “Come spiegare tanta pervicacia nell’errore?” (p.108). Di quale errore sta parlando? Di quello a causa del quale – spiega – l’agricoltura “è stata ridotta a un ramo subalterno dell’industria chimica, un’attività che ha rapporti di dominio totale sulla natura e una capacità quasi di cancellazione di ogni manifestazione autonoma della vita biologica. L’intera pratica agricola è mossa da fertilizzanti di sintesi, erbicidi, diserbanti, pesticidi, funghicidi, ormoni, conservanti, anticrittogamici ecc. Tonnellate di sostanze chimiche e di veri e propri veleni sono riversati annualmente su piante e terreni (…) Ma è la condizione degli animali il cuore della questione. Le stalle e i pollai industriali non costituiscono più dei luoghi di allevamento: sono, di fatto, degli ospedali zootecnici per la produzione di latte e carne su larga scala. Gli animali non sono infatti allevati: più precisamente essi vengono intensivamente ingrassati in una condizione di patologia permanentemente controllata. Ormoni, vitamine, auxinici, appetizzanti, antibiotici, coloranti, antiparassitari, disinfettanti, conservanti, urea, chemioterapici sono gli ingredienti chimici quotidiani di questa industria ospedaliera della carne” (p.XIII).
Come si vede, se non si sa portare il pensiero all’altezza della vita, si finisce allora col portare la vita alla bassezza del pensiero (tale errore – scrive appunto Bevilacqua – è dovuto soprattutto a “un basso orizzonte culturale” (p.XVI). I pesticidi, ad esempio, “si rivelano il prodotto di una scienza dai bassi orizzonti, brutalmente strumentale, priva di lungimiranza, che non è stata capace di prevedere gli esiti di lungo periodo del loro impiego”) (p.108).
Portare la vita alla bassezza del pensiero significa però eliminarla, così da poter trattare piante e animali alla stessa stregua di macchine: alla stessa stregua, cioè, dell’unica cosa che l’intelletto riesce davvero a comprendere. Già sul finire dell’Ottocento, infatti, gli animali – come ricorda Bevilacqua – diventavano sempre più “macchine produttive da sollecitare con tutti i mezzi possibili. Dal momento che – come sosteneva un professore della Regia Scuola Veterinaria di Torino – “l’organismo degli animali” andava considerato come “macchina trasformatrice degli alimenti in prodotti utili”” (p.35).
Bevilacqua, comunque, pur avendo ben presente l’importanza del fattore culturale (“Una nuova agricoltura e nuovi allevamenti – osserva ad esempio – possono effettivamente affermarsi e radicarsi nella società solo grazie a un profondo rivolgimento materiale, e tramite il mutamento del quadro culturale che ha fin qui dominato l’intera età contemporanea”) (p.131), tiene anche a sottolineare le gravi responsabilità del neo-liberismo, al punto da arrivare a definirlo “l’ultima pestilenza ideologica del XX secolo”. Scrive appunto: “Occorre cominciare a sollevare la montagna di stupidità economicistica sotto cui, per troppo tempo, è rimasta sepolta la mente dei contemporanei” (p.XXI).
Tuttavia, la “montagna di stupidità” (“intelligentissima” come soltanto può essere quella di Arimane) che ha trasformato l’intelletto nell’intellettualismo, nello scientismo o nella “ragione strumentale” è significativamente la stessa che ha trasformato il liberalismo (di matrice idealistica e vocazione giuridica) nel liberismo (di matrice utilitaristica e vocazione economica). “La pratica degli allevamenti intensivi – ricorda Bevilacqua – era cominciata (…) nel Regno Unito” (p.35): ovvero, nella medesima area in cui era appunto cominciata quella del liberismo.
Proviamo dunque a chiederci: in quale direzione si sarebbe sviluppato il liberalismo (quale fatto etico-filosofico) se non fosse stato “stregato” da Arimane e trasformato nel liberismo? Con ogni probabilità, – possiamo rispondere – in quella dell'”individualismo etico” indicato da Steiner ne La filosofia della libertà (Antroposofica, Milano 1966); e in quale direzione si sarebbe sviluppata l’agricoltura se non fosse stata “stregata” da Arimane e trasformata in una industria: in un’attività, vale a dire, retta appunto dalla “ragione strumentale”? Con ogni probabilità, – possiamo di nuovo rispondere – in quella della coltivazione “biodinamica” indicata pure da Steiner (scrive infatti Bevilacqua: “Ridotto a macchina produttiva di carne e latte, il bestiame doveva essere inserito il più strettamente possibile nelle logiche, negli spazi, nei ritmi della più generale produzione industriale” (p.49); “ripetute di anno in anno, e spesso in misura crescente, le concimazioni minerali distruggono la vita organica del terreno, rendono il campo sempre più duro, compatto, simile al residuo inorganico di un’attività industriale.”) (p.94).
Occorre – sostiene sempre Bevilacqua – “un nuovo indirizzo da dare alla ricerca. L’agricoltura biologica non è un ritorno al passato, la semplice nostalgia dell'”agricoltura della nonna”. Come abbiamo visto essa è figlia di un diverso percorso della scienza contemporanea” (p.133).
Ma qual è questo percorso? Proprio quello indicato dalla scienza dello spirito di Rudolf Steiner. Ecco infatti quanto dice Bevilacqua (nel paragrafo Un’altra scienza, che merita d’essere ampiamente riportato): “Nelle sue lezioni sull’agricoltura, tenute nel 1924, questo studioso delle opere minori (“scientifiche” – nda) di Goethe elaborò una concezione della pratica agricola che si connetteva a una più generale visione cosmologica della vita – l’antroposofia – e da cui prese avvio una vera e propria scuola diffusasi in seguito nell’Europa del Nord, negli Usa e in Australia. Nelle concezioni agronomiche di Steiner elementi apertamente esoterici convivono con acute e profonde critiche all’agricoltura e all’allevamento industriale del suo tempo. Ma in seguito furono alcuni agronomi a dare alle concezioni della biodinamica, a partire dagli anni venti, più solide fondamenta scientifiche. Uno fra questi, Ehrenfried Pfeiffer, nel 1938, raccolse in volume i risultati di decenni di studi e di pratiche agricole condotte in varie regioni d’Europa e degli Stati Uniti, con il titolo significativo La fertilità della terra (Antroposofica, Milano 1997 – nda). La ricerca di Pfeiffer muoveva critiche serrate alle pratiche sempre più intensive di allevamento degli animali, in atto sia in Germania che in Olanda. I vistosi incrementi nella produzione del latte che si andavano realizzando nei grandi allevamenti avevano, infatti, quale esito sempre più diffuso, la sterilità delle mucche e il dilagare degli aborti. “Una mucca – scriveva Pfeiffer – con una alimentazione intensiva può produrre quantità di latte massimali. Queste comportano uno sforzo unilaterale dell’organismo: la produzione di latte è parte dell’attività sessuale. L’incremento su un versante vuol dire diminuzione su un altro. Ne deriva un indebolimento degli organi sessuali. Abbiamo sì, una maggiore produzione di latte, ma in compenso anche tutte le ben note difficoltà nell’allevamento, quali aborti epidemici, parti difficili, sterilità e streptococchi”. Tutte condizioni di diffusa patologia non riscontrabili, ad esempio – come ancora ricordava l’autore – nelle aziende lattifere degli Usa condotte in dimensioni familiari secondo pratiche e metodi biodinamici. Ma è sul piano strettamente agricolo che le concezioni di Pfeiffer, sorrette da una lunga esperienza di lavoro sul campo, hanno finito col fornire i punti di partenza per una critica radicale all’agricoltura industriale. E la visione scientificamente complessa della vita del terreno costituisce la premessa fondamentale per un nuovo modo di concepire lo sviluppo agricolo (…) Un richiamo, dunque, della scienza alla complessità della vita cui la pratica agricola non si può sottrarre. L'”agricoltore – ricordava l’autore – non ha a che fare soltanto col suo terreno, con la sua semente. E’ collegato a un ampio processo vitale”. Ma, al tempo stesso, l’individuazione di un limite invalicabile dall’agricoltura industriale: il terreno considerato quale organismo vivente non può essere forzato a produrre oltre un determinato limite senza determinare alterazioni gravi e controproducenti anche sotto il profilo economico. Pfeiffer, infatti, aveva potuto osservare nelle sue esperienze ciò che è divenuto un dato di fatto nelle agricolture dei nostri anni: un terreno “per mantenere lo stesso livello di produzione deve aumentare di anno in anno la quantità di concimi chimici”, mentre esso vede cambiare la sua struttura, indurendosi progressivamente. La critica che l’agricoltura biodinamica muoverà alla concimazione chimica costituisce un nodo teorico di straordinaria fertilità. L’incremento delle produzioni agricole tramite l’impiego di fertilizzanti minerali non ha solo effetti indiretti, gravi e cumulativi, su cui ci soffermeremo più avanti. E’ la stessa potenza chimica – l’immediatezza della sua azione stimolante – la sua maggiore debolezza. La concimazione minerale, infatti, e ancora di più i concimi di sintesi – alla base delle rese agricole nel corso del XX secolo – hanno un’efficacia subitanea sulle piante. I sali minerali, infatti, vengono immediatamente assorbiti dalle radici, senza alcuna mediazione da parte del mondo complesso del terreno in cui esse si trovano. E’ sufficiente la presenza dell’acqua perché essi entrino nel corpo della pianta. Polemizzando con alcune posizioni estremistiche, l’agronomo Alex Podolinsky, rammentava che i concimi chimici “Non sono per niente veleni, ma si rendono disponibili in una forma che è esterna all’organizzazione naturale. Ciò naturalmente è molto pericoloso“. Podolinsky lo spiega con semplicità: Quando l’azoto è acquisito dall’azoto immagazzinato nell’humus, la pianta non ne prenderà mai troppo e non lo prenderà mai troppo velocemente nel processo di assimilazione (…) Se seguiamo questo azoto, attraverso la via metabolica, scopriamo che è lentamente assorbito e trasformato nella pianta in proteine formate da aminoacidi nobili. Se d’altra parte distribuiamo due sacchi di solfato d’ammonio per ettaro com’è consuetudine, potremmo avere nel suolo venti o trenta volte l’azoto originariamente disponibile. In verità, è nell’acqua del suolo non nel suolo. Che cosa fa la pianta con questo azoto disponibile? (…) essa non può far fronte al volume di azoto che viene introdotto (…) la pianta è letteralmente inondata di azoto. Una certa quantità è assimilata e trasformata in proteina (…) Il rimanente azoto non viene assimilato per nulla. Si trova nella pianta come inchiostro sulla carta assorbente. Non c’è stata assimilazione. Si trova come nitrato che poi si trasforma in nitrito e sotto questa forma è un veleno mortale (Agricoltura biodinamica. Lezioni introduttive, Publiprint, Traversetolo (PR) 1998, I, pp.26-7. Il corsivo è nel testo)” (pp.85-89).
Ci auguriamo che tutto questo basti, non solo a sollecitare il lettore a misurarsi direttamente col testo, ma anche a illustrare (tanto nel caso delle mucche e del latte quanto in quello del terreno e dell’humus) la diversa qualità della “logica” che presiede alla ricerca di Pfeiffer e Podolinsky: la diversa qualità, ossia, di quella “logica” chiamata da Steiner “vivente” o “immaginativa” e dallo stesso posta, dal punto di vista dei livelli di coscienza, subito sopra la “logica” intellettuale (o rappresentativa). Se questa è capace infatti di cogliere (analiticamente o atomisticamente) gli elementi al di fuori del composto o dell’insieme (nominalisticamente inteso), quella è capace invece di coglierli (sinteticamente od olisticamente) al di dentro dello stesso (realisticamente inteso), e quindi nelle loro reciproche e dinamiche relazioni.
Un altro esempio di pensiero vivente (o del vivente) lo fornisce André Birre (citato sempre da Bevilacqua) allorché parla di quel particolare composto o insieme che è l’humus: “In breve, – dice – si deve riconoscere all’humus tutta una serie di capacità fondamentali, tutte propizie alla produzione vegetale: ritenzione e circolazione dell’acqua, circolazione d’aria, accrescimento del calore specifico e assorbimento dei raggi solari, struttura e stabilità del suolo, movimento degli ioni e potere tampone del suolo, riserve e sostanze azotate e carbonate, stoccaggio di minerali indispensabili alla crescita. L’humus assicura il legame tra il minerale e il vegetale. E’ una sostanza vivente: esso è il legame, anche più che il legame, qualcosa di simile alla matrice in cui si elabora la cosa vivente, la placenta che la nutre (L’humus, richesse et santé de la terre, La Maison Rustique, Paris, pp. 82-3)” (p.90).
Un’ultima osservazione. Ha scritto di recente Veronesi (a proposito delle terapie “non convenzionali”): ” Queste cosiddette medicine si richiamano fortemente a un ritorno alla natura e al naturale, con l’idea che ciò che è naturale è fondamentalmente buono. Ma niente è più sbagliato di questo concetto. La natura ha aberrazioni genetiche, può creare mostri, tant’è che in gergo popolare si dice spesso “un mostro della natura”” (Oggi, 3 luglio 2002). E’ vero, la natura può “creare mostri”. Ben di più (e ben più pericolosi) può però crearne (e ne ha creati) la cultura. In una nota dell’anno scorso (Ancora sulle idee assassine, 11 marzo 2001) abbiamo appunto scritto (ci si perdoni l’autocitazione): “Il comunismo, il fascismo e il nazismo hanno generato dei mostri, poiché hanno preteso di abolire la storia e di sostituirsi a essa, di calarsi sul reale, di cambiare la natura umana e di liberare l’uomo dalle sue radici. Ma se il Novecento è stato il secolo delle idee politiche assassine, non corriamo forse il rischio che quello avvenire sia il secolo delle idee scientifiche assassine? L’odierna genetica, in particolare, non sta forse avanzando le stesse pretese avanzate, nel secolo scorso, dalla politica? Non sta tentando, infatti, di fare oggi con la natura quello che la politica ha fatto ieri con la storia? Non sta tentando, ossia, manipolandola e ibridandola, di “abolirla” e “sostituirla”? E non mostra forse, così facendo, di voler “cambiare la natura umana” e di voler “liberare l’uomo dalle sue radici” (naturali e spirituali)? O non proclama, come il comunismo, il fascismo e il nazismo, di voler far questo nell’interesse dell’umanità?”.
“Niente è più sbagliato” – dice Veronesi – dell’idea “che ciò che è naturale è fondamentalmente buono”. Anche questo è vero. Si dovrebbe tuttavia distinguere la natura che vive all’interno dell’uomo (quale realtà psico-fisiologica) da quella che ne vive all’esterno (“Non c’è nulla fuori dell’uomo – dice infatti il Vangelo – che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”) (Lc, 7-15). E la natura che vive fuori dell’uomo, se non può essere definita “buona” (ma neanche “cattiva”, essendole inapplicabili le categorie morali), può essere però definità “intelligente” o, ancor meglio, “saggia” (e il titolo del libro di Bevilacqua è appunto: La mucca è savia). Certo, l’intelligenza che governa la vita di una pianta o di un animale è più alta di quella che governa una macchina. Ma se si vuol evitare di assumere, nei confronti di tale superiore intelligenza, la medesima e proverbiale posizione della volpe nei confronti dell’uva, ci si deve allora ben guardare dal sottovalutarla o ignorarla. Oggi, tuttavia, non solo la si sottovaluta o ignora, ma ci si sforza – come abbiamo altre volte sottolineato – di sostituire il biologico che non si capisce con il tecnologico che si capisce.
Non di rado, poi, la scienza – come rileva acutamente Bevilacqua – “fa delle condizioni alterate dalla manipolazione antropica uno stato imperfetto di natura. Sicché l’innovazione tecnica viene pensata e giustificata come l’approdo a una condizione superiore di funzionalità” (p.68).
Ed eccone, per finire, un esempio. “Alla data storica del 1938, potè accadere in Italia che le galline apparissero come naturalmente incapaci di produrre uova dopo averlo fatto, senza alcun sussidio chimico, per tutti i millenni precedenti. “Per ovvie ragioni – ricordava uno zoologo dell’Università di Milano – si deve ammettere che le quantità di calcio chimicamente legato alle sostanze organiche, nella razione del pollo, è insufficiente per i bisogni di questo, specie delle galline, che, per di più debbono provvedere alla formazione dei gusci delle uova”. A tale carenza, dunque si poteva provvedere, secondo i suggerimenti di questo scienziato, impartendo nella razione alimentare degli allevamenti gusci di ostriche e polvere di marmo (G.Giusti, I gusci di ostriche e i granuli di marmo nella alimentazione dei polli, in R.Università di Milano, Stazione Sperimentale di Zoologia, Studi e ricerche, S.A.Stampa Periodica Italiana, Milano 1938, p.547. Ma il saggio è di qualche anno prima)” (p.68).
La “mucca è savia”
L