Rileggendo la Storia d’Europa nel secolo decimonono di Croce (Laterza – Roma-Bari, 1981), libro che – ricordiamolo – fu messo a suo tempo all’indice dalla congregazione del Santo Uffizio, abbiamo ancora una volta ripensato al seguente passo di Steiner: “Partendo dal 1845 e aggiungendo 33 anni si arriva al 1878, e questo era all’incirca l’anno fino al quale fu lasciato tempo all’umanità per penetrare la realtà delle idee sbocciate nel decennio 1840-1850. Nell’evoluzione storica moderna è straordinariamente importante tener presente i tre o quattro decenni ricordati, perché proprio su di essi l’uomo odierno deve raggiungere la massima chiarezza, deve cioè divenire cosciente del fatto che fra il 1840 e il 1850 cominciarono a fluire nell’umanità in forma astratta le cosiddette idee liberali, e che all’umanità, per afferrarle e trasformarle in realtà, fu concesso tempo fin verso il 1880. La borghesia era portatrice di queste idee, ma essa mancò l’occasione di realizzarle” (Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, pp.87-88).
Croce, infatti, nel capitolo “L’unificazione della potenza germanica e il cangiamento dello spirito pubblico europeo (1870)”, così scrive: “Tutto quanto si era attuato con l’ordinamento liberale e nazionale della società europea, con la fine dell’oppressione chiesastica e monarchico-assolutistica, col respiro ottenuto e la facoltà di muoversi e lavorare e fare secondo ispirazione e vocazione, con lo svolgimento politico progressivo e ordinato in luogo degli scotimenti e sconvolgimenti rovinosi e paurosi, tutto era stato in istrettissima relazione col pensiero idealistico e storico, maturatosi nei primi decenni del secolo, e che ora aveva preso corpo e viveva nelle sue istituzioni. Ma se le acque avevano bagnato e fecondato la terra, che s’era coperta di buona messe, la fonte dalla quale esse scaturivano si era andata via via assottigliando e quasi essiccando. Dov’era più la grande filosofia, e la storiografia che vi s’informava, in Europa, intorno al 1870? Della prima nessuna traccia o solo di epigoni; della seconda, qualche ultimo ancor vigoroso rampollo. Al posto tenuto dalla filosofia e dalla storiografia si era introdotta a poco a poco la scienza naturale, e, infine, vi s’era assisa, ergendosi in soglio, coronata regina” (op.cit., p.225).
E’ dunque “intorno al 1870” che la scienza della natura arriva a scalzare il “pensiero idealistico e storico, maturatosi nei primi decenni del secolo”: a scalzare, ossia, una “filosofia” dello spirito che, non avendo fatto tesoro della lezione scientifica goethiana, non era riuscita a evolversi e trasformarsi in una “scienza” dello spirito.
E’ comunque importante rilevare che sul trono, sul quale stavano prima “assise” la filosofia e la storiografia idealistiche, viene ora a insediarsi, non tanto la “scienza naturale”, quanto piuttosto lo “scientismo”: ovvero, un’altra (e scadente) filosofia.
Nota infatti Croce: “Il fatto importante, che allora accadde, fu altro e più complicato, ed è da riportare non alla scienza naturale ma al naturalismo, cioè a un’affrettata e mal ragionata filosofia (…) Screditate (e si soleva notare la cosa e di solito per allegrarsene) erano le “idee” e gl'”ideali”; e l’uomo, per l’efficacia del filosofismo naturalistico che era invalso, si sentiva attaccato ai fatti, sospinto dai fatti, ma depresso nel sentimento della libertà, arricchito di cognizioni e leggi scientifiche, privato della legge sua spirituale, preclusagli la conoscenza del significato e del valore della vita umana. La libertà richiede idee ed ideali, e l’infinito cielo, e lo sfondo dell’universo, non come estraneo all’uomo ma come lo spirito stesso che in lui pensa e opera e lietamente crea sempre nuove forme di vita” (ibid., pp.227-228).
Ma per quale ragione Goethe, pur sentendosi “attaccato ai fatti”, “sospinto dai fatti” e “arricchito di cognizioni e leggi scientifiche”, non si era sentito per nulla “depresso nel sentimento della libertà”, “privato della legge sua spirituale” e mortificato nella “conoscenza del significato e del valore della vita umana”? Perché – possiamo sicuramente rispondere – era stato capace di scorgere lo spirito (la “legge” o il “tipo”) nei “fatti” e i “fatti” nello spirito.
Ciò vuol dire che non basta parlare – come fa Croce – della “filosofia come scienza dello spirito”, ma che dovrebbe farsi con lo spirito quello che la scienza già fa con la natura: non limitarsi, ossia, ad affermare in modo generico e astratto la realtà del proprio oggetto, bensì impegnarsi a studiare e distinguere, con concretezza e rigore, le diverse forze e i diversi esseri che lo costituiscono. Proprio questo è quanto ha fatto Steiner, riprendendo e sviluppando, non a caso, l'”idealismo empirico” di Goethe. “Nessuno può, – scrive infatti – partendo dalla semplice idea, costruire tutta la molteplicità che si presenta ai sensi esteriori. L’idea può essere riconosciuta dallo spirito intuitivo; le singole configurazioni gli sono accessibili solo quando rivolge i sensi al mondo esterno, quando guarda e osserva. Il perché una modificazione dell’idea appaia come realtà sensibile proprio così e non altrimenti, non può essere escogitato dal cervello, ma deve venir cercato nel regno della realtà” (Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Roma 1988, p.213).
“La libertà – dice Croce – richiede idee e ideali, e l’infinito cielo, e lo sfondo dell’universo, non come estraneo all’uomo ma come lo spirito stesso che in lui pensa e opera e lietamente crea sempre nuove forme di vita”. E’ vero; un conto, tuttavia, è tirare in ballo sentimentalmente (o poeticamente) “l’infinito cielo” e l'”universo”, altro è forgiare una via della conoscenza atta a condurre – come dice Steiner dell’antroposofia – “lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.15). Quale filosofia idealistica è stata infatti capace, tanto per citare qualche titolo dei cicli di conferenze di Steiner, di far luce, fin nei particolari, sulle Corrispondenze fra microcosmo e macrocosmo (Antroposofica – Milano,1999), su L’azione delle stelle e dei pianeti sulla vita terrestre (Antroposofica – Milano, 1989), su I ritmi nel cosmo e nell’essere umano (Antroposofica – Milano, 1993), e di riconoscere pertanto nell’uomo un “geroglifico dell’universo”? O è stata capace, per dirla in modo ancor più radicale, di mettere in luce, in campo medico, l’incidenza qualitativa delle forze di Saturno nella sclerosi cerebrale o di quelle di Giove nell’idrocefalo, e di fornire inoltre delle indicazioni per la preparazione di farmaci atti a curare tali patologie? (Rispettivamente: Plumbum mellitum D20 e Stannum metallicum praeparatum D15).
“Che cosa era – scrive ancora Croce – quel naturalismo e positivismo e materialismo, che succedeva all’idealismo e spiritualismo della filosofia anteriore? Non la distruzione delle indistruggibili verità di questa, ma le vicende dei conati che si facevano per risolvere i nuovi problemi nati da quelle verità, e insieme le sopravvivenze di problemi non bene risoluti, che a quel modo si vendicavano. E che cosa era la politica della mera potenza, che si levava con aria di schiacciante superiorità a fronte della concezione liberale, se non il riflesso della ritardata e incompiuta formazione liberale e politica di un gran popolo le cui capacità e virtù erano state storicamente indirizzate e adoprate a quel fine e davano luogo ora a quel vanto di superiorità? E che cosa era l’émpito tumultuoso dell’attività economica se non, per un verso, il prodotto della civiltà europea, e, per un altro, il non ben regolato rapporto di esso con le altre parti di questa civiltà, che ora troppo ingombrava di sé, e perciò la sollecitava a regolarlo e, anzitutto, a opporgli forze di altra qualità che ne contenessero gli eccessi e lo riconducessero tra gli argini e nel letto in cui deve scorrere?” (op.cit., p.232).
Come si vede, egli mostra qui d’intendere il naturalismo, il positivismo e il materialismo come una sfida all’idealismo e allo spiritualismo, ma non mostra affatto d’intendere che tale sfida non può essere raccolta né vinta, non solo dalla “filosofia anteriore”, ma da qualsiasi tipo di pensiero non sappia affrontarla sul piano stesso della scienza: ovvero, su quel solo piano in cui armoniosamente si coniugano i dati della percezione (i percetti) con quelli del pensiero (i concetti); non mostra affatto d’intendere, in altre parole, che un’ottusa filosofia della concretezza può essere davvero superata, non da un’acuta filosofia dell’astrattezza, bensì da un’acuta filosofia della concretezza e, quindi, non più da una semplice “speculazione”, bensì da una vera e propria “ricerca” spirituale (basata sull’esperienza extrasensibile). “La nostra gnoseologia – scrive appunto Steiner – supera l’unilaterale empirismo e l’unilaterale razionalismo, riunendo entrambi a un gradino superiore. In questo modo rende giustizia a entrambi: all’empirismo rende giustizia mostrando che tutte le cognizioni circa il dato possono venir ottenute soltanto nel contatto immediato col dato stesso. Così pure il razionalismo trova giustificazione nella nostra concezione, poiché questa dichiara che il pensare è necessario e unico mezzo per la conoscenza” (Verità e scienza in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, p.179).
Dice Croce che “la politica della mera potenza” (dello stato prussiano) non era che “il riflesso della ritardata e incompiuta formazione liberale e politica di un gran popolo” (quello tedesco); d’accordo, ma in quale direzione si sarebbe dovuta compiere tale formazione liberale? “Dal 1840 al 1880 circa – osserva a questo proposito Steiner – anche se astratte, le idee erano articolate in modo da ammettere una estrinsecazione attiva di ogni singolo accanto ai suoi simili. Se per ipotesi fosse stato realizzato il contenuto di quelle idee, si sarebbe potuto vedere l’inizio, sia pure soltanto un inizio, di una nuova tolleranza, si sarebbe dovuto permettere l’estrinsecazione di ogni uomo accanto ai suoi simili, vale a dire appunto quanto oggi manca per quel che riguarda idee e sentimenti. Proprio nella vita sociale l’uomo deve prendere dal mondo spirituale idee che agiscano molto più profondamente e intensamente” (Lo studio dei sintomi storici – antroposofica, Milano 1961, p.89).
Come, dunque, Charles-Louis de Montesquieu (intorno al 1750) aveva “preso” dal mondo spirituale (e in sintonia con la prima fase evolutiva dell'”anima cosciente”) l’idea (tutta liberale) della triarticolazione dei poteri dello Stato (esecutivo, legislativo e giudiziario), così Steiner (in sintonia con la seconda fase evolutiva dell'”anima cosciente” preparante il passaggio della coscienza dell’Io quale “ego” a quella dell’Io quale “Sé spirituale”) ha “preso” l’idea della “triarticolazione dell’organismo sociale” che, in quanto triarticolazione, non nello Stato, ma dello Stato, rappresenta (goethianamente) una “metamorfosi ascendente”, o (crocianamente) un “compimento”, della prima.
Dice Croce che “l’émpito tumultuoso dell’attività economica”, oltre a essere “il prodotto della civiltà europea”, era anche il risultato del “non ben regolato rapporto di esso con le altri parti di questa civiltà, che ora troppo ingombrava di sé, e perciò la sollecitava a regolarlo e, anzitutto, a opporgli forze di altra qualità che ne contenessero gli eccessi e lo riconducessero tra gli argini e nel letto in cui deve scorrere”. Ebbene, la “triarticolazione dell’organismo sociale” immaginata da Steiner non prevede appunto che alla forza dell’attività economica si oppongano (istituzionalmente) quelle dell’attività politica o giuridica e dell’attività culturale o spirituale? E non mira forse, mediante tale qualitativa e dinamica opposizione, a far sì che l’attività economica venga (fisiologicamente) ricondotta “tra gli argini e nel letto in cui deve scorrere”?
“Non esiste maggior antitesi – afferma Steiner – fra le idee, magari astratte, ma pur luminose nella loro astrattezza, degli anni 1840-48 e le altre idee che, nel secolo XIX e in tutto il mondo civile sono state chiamate “alti ideali umani”, tali considerati fino ai giorni nostri e alla fine coinvolti nella catastrofe” (Lo studio dei sintomi storici, p.89).
Queste parole sono del 1918 e la catastrofe di cui si parla è quella della prima guerra mondiale. Quei cosiddetti “alti ideali umani”, interamente permeati di materialismo e di scientismo, non paghi di aver generato tale catastrofe, ne hanno prodotta poco dopo una seconda (1940-45), e chissà quali altre, non meno devastanti, vanno preparando.
E’ doloroso constatare, perciò, che le anime in cui ancora sopravvivono le “astratte, ma pur luminose” idee liberali (non liberiste) continuino irresponsabilmente a ignorare l’insegnamento di Rudolf Steiner.
“La moralità – scrive ad esempio Croce – proprio perché viene (…) rappresentata in forma di legge, come imposizione altrui, o della società o di un Dio, non è moralità, ma fatto bruto e ostacolo esterno, contro cui la libertà dell’individuo viene a urtare e che è lieta di vincere. Se fosse non frigida ed esteriore legge ma coscienza morale, legge che l’individuo dà a sé stesso e alla quale spontaneamente si sottomette, sarebbe impossibile ribellarsi a lei, godendo della ribellione; o la ribellione e il godimento accadrebbero solo per il momentaneo smarrimento di quella coscienza, per la ridiscesa a un grado inferiore, seguita presto dal rimorso. Infatti, basta che si accenda la coscienza morale, che la legge s’interiorizzi, che il dovere divenga amore, perché il freno, che prima non operava, operi, la brama inferiore e ristretta ceda alla superiore e più ampia, la colpevole e stupida voluttà all’armonia spirituale e alla bellezza” (Etica e politica – Laterza, Roma-Bari 1967, pp.75-76).
Ebbene, come non avvertire in queste parole una eco dell’ideale che informa La filosofia della libertà di Steiner? Ma come si può, d’altro canto, anche soltanto approssimarsi a un ideale del genere se si condanna – come fa Croce – il “monadismo etico” (ibid., p.88), giudicandolo (moralisticamente) frutto di superbia, e non perciò un bruco in grado di mutarsi (evolutivamente) nella farfalla dell'”individualismo etico” di Steiner? E se, soprattutto, non si sa vedere nell’individuo (vale a dire nell’Io) null’altro che un'”istituzione”?
“Alla domanda – afferma infatti Croce – che cosa sia quel che si suol chiamare l’individuo, si è data risposta di suono alquanto paradossale col dire che l’individuo è un’istituzione. Pure, non ce n’è altra che abbia senso, perché lo Spirito forma esso e trasforma e disfà quei gruppi e relazioni di tendenze e abiti nei quali si configura l’individualità, né più né meno che forma e trasforma e disfà quelle che si dicono istituzioni sociali o storiche…” (ibid., p.92); e, non bastasse, aggiunge: “L'”intimo carattere”, il “carattere nostro proprio”, il nostro “io sostanziale”, la gemma fulgida e dura che dovremmo possedere in noi e mettere allo scoperto per conservarla nella sua purezza inalterata, quel che ci distinguerebbe dagli altri tutti o dai molti, dal volgo, non esiste altrove che nella fallace escogitazione delle metafisiche e tra i fumi dell’amor proprio inebriato” (ibid., p.88).
Liberalismo e antroposofia
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