A un certo punto del suo bel libro Islam e democrazia – La paura della modernità (Giunti, Firenze 2002), la nota sociologa Fatema Mernissi (nata a Fez, in Marocco, nel 1940) così scrive: “Il senso di assurdità che pervade oggi le nostre vite deriva dal fatto che la modernità ci ricorda ogni minuto di essere occidentale: da quando la notte del 20 luglio 1969 un uomo alto e biondo ha piantato la bandiera della sua nazione sulla luna, essa non è più universale. Quell’uomo alto e biondo si chiamava Neil Armstrong, ed era americano. Eravamo contenti di assistere a quel trionfo dello spirito scientifico, quello straordinario passo in avanti verso la conquista delle stelle. Ma fummo richiamati alla realtà dalla bandiera dell’astronauta, che non celebrava l’universale, ma piuttosto era la bandiera della sua tribù, come ha acutamente osservato il mitologo Joseph Campbell: “E allora, come se si sentissero immediatamente a casa, due astronauti nella loro tuta spaziale furono visti muoversi in un paesaggio da sogno, assolvere i compiti loro assegnati e issare la bandiera americana”. Molti americani si riempirono d’orgoglio per questo evento, ma chi rifletteva sulla responsabilità del proprio paese nella costruzione dell’universalismo, nel quale tutti sono i benvenuti – quelli come Campbell, che come studioso del mito ha analizzato la sopravvivenza e le pericolose metamorfosi dell’arcaico – fu scioccato da questo atto primitivo” (p.173).
D’accordo, ma una volta deciso di piantare sul suolo lunare una bandiera, ed esclusa la possibilità, per ovvie ragioni pratiche, di piantarne una per ogni “tribù” della terra, quale altra bandiera avrebbe potuto issare Neil Armostrong? Ne esiste forse una che “celebri” l’uomo “universale”? Che “celebri”, ossia, l’intera umanità e non i gruppi “particolari” in cui è suddivisa? E poi, quale senso avrebbe “celebrare” un’universalità che altro non rappresenta – agli occhi degli odierni nominalisti e materialisti – che un flatus vocis o un’astrazione? (Proprio oggi, ad esempio, su Il Giornale, in un editoriale dedicato alla crisi della giustizia in Italia, Nicola Matteucci scrive: “Per capire questa crisi bisogna seguire il principio dell’individualismo metodologico proprio del liberalismo: non esiste la magistratura, che è una cosa astratta, esistono i singoli magistrati”. La qualcosa fa supporre che non esista nemmeno la “giustizia”, in quanto “cosa astratta”, ma solo “i singoli giusti”. Non è chiaro, tuttavia, come i singoli giusti possano essere riconosciuti come tali senza presupporre l’essere dell’ideale che viene in loro a esistere o a incarnarsi).
Scrive comunque la Mernissi: “La domanda pertinente da fare (…) è: l’occidente ha il potere di creare una cultura universale?”; e risponde: “L’Occidente senza dubbio può creare una cultura universale, ma solo se rinuncia al suo monopolio della conoscenza scientifica e dello sviluppo elettronico” (p.174). Rendendosi conto, tuttavia, che ciò non sarebbe comunque sufficiente a raggiungere lo scopo, poco dopo aggiunge: “Attar ha cantato quell’islam sufi che i media occidentali ignorano totalmente. Esso sarebbe probabilmente l’unico oppositore di successo dell’elettronica, perché offre qualcosa che essa non può minacciare né rimpiazzare: la spiritualità che dà le ali, e ti apre agli altri come un fiore” (p.199).
In effetti il compito di “creare una cultura universale” riguarda, non la conoscenza tecnico-scientifica (così come si presenta oggi in Occidente), bensì la conoscenza scientifico-spirituale: vale a dire, una conoscenza (frutto della più pura tradizione europea) che, pur non coincidendo con quella scientifico-materialistica occidentale né con quella mistico-spiritualistica dei Sufi, si mostra capace, proprio in virtù della sua “universalità”, di accogliere e integrare entrambe.
Come abbiamo detto e ripetuto in alcune delle nostre note, il problema dell’Occidente (e in particolare dell’Europa) sta nel riuscire a superare quel primo e basale livello della modernità espresso dall’ego: vale a dire, dalla coscienza dell’Io fondata sullo spazio, e quindi sul corpo. E’ questo tipo di autocoscienza, infatti, a isolare l’uomo, a dividerlo dai propri simili e a impedirgli di riconoscerli davvero (e non pertanto astrattamente, sentimentalmente o retoricamente) quali “fratelli”.
Sostiene la Mernissi (ed è questo un punto debole del suo lavoro) che proprio l’Islam avrebbe assolto il compito di contrastare l’”individualismo”. “L’islam – scrive infatti – è una prolungata protesta contro l’individualismo arrogante. Quello che il Profeta chiedeva ai fieri aristocratici arabi era di abbandonare la loro sconfinata sicurezza di sé sottomettendo il proprio destino ad Allah. La totale, integrale sottomissione avrebbe permesso di costruire una comunità ugualitaria. L’annientamento dell’individualità di fronte al Allah, il Signore dei Mondi, avrebbe permesso di costruire l’altro pilastro dell’ordine musulmano: l’uguaglianza. Insieme alla pace, salam, l’islam garantisce l’assoluta uguaglianza a tutti, uomini e donne, padroni e schiavi, arabi e non arabi, in cambio della rinuncia all’individualismo” (pp.134-135).
La coscienza politeistica, animistica e tribale degli arabi pre-islamici non può però essere paragonata, in alcun modo, a quella dell’individualismo moderno, che nasce – come indica Steiner – nella seconda metà del XV secolo, unitamente all’”anima cosciente” e all’ego, ed “esplode” – secondo Alain Laurent – con il Rinascimento, la Riforma e l’Illuminismo (cfr. Storia dell’individualismo – il Mulino, Bologna 1994).
“La religione degli arabi ai tempi di Maometto – ricorda appunto George Foot Moore – era di tipo ancora primitivo. Essi adoravano molte deità, alcune delle quali, tra cui due o tre di sesso femminile, erano tenute in venerazione speciale. A queste divinità erano dedicati parecchi luoghi sacri, dove i devoti si recavano in certe occasioni ad invocarne l’aiuto, a sciogliere voti o a consultare gli oracoli (…) Oltre a queste associazioni con luoghi o tribù diverse, gli déi non avevano quasi carattere individuale, né funzioni speciali riservate a ciascuno di essi, e non vi era quindi mitologia” (Storia delle religioni -Laterza, Bari 1961, vol.II, p.425).
L’islam – afferma però la Mernissi – “con il suo unico Dio trionfò nel 630 perché riuscì a realizzare quello che 360 déi insediati nella Ka’ba, a rappresentare pluralismo e libertà di pensiero e credo, non erano in grado di garantire: stabilire la rahma (…) Rahma, la pace nella comunità, può esistere soltanto se l’individuo rinuncia ai suoi ahwa (plurale di hawa), che sono considerati la fonte della discordia e della guerra. La Jahiliyya aveva visto il regno sfrenato della hawa, il desiderio e l’egoismo individuale. L’islam avrebbe realizzato il contrario: rahma nella comunità al prezzo di sacrificare gli ahwa, i desideri e le passioni individuali. Rahma in cambio di libertà è il contratto sociale che la nuova religione propose ai cittadini della Mecca. Rinunciare alla libertà di pensiero e sottomettersi al gruppo è il patto che condurrà alla pace” (pp.112 e113).
Orbene, pur prescindendo dal fatto che tale “contratto” – secondo quanto dimostra la storia – non è stato affatto in grado di condurre all’uguaglianza (specialmente per quel che riguarda le donne) e alla pace, come si può pensare di proporre all’uomo moderno di rinunciare alla sua libertà? Come si può pensare, cioè, se è vero (come dice l’autrice) che “fin dall’inizio i musulmani hanno dato la loro vita per porre la questione che è rimasta un enigma fino a oggi: obbedire o ragionare, credere o pensare” (pp.38-39), di riportare a “obbedire” e a “credere” chi ha scelto – come l’uomo occidentale – di “ragionare” e di “pensare”? Non sarebbe il caso, piuttosto, di proporgli di “ragionare” e di “pensare” in modo nuovo e più profondo, così da poter percorrere una via del pensiero che gli consenta di scoprire in modo autonomo il fondamento universale della propria umanità, di trasformare la “brama” (l’hawa) in amore e di far nascere, proprio dal seno di quella libertà che “nel mondo arabo è sinonimo – secondo l’autrice – di disordine” (p.70), la pace e la fratellanza?
Dice la Mernissi che “senza l’aiuto delle stelle, un musulmano non può andare lontano” (p.167) poiché l’Islam “ha insegnato a camminare nella vita tenendo lo sguardo fisso al sole e alle stelle, ossia strettamente legati al cosmo e consci di farne parte” (p.172). Benissimo, ma perché non tentare allora di superare il moderno e “arrogante” egocentrismo attraverso l’antroposofia: attraverso, appunto, “una via della conoscenza che – come scrive Steiner – vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”? (Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.15).
Abbiamo voluto dire queste cose, anche perché l’autrice, verso la fine del libro, così si interroga: “Le democrazie occidentali bisognose di petrolio, che sono uscite trionfanti dal conflitto nel Golfo, coglieranno al volo l’opportunità inaspettata di far pressione per la democratizzazione del mondo arabo? (…) I banchieri e i generali occidentali si affretteranno ad aiutare le donne arabe private dei loro diritti, come hanno fatto per il Kuwait? Il futuro ci dirà quanti sacrifici l’Occidente è disposto a fare per la democrazia che ci ha insegnato ad amare tanto. Il futuro ci dirà se l’Occidente sarà il pioniere dell’affermazione di quei valori universali che predica e che noi siamo arrivati ad amare” (p.195).
Ebbene, siamo purtroppo convinti che tutto ciò non potrà realizzarsi se l’Occidente (e in primo luogo l’Europa) non “sacrificherà” il proprio egoismo (parto di un pensiero che, oscurando le menti, raggela i cuori), se non realizzerà quei valori universali che si limita per ora a “predicare”, se non troverà dunque il coraggio di promuovere una conoscenza che sia atta, di per sé, a promuovere la moralità.
Modernità e universalità
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