Morte dell’intellettuale (maiuscolo)

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Traendo spunto da alcune affermazioni di Steiner, abbiamo tentato, in un paio di note (1) e in una “noterella” (2), di mettere in luce il carattere insieme “astratto” e “luminoso” di quelle idee liberali che – come precisa sempre Steiner – “cominciarono a fluire nell’umanità” tra il 1840 e il 1850.
Ebbene, la lettura di Morte (senza nostalgia) dell’Intellettuale (3) di Giancristiano Desiderio e della relativa recensione, a cura di Giuseppe Cantarano, pubblicata su il Giornale (4) ci offre adesso l’occasione di tornare sull’argomento.
L’autore così introduce il suo lavoro: “Una sentenza di Nicolàs Gòmez Dàvila dice: “Il poeta che pretende di fare della sua poesia qualcosa di più di una poesia merita sfiducia”. Lo stesso aforisma si può ripetere per l’intellettuale: se pretende di fare del suo pensiero qualcosa di più di un pensiero merita sfiducia. La ragione, infatti, che nutre l’insana ambizione di essere “qualcosa di più” di ciò che è violando la libertà dell’altro da sé è una ragione che ha torto. Gli ultimi due secoli di storia dell’Occidente – e non solo dell’Occidente – possono essere letti come duecento anni in cui la ragione – l’Intellettuale – ha pensato, cioè sognato, di poter essere “qualcosa di più”: dal 1789, anno della Rivoluzione francese e dell’inizio del “sonno della ragione che genera mostri”, al 1989, anno della fine dell’incubo del comunismo” (5).
Da una parte, avremmo dunque un pensiero, una ragione o degli Intellettuali (maiuscoli) che nutrono l’”insana ambizione di essere “qualcosa di più”” e, dall’altra, un pensiero, una ragione o degli intellettuali (minuscoli) che invece accettano il “disincantamento del mondo”, in quanto persuasi che non vi sia altro modo – come scrive Desiderio – di “salvare capra e cavoli, cioè la scienza e la politica, la libertà umana” (6). Infatti, – aggiunge – “il massimo o il minimo di incantamento del mondo che ci possiamo concedere è quello della ragione storica o limitata come un pensare che sa riconoscere i suoi limiti e rinuncia a ridurre tutto – la natura, la storia, la scienza, l’azione – a ragione. L’Intellettuale è morto e, visti i disastri scaturiti dall’aver voluto pensare l’impensabile, l’unione della Verità e del Potere, nessuno può avere nostalgia. Nonostante si avverta una nostalgia per l’assoluto” (7).
Orbene, muovendo dall’ovvio presupposto che dovrebbe essere “sana” ambizione di ciascuno di fare del proprio pensiero (del proprio ordinario “opinare”) un pensare, non si vede perché la sfiducia nei confronti dell’Intellettuale che pretenda di farne “qualcosa di più” non debba riguardare anche l’intellettuale che pretenda di farne, al contrario, “qualcosa di meno”.
Una cosa, infatti, è il pensare vivente e libero dai sensi, altra il pensiero astratto o riflesso: ossia, il pensiero che si dà solo come “forma” (intellettuale o rappresentativa), e non come viva e spirituale unità di “forma” e di “forza”.
Ciò sta dunque a significare che l’”ambizione” del pensiero, della ragione e degli Intellettuali è “insana”, non perché miri a “qualcosa di più”, ma perché il “qualcosa di più” cui mira lo ricerca all’”esterno” e non all’”interno” del pensiero.
Dove lo vada infatti a trovare ce lo dice lo stesso Desiderio: “Quando qualcuno perde il “ben dell’intelletto” non diciamo che è uno squilibrato? Che esagera? Che non conosce il senso della misura? Questo classico “senso della misura” il pensiero occidentale lo smarrisce nei primi decenni del Novecento quando – come scriveva un fine umanista e interprete di Croce, Carlo Antoni nel suo bellissimo Commento a Croce – una sorta “di mistica della vitalità e dell’azione intaccò le millenarie basi della civiltà dell’Occidente, che è nata e cresciuta sotto gli auspici di Pallade Atena, dea della classica intelligenza”” (8).
Come si vede, una “mistica della vitalità e dell’azione” è una “mistica” della volontà o della natura vivente, e non del pensiero vivente o dello spirito (e dunque una “ragione” – come precisa appunto l’autore – che può essere “sognata”, ma non pensata).
C’è comunque da osservare che tale “mistica”, se può spiegare gli “squilibri” prodotti dal fascismo e dal nazismo, non può però dar conto di quelli generati dal comunismo. Quella del fascismo e del nazismo è infatti una “mistica” (viscerale) della natura vivente (della stirpe, del sangue, della razza), mentre quella del comunismo è una “mistica” (cerebrale) della natura morta (dell’intelletto, dell’ ideologia, della storia, della classe, del partito).
Lo stesso Desiderio riconosce che, nel “totalitarismo comunista”, si ha “un uso politico della religione o, se si vuole, della teologia” (9).
Il quadro insomma è questo: al centro, abbiamo i “razionalisti”, cioè gli “equilibrati” e agnostici portatori del cosiddetto pensiero “debole”(o “limitato”); a destra e a sinistra abbiamo invece gli “squilibrati” portatori del medesimo pensiero “debole” che si illudono di averlo reso però “forte” ricorrendo all’aiuto, i primi, del bruto potere istintuale, i secondi, del bruto potere politico.
Come si vede, né agli “equilibrati” (che “peccano” in pensieri, parole e omissioni) né, a maggior ragione, agli “squilibrati” (che “peccano” in pensieri, parole e opere), riesce dunque d’immaginare che un “sano” ed “equilibrato” pensiero “forte” (vivente) o uomo “spirituale” possa soltanto derivare da uno sviluppo superiore o da una metamorfosi ascendente del pensiero “debole” (riflesso) o dell’uomo “intellettuale”.
Abbiamo ricordato, all’inizio, che Steiner parla delle idee liberali come di idee “luminose” ma “astratte”: “luminoso” è infatti il primato che esse assegnano all’individuo e alla libertà, ma “astratta” è la coscienza dell’Io che tale primato dovrebbe giustificare e sorreggere.
Al riguardo, l’autore distingue (sulle orme di von Hayek) il “vero” individualismo dal “falso”, ponendo il primo in rapporto con il razionalismo “storico, critico e limitato” di stampo anglosassone e il secondo, invece, con il razionalismo “astratto, illuminista e costruttivista” di stampo francese che “tende – come dice – a svilupparsi nel socialismo o collettivismo” (10). E’ vero. Ciò però dipende dal fatto che il mondo anglosassone è in primo luogo portatore dell’anima cosciente (della coscienza dell’Io o autocoscienza), mentre quello francese è in primo luogo portatore dell’anima razionale o affettiva.
In ogni caso, compito della borghesia (negli anni che vanno – come indica Steiner – dal 1845 al 1878), sarebbe stato quello di superare l’”astrattezza” delle idee liberali, non solo conservando, ma anzi potenziando la loro “luminosità”. Così però non è stato, ed ecco allora che al posto di una concreta, creativa e luminosa spiritualità è subentrata una concreta, distruttiva e oscura materialità: vale a dire, un concreto, distruttivo e oscuro materialismo.
Scrive Giuseppe Cantarano, nella sua recensione, che “pensare il senso della misura” vuol dire “fuggire dagli estremi”, perché “gli estremi sono bucati da quegli abissi dove la ragione può sempre sprofondare. In medio stat virtus, ripeteva Aristotele”.
In medio, tuttavia, sta non solo la virtus, ma anche la mediocritas: ovvero, quella ragione quasi “patofobica” che si preoccupa solo di “fuggire dagli estremi” o, come un viaggiatore, di non “sporgersi” dal finestrino (scrive appunto Desiderio: “Nel libro Ascesa e declino degli intellettuali, Wolf Lepenies fa, appunto, questa osservazione: “La missione degli intellettuali e i pericoli che li minacciano non potrebbero essere espressi più efficacemente: è pericoloso sporgersi“”) (11).
“La “Via Media” dei Buddisti – osserva però Christmas Humphreys – non è un semplice compromesso (.) Se si vuol decidere tra il bianco e il nero, il grigio è un misero surrogato (.) Miglior soluzione è trovare una sintesi situata al di sopra degli elementi opposti (…) Al di sopra del bene e del male sta il Bene; al di sopra del bello e del brutto sta la Bellezza; al di sopra del vero e del falso sta la Verità” (12).
Un conto è dunque la ragione “grigia” che ha cura unicamente di salvarsi fuggendo dagli estremi (13), un altro la ragione che, risalendo le altezze, ha invece cura di superare, armonizzare, porre al proprio servizio e per ciò stesso salvare gli estremi stessi.
Superfluo dire che, dal punto di vista della scienza dello spirito, uno di questi due estremi è quello “luciferico”, l’altro quello “arimanico”. In medio, c’è dunque l’uomo, e là dove c’è l’uomo c’è il Cristo: cioè l’Essere che ha detto: “Io ho vinto il mondo”, e che può perciò dare a ciascuno la forza di “vincere” e redimere gli opposti.
Desiderio si richiama, per la verità, al cristianesimo, arrivando anche a citare un passo della lettera ai Colossei di Paolo: “Cristo è tutto in tutti” (14). Ma come dare senso concreto a quest’affermazione se non si ha alcuna coscienza (scientifico-spirituale) dei rapporti vigenti, “in tutti”, tra l’io abituale (l’ego) e l’Io spirituale e tra l’Io spirituale e il Cristo (ovvero, il “Tutto” o Io universale)?
L’intellettuale – dice Cantarano (sempre illustrando il pensiero di Desiderio) – “deve limitarsi ad esercitare la critica del dubbio. Lontano da qualsiasi delirante pretesa di parlare in nome dell’Assoluto e della Verità”.
D’accordo, ma proprio esercitando la critica del dubbio non si può arrivare a dubitare anche del dubbio? O è questo forse un “Assoluto”? E non sappiamo, poi, che come esistono, per fuggire il dubbio, deliranti (isteriche) pretese di “parlare in nome della Verità”, così esistono, per fuggire la Verità, deliranti (ossessive) pretese di parlare – per così dire – “in nome del dubbio”?
Desiderio ammette, come si è visto, che esiste “una nostalgia per l’assoluto“. Ebbene, ove immaginassimo che tale nostalgia fosse quella per l’amore (che non è cosa in fondo assai diversa), per quale ragione – vorremmo domandare – delle fanciulle oneste, avendo visto altre prostituirsi, non potrebbero far altro allora che rinunciare a sposarsi, rimanendo così nubili? In effetti, – sia detto senza offesa – l’anima dell’intellettuale “crociano” (La riscoperta dell’intellettuale crociano: è questo il titolo della recensione di Cantarano) ricorda appunto un’anima che, avendo visto altre prostituirsi alla “classe”, alla “razza”, al “partito” o alla “nazione”, decida allora di rinunciare a sposare lo spirito (vivente), rimanendo così nubile.
Non c’è però da illudersi di poter perdurare in tale stato: ormai, infatti, le anime che non scelgono di sposare gli “angeli” vengono prima o poi stuprate dai “demòni”. Lo riprova il fatto che proprio l’idealistica “vergine” liberale è stata ormai da tempo stuprata dal demonio dell’utilitarismo liberista.
Guarda caso, la Pallade Atena evocata da Antoni è appunto la dea che non solo la letteratura ha spesso opposto a Venere, ma con la quale – stando a quanto sostiene Kerenyi – l’idea divina dei Greci sembra essersi per la prima volta liberata da ogni momento sessuale; non si ha infatti memoria di un uomo cui Atena avrebbe potuto essere destinata o toccare in sorte (15).
Sul piano simbolico o immaginativo, più di quello tra Atena e Venere, conta tuttavia il rapporto tra Atena (dea della “classica intelligenza” e quindi dell’anima razionale o affettiva) e la Sophia o Maria cristiana.
Augurandoci che l’interrogativo non suoni irriverente, ci si potrebbe infatti chiedere: avrebbe mai pronunciato, la prima, nata direttamente dalla testa di Zeus, quel “Fiat (voluntas Tua) che ha permesso invece alla seconda di farsi libero, cosciente e salvifico strumento dell’incarnazione del Logos? E avrebbe mai potuto, il poeta, dire di lei: “Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio”?

Note:

01) cfr. Liberalismo, liberismo e ideologie, 22 giugno 2002 e Liberalismo e Antroposofia, 15 agosto 2002;
02) cfr. noterella, 5 luglio 2002;
03) G.Desiderio: Morte (senza nostalgia) dell’Intellettuale – Pantheon, Roma 2003;
04) il Giornale, 1 giugno 2003;
05) G.Desiderio: op.cit., pp. 7-8;
06) ibid., p.15;
07) ibid., pp.15-16;
08) ibid., p.9;
09) ibid., p.42;
10) ibid., pp.65-66;
11) ibid., p.75;
12) C.Humphreys: Lo Zen – Ubaldini, Roma 1963, p.22;
13) cfr. Della volontà d’impotenza, 18 agosto 2002;
14) G.Desiderio: op. cit., p.64;
15) cfr.K.Kerenyi: Gli Dei e gli eroi della Grecia – il Saggiatore, Milano 1963.

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Di Francesco Giorgi
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