“Abbiamo tutti quanti alle spalle un gigante del pensiero. Era un filosofo che scriveva per farsi capire, si chiamava David Hume e aveva rappresentato l’essere umano come un fascio di sensazioni differenti, che si succedono con rapidità inconcepibile in un fluire continuo. Accade, non di rado, che il fascio si disarticoli. La successione delle percezioni va allora in frantumi, e ciò che chiamiamo “mente” non ha più un punto di riferimento. Nei casi più gravi ci troviamo di fronte a un baratro comportamentale: il neuropsicologo russo Aleksandr Lurija parlava di una mente ridotta a un “puro movimento browniano” e il nome “schizofrenia” fu coniato, circa un secolo fa, proprio per indicare la frantumazione dell’Io, la scissione della psiche in un informe brulichio di pensieri sconnessi e allucinazioni”.
Comincia così l’editoriale con il quale Enrico Bellone presenta il terzo numero di Mente & Cervello (1).
Orbene, nella nota dedicata al libro di Edoardo Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima (2), prendendo atto dell’ammirazione nutrita dall’autore per Kant, e rammentando quella di Einstein per Schopenhauer, avevamo così parafrasato un noto adagio: “Scienziato che vai, filosofo che trovi”.
Ed ecco appunto Bellone (in riferimento all’articolo Fra delirio e realtà contenuto nel fascicolo) presentarci adesso lo “scettico” Hume come un “gigante del pensiero”. Ci viene tuttavia da osservare che avremo pure “alle spalle” un siffatto “gigante del pensiero”, ma quel che è certo, almeno a giudicare dal passo riportato, è che non ne abbiamo nessuno di fronte. Saremo senz’altro degli sprovveduti, ma ci sembra che oggi, di “gigantesco”, ci sia in primo luogo uno stato di approssimazione o di confusione (concettuale).
E’ legittimo oltretutto il sospetto che si preferisca definire Hume “un filosofo che scriveva per farsi capire” (quasi che tutti gli altri avessero scritto per non farsi capire) pur di non ammettere che Hume è l’unico filosofo che gli odierni cognitivisti e neuroscienziati riescono ormai a comprendere. E perché? Ce lo spiega Hegel: “In quanto Hume ripone in modo del tutto soggettivo la necessità, la unità degli opposti, nell’abitudine, bisogna dire che più giù di così non si può scendere col pensiero” (3).
Ma veniamo al sodo. L’essere umano sarebbe dunque “un fascio di sensazioni differenti, che si succedono con rapidità inconcepibile in un fluire continuo”. Può però accadere – osserva Bellone – che tale “fascio si disarticoli” e che “la successione delle percezioni” vada “allora in frantumi”.
Tra la “successione” delle “sensazioni” e quella delle “percezioni” non ci sarebbe quindi alcuna differenza. Eppure, una cosa, ad esempio, è l’oggettiva percezione di un qualsiasi “spazio aperto”, altra la soggettiva e angosciosa sensazione che ne ricava un “agorafobo”. Basterebbe questo a dimostrare che la sensazione non è uguale alla percezione, giacché rappresenta il modo in cui il soggetto reagisce interiormente (psichicamente) alla percezione dell’oggetto esteriore.
Afferma inoltre Bellone che quando la successione delle percezioni va in frantumi “ciò che chiamiamo “mente” non ha più un punto di riferimento”. Ma questo non implica, forse, che quando la successione delle percezioni non va in frantumi, ciò che chiamiamo “mente” ha allora un “punto di riferimento”? E se questo – a quanto pare – è l’Io, non si tratta allora dello stesso “punto di riferimento” cui fa normalmente capo quel “fascio di sensazioni differenti” in cui consisterebbe l’essere umano? Ma l’uomo, se le cose stanno così, è dunque un “fascio di sensazioni differenti” o non piuttosto quell’Io che, proprio in quanto “punto di riferimento”, d’ogni differente sensazione fa appunto un “fascio”?
Per Bellone, anche la “frantumazione dell’Io” e la “scissione della psiche” sono una stessa cosa. Non considera, perciò, che se l’Io coincidesse con la psiche, il “punto di riferimento” di cui parla non sarebbe più un “punto” o un’unità, bensì una varietà di “punti” o una molteplicità (quale quella, ad esempio, delle “pulsioni” freudiane o dei “complessi” junghiani).
Fatto sta che in tanto si sperimenta, nella schizofrenia, un “informe brulichio di pensieri e allucinazioni” in quanto si sperimenta, nella normalità, una coerente connessione di pensieri e rappresentazioni, e che la differenza tra l’uno e l’altro stato dipende unicamente dal fatto che l’Io nel primo perde il governo della psiche, mentre nel secondo lo conserva.
Un conto è dunque l’Io, un conto la psiche. Nello schizofrenico non si “frantuma” quindi l’Io, bensì si “frantuma” o si “scinde” la psiche proprio perché l’Io (per ragioni psichiche o fisiche) non è più in grado di mantenerne il controllo, e per ciò stesso la coerenza, l’integrità e l’unità.
Tale incapacità può essere però provvisoria o permanente. Scrive infatti Bellone: “In primo luogo, va sfatato il mito secondo cui la schizofrenia è un evento raro e demolitore. Una persona su cento, infatti, ne è preda almeno una volta nella sua vita: si verificano, insomma, eventi psicotici isolati, che non degenerano. In secondo luogo, i sintomi della schizofrenia sono molteplici ma hanno una sorta di fattore comune, e cioè un’incapacità del cervello a filtrare gli stimoli che incessantemente lo irritano. Il che porta a un affollarsi patologico di informazioni: i nostri neuroni sono infatti costretti ad analizzare quantità enormi di dati che, in realtà, sono irrilevanti per elaborare quei comportamenti che definiamo come normali. E’ come se il cervello crollasse per un sovraccarico di informazioni che ostacola l’usuale classificazione di ciò che i sensi raccolgono e che spezzetta il nostro rapporto con la realtà”.
Se capiamo bene, la schizofrenia sarebbe dunque una sorta di “indigestione” o “congestione” neuronale. Anche in questo caso è comunque evidente il “pregiudizio” materialistico. Sono infatti i neuroni e il cervello a “digerire” le informazioni, o non è piuttosto l’Io a “digerirle” per mezzo appunto dei neuroni e del cervello? Dice Bellone che “è come se il cervello crollasse per un sovraccarico di informazioni che ostacola l’usuale classificazione di ciò che i sensi raccolgono”; ma il cervello, in realtà, non fa che ulteriormente “raccogliere” quanto è stato già “raccolto” dai sensi, lasciando all’Io l’onere di “classificarlo” (vale a dire, di qualificarlo o determinarlo concettualmente) mediante il pensiero.
Ci sarebbe altresì da osservare che i sensi “raccolgono” non solo le informazioni (meglio sarebbe però dire gli “stimoli”) che provengono dalla realtà esterna, ma anche quelli che originano dalla realtà interna (psichica o fisica). Ci sono infatti sensi esterocettivi, propriocettivi ed enterocettivi. E per quale ragione, allora, le psicosi (schizofreniche o schizotimiche) non potrebbero anche derivare da una abnorme stimolazione quantitativa o qualitativa del sistema neuro sensoriale (e per suo mezzo dell’Io) da parte magari dei polmoni, del fegato, dei reni o del cuore? Perché s’ignora o si tace, ad esempio, che Victor Bott (tanto per fare un solo nome), nel suo Medicina antroposofica, parla appunto di “psicosi in relazione al polmone”, di “psicosi epatiche”, della schizofrenia o “psicosi renale” e delle “nevrosi e psicosi cardiache” (4)?
Certo, tutto questo imporrebbe di ricominciare sul serio a pensare, e di ricominciare a farlo soprattutto in ordine a quella realtà dell’essere umano che oggi, quando non viene equiparata a quella degli animali, viene allora equiparata a quella delle macchine. Parlando di terapia delle “emozioni” o delle “prestazioni intellettuali” (riguardo a un articolo di Henning Scheich), Bellone afferma infatti: “In linea di massima, nulla vieta di sostituire il farmaco con un microdispositivo inserito in una zona specifica del cervello, così da farlo funzionare solo quando è necessario”.
Quanto sia urgente la necessità di tornare sul serio a pensare, cessando così di andare a caccia di un qualche tutor filosofico così come altri vanno a caccia di un qualche avo che consenta loro di vantare almeno un quarto di nobiltà, potrebbe dimostrarlo anche quanto scrive Bellone sul finire della sua presentazione: “Lo sviluppo delle conoscenze sta raccogliendo risultati che solo qualche anno fa erano in parte impensabili e in parte rigettati da ampi settori della cultura. Ce ne rendiamo conto leggendo Adriana Maggi, Elisabetta Vegeto e Silvia Belcredito, che parlano di ormoni sessuali femminili. Si è a lungo creduto che essi fossero quasi esclusivamente addetti al compito della riproduzione. Ora, invece, si comincia a capire che regolano circuiti del cervello connessi alla memoria e ai processi cognitivi: insomma, “il cervello ha una spiccata sessualità””.
Ebbene, pur volendo prescindere, per ovvie ragioni di gusto, dal fatto che si potrebbero vedere dei precursori di questi “impensabili” risultati in tutti quegli uomini che sono usi considerare le donne degli esseri che “ragionano con l’utero” e in tutte quelle donne che sono use considerare gli uomini delle “teste di c….”, si potrebbe ben più seriamente ricordare che la Bibbia, “qualche anno fa”, aveva già alluso al rapporto sessuale tra Adamo ed Eva dicendo appunto: “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino…” (Gn 4,1); o che, più di recente, Franz von Baader (1765-1841) ha inserito, ne la sua Filosofia erotica, un breve saggio intitolato proprio: Sull’analogia dell’istinto di conoscere e dell’istinto di generare (5).
Conclude comunque Bellone: “David Hume, probabilmente, non proverebbe scandalo nel leggere questo numero di “Mente & Cervello””.
Può darsi; a noi “nani” è difficile infatti immaginare quel che provano i “giganti”. Dal momento, tuttavia, che tre anni fa è uscito un libro umoristicamente intitolato: Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (6), ci sia allora concesso, non di scandalizzarci, ma almeno, nel nostro piccolo, e seriamente, di rattristarci.
Note:
01) Mente & Cervello, n°3, anno I, maggio-giugno 2003;
02) Il cervello, la mente e l’anima, 15 gennaio 2002;
03) G.W.F.Hegel: Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol.3,II, p.231;
04) cfr. V.Bott: Medicina antroposofica – IPSA, Palermo 1991;
05) F.von Baader: Filosofia erotica – Rusconi, Milano 1982, p.81÷94;
06) cfr. Gino & Michele: Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano – Baldini & Castoldi, Milano 2000.