Del sentimento tragico della vita

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Stando a quanto riporta il sito internet de La leva di Archimede (Associazione di consumatori per la libertà di scelta), “sono fra i 6 e i 7 milioni (Dichiarazione del dottore F.Baughman nell’articolo “Making Sense of Ritalin”, di John Pekkanen, Rider’s Digest gennaio 2000, pagina 158) solo negli Stati Uniti i bambini trattati con uno psicofarmaco stimolante, il Ritalin, e le diagnosi di tale “male” (l’ADHD: ovvero, l’Attention Deficit Hyperactivity Disorder – nda) con conseguenti prescrizioni di droghe di sintesi sono in aumento in tutto il mondo occidentale (si parla di un raddoppio del numero di diagnosi ogni 3 / 4 anni negli USA e ogni anno in Inghilterra). Adesso addirittura tale disturbo viene diagnosticato a partire dal primo anno di vita e senza alcuno scrupolo i medici prescrivono a bambini ancora lattanti una droga, il Ritalin appunto, che negli anni sessanta era utilizzata da alcune comunità di hippies per “sballare””.
Questo, mentre altri 4 milioni e mezzo di bambini muoiono ogni anno di fame, e il fenomeno dei “piccoli martiri assassini di Allah” (1) si va sempre più diffondendo.
E’ nei “campi del Paradiso” – scrive infatti Carlo Panella – “che i gruppi fondamentalisti palestinesi allevano, con il consenso delle famiglie, i piccoli di otto-dodici anni destinati a divenire shaid-killer, sottoponendoli a un durissimo training a base di insegnamenti religiosi. Lo scopo finale che viene loro indicato è il raggiungimento, grazie al martirio, del livello più alto e più bello del Giardino di Allah, dove sono racchiuse tutte le delizie” (2).
Come si vede, anche “la strage degli innocenti” si va globalizzando.
Ma perché abbiamo riportato questi dati? Perché la loro drammaticità pone o ripropone il problema della qualità del sentire (o – in termini più impegnativi – del “profumo” o del “colore” dell’aura) che dovrebbe accompagnare ogni seria ricerca spirituale e, in particolare, quella della scienza dello spirito.
Da qualche anno a questa parte, ad esempio, s’incontrano sempre più spesso persone che, per un malinteso esercizio di “positività” (o di “buonismo”), accompagnano i contenuti di pensiero dell’antroposofia (le “nozioni” antroposofiche) con un sentire del tutto privo (in senso classico) di tragicità, e per ciò stesso in qualche modo affine a quello che caratterizza il “think pink” della New Age e altri movimenti “spirituali” di stampo orientale e occidentale.
Si tratta per lo più di persone che hanno ragione, da una parte, nel voler prendere le distanze dall’intellettualismo e nel porre l’accento sul valore della viva esperienza, ma che hanno torto, dall’altra, nello scambiare per intellettualismo ogni serio impegno di pensiero e nel non prendere affatto in considerazione la possibilità di accedere, in modo cosciente e libero, a una viva esperienza del pensiero stesso: ossia, all’esperienza di un pensare che – come dice Steiner – “intensifica se stesso sino alla visione” (3).
Un conto è infatti il sano intelletto (uno dei sette doni – non lo si dimentichi – dello Spirito Santo) un conto è invece l’intellettualismo (arimanico); così come una cosa è portarsi (immaginativamente) al di là dell’intelletto, altra credere di essersene portati al di là per il fatto di esserne rimasti (fantasiosamente o lucifericamente) al di qua (come può in specie capitare ai caratteri “stenici” o ”isterici”).
Una sorta di brama o di frenesia del “vissuto” spinge inoltre tali persone a contattarsi, incontrarsi o aggrupparsi per potersi – come dicono – “scambiare le esperienze”. In tal modo, tuttavia, altro non fanno (nonostante le buone intenzioni) che “psicologizzare” l’antroposofia e trasformare quella che dovrebbe essere “un’alta scuola di pensiero” (Steiner) in una scuola di chiacchiere, o quella che dovrebbe essere una “scienza nel senso più elevato” (Steiner) in una mera vetrina o sagra delle opinioni.
Eppure – consiglia Steiner – delle proprie esperienze spirituali “ è meglio non parlarne dapprima a nessuno fuorché al proprio maestro, se lo si ha”. Infatti, una delle norme che il discepolo deve osservare è questa: “Impara a non parlare delle tue visioni spirituali. E’ bene anzi tacere anche verso te stesso” (4). Non solo, ma afferma inoltre che la soluzione dei tanti e gravi problemi che ci affliggono “può consistere soltanto in un virile e non piccino ingresso nel severo mondo dello spirito “ (5).
Ebbene, ci sentiamo di azzardare che i seguaci di quella che potremmo anche definire, volendo, la New Anthroposophy non amino molto sentir ricordare che il mondo dello spirito è “severo” e che l’ingresso in esso deve essere “virile”, e non “piccino” (benché anche Paolo dica: “Siate vigilanti, mantenetevi costanti nella fede, operate virilmente, e siate forti” – 1Cor 16,13).
Ma lasciamo stare. E’ “del sentimento tragico della vita” (6) che vogliamo infatti occuparci.
Steiner, parlando dell’”ardente lotta per l’uomo” che l’Arcangelo Michele instancabilmente conduce contro Lucifero e Arimane, e alludendo alle ricerche di Goethe, Lessing e Schiller (quello delle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo) (7), così scrive: “Michele guarda con serietà anche a questa ricerca dell’uomo. Ciò che è conforme ai suoi intendimenti penetra bene nell’evoluzione spirituale umana (…) Ma se non venisse afferrato dalla forza spiritualizzata dell’anima cosciente, ciò dovrebbe al fine sfuggire all’attività di Michele e cadere sotto il dominio di Lucifero. L’altra preoccupazione angosciosa nella vita di Michele (oltre quella riguardante l’azione di Arimane – nda) è appunto che, nell’oscillare dell’equilibrio cosmico-spirituale, Lucifero possa ottenere il sopravvento. La preparazione di Michele alla sua missione per la fine del secolo diciannovesimo trascorre in cosmica tragicità. Giù sulla terra domina spesso un profondo appagamento per gli effetti della concezione naturale; nella regione dove opera Michele domina un senso tragico per gli ostacoli che si oppongono all’avvento di una vera immagine dell’uomo” (8).
Ma il problema è che giù sulla terra, al “profondo appagamento” per gli effetti della “concezione naturale” (materialistica), si viene ad aggiungere il “profondo appagamento” personale (narcisistico o egoistico) per gli effetti (salutistici, senzienti, emotivi o sentimentali) delle concezioni e delle pratiche cosiddette “spirituali”: per un qualcosa, cioè, che dal punto di vista degli “occultisti della via bianca” non ha alcuna importanza.
“La beatitudine del singolo – spiega appunto Steiner – non li interessa affatto (…) Questi si interessano unicamente dell’evoluzione e della liberazione di tutti gli esseri che siano uomini, o compagni degli uomini. Perciò essi danno soltanto indicazioni atte a sviluppare forze per collaborare a tale opera; pongono la dedizione disinteressata e il desiderio di sacrificio al di sopra di tutte le altre capacità. Essi non respingono nessuno, perché anche il più grande egoista può purificarsi. Ma chi cerca qualcosa soltanto con fine personale non riceverà niente dagli occultisti, finché perdurerà in quello stato d’animo. Anche se questi non lo privano del loro aiuto, egli stesso si toglie la possibilità di profittarne” (9).
Dice ancora Steiner: “Chi onestamente, dall’essere profondo dell’anima sua, può sentirsi uno con l’antroposofia, comprende nel giusto modo questo fenomeno di Michele. E l’antroposofia vorrebbe essere il messaggio di questa missione di Michele” (10).
Ebbene, chiunque si senta “uno con l’antroposofia”, potrebbe forse non sentirsi “uno” con lo stato d’animo di Michele? Ossia con uno stato d’animo nel quale – per usare le parole stesse di Steiner – albergano l’ansia, l’angoscia e la tragicità?
Certo, una cosa è nutrire ansia per il futuro dell’intera umanità (ivi compresi quindi quei bambini che abbiamo ricordato all’inizio), altra nutrirla per il solo futuro di noi stessi: vale a dire, per motivi egoistici. E il tentativo di superare l’ansia o l’angoscia dettata da motivi personali, attraverso concezioni e pratiche che promettono gratificazioni non meno egoistiche, non può renderci in alcun modo partecipi dello stato d’animo di Michele: di uno stato d’animo caratterizzato, per giunta, dalla serietà.
“Michele è serio in tutto – scrive appunto Steiner – perché la serietà, come manifestazione di un essere, è il riflesso del cosmo attraverso quell’essere; il sorriso è invece l’espressione di ciò che, partendo da un essere, irradia nel mondo” (11).
Sia chiaro: la “serietà” (quale fatto essenziale o espressione della coscienza del sacro) non ha nulla a che fare con la mancanza di humor o con la “seriosità” (quale atteggiamento); e Michele – sempre nelle parole di Steiner – è anche Colui che “libera i pensieri dal dominio della testa; apre loro le vie del cuore; proscioglie dall’anima l’entusiasmo”. Grazie a Lui, infatti, “i cuori cominciano ad avere dei pensieri; l’entusiasmo non fluisce più da oscurità mistiche, bensì da chiarezza d’anima sostenuta dal pensiero” (12).
Ma come il pensiero (del cuore) sostiene la “chiarezza d’anima”, così sostiene pure l’ansia, l’angoscia e la tragicità. Non si tratta dunque di quegli stati psichici (o psicopatologici) che nella vita ordinaria possono impadronirsi di noi e sconvolgerci, bensì di stati d’animo che l’Io non solo padroneggia con dignità e coraggio, ma dei quali anche si serve per entrare sottilmente e amorevolmente in contatto con tutto quanto nel mondo soffre e attende di essere liberato e redento.
Afferma infatti Paolo: “Come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così per opera di Cristo abbonda pure la nostra consolazione” (2Cor 1,5).

Note:

01) C.Panella: I piccoli martiri assassini di Allah – PIEMME, Casale Menferrato (AL) 2003;
02) ibid., p.123;
03) R.Steiner: Antroposofia e filosofia – Antroposofica, Milano 1980, p.36;
04) R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica, Milano 1971, p.57;
05) R.Steiner: Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, p.234;
06) M.De Unamuno: Del sentimento tragico della vita – Rinascimento del libro, Firenze 1937;
07) F.Schiller: Lettere sull’educazione estetica dell’uomo – Armando, Roma 1971;
08) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.135;
09) R.Steiner: L’iniziazione, p.173;
10) R.Steiner: Massime antroposofiche, p.78;
11) ibid., p.103;
12) ibid., pp. 57-58.

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Di Francesco Giorgi
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