A proposito di paradossi

A

Riportiamo qui, in breve, alcuni pensieri suggeritici dalla nota di Daniele Liberi I paradossi di Zenone (1).
Tali paradossi non dimostrano, in realtà, che partendo da A non si potrà mai giungere a B, che Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, che la freccia non potrà mai arrivare a colpire il bersaglio, bensì dimostrano (loro malgrado) che l’intelletto o – come si preferisce oggi dire – la “mente” può del tutto estraniarsi, con le sue astratte e magari eleganti elucubrazioni, dalla realtà e, nel caso specifico, che l’ordinaria coscienza rappresentativa non potrà mai afferrare l’essenza del movimento, della continuità, del tempo e della vita, allo stesso modo in cui afferra quella dell’immobilità, della discontinuità, dello spazio e della morte.
Si sforza ciò nonostante di farlo, finendo così col rassomigliare a Sisifo. Come questi, infatti, fu costretto da Zeus a risalire un pendio, spingendo un grosso masso che, non appena raggiunta la sommità, ricadeva giù e lo costringeva a ricominciare sempre daccapo, così molti filosofi e matematici sono costretti dall’ordinaria coscienza rappresentativa a risalire il “pendio” che divide l’immobilità, la discontinuità, lo spazio e la morte dal movimento, dalla continuità, dal tempo e dalla vita, “spingendo” una grossa intelligenza che, non potendo mai raggiungere questi ultimi, “ricade” giù e li costringe a ricominciare sempre daccapo (ricorda infatti Liberi: “Innumerevoli tentativi di sciogliere tali paradossi si sono susseguiti nella storia della filosofia e, negli ultimi tre secoli, della matematica”).
Si tenga oltretutto conto che Sisifo era noto appunto per la sua astuzia e intelligenza, e che “degno figlio di tanto padre” fu nientemeno che Ulisse (che Anticlea ebbe da Sisifo, sebbene fosse moglie di Laerte).
Prendiamo, ad esempio, la celebre questione della “quadratura del cerchio”. “Il nocciolo del problema – spiega Antonino Zichichi – è l’impossibilità di conoscere il rapporto tra la lunghezza della circonferenza di un cerchio e il suo diametro (…) Questo rapporto è il famoso numero pi-greco (simbolo π)”: ovvero, “un “irrazionale trascendente”: un numero senza fine, senza alcuna regolarità e senza che sia soluzione di alcuna equazione (algebrica)” (2).
Di questo numero (il celebre, scolastico 3,14) – stando a quanto riferisce Kaspar Appenzeller – Yasumada Kamada (dell’Università di Tokio) è arrivato addirittura a contare, dopo la virgola, ben 3 miliardi, 221 milioni e 220 mila decimali senza poter giungere a una conclusione (3).
E per quale ragione? Per la semplice ragione che tra il quadrato e il cerchio c’è un salto di qualità: quello stesso che c’è tra l’immobilità e il movimento, la discontinuità e la continuità, lo spazio e il tempo, la morte e la vita e, innanzitutto, tra la coscienza rappresentativa (deputata a far “quadrare” i conti) e quella immaginativa. Voler perciò conoscere – come fanno molti filosofi e matematici – ciò che è qualitativamente diverso senza sviluppare una coscienza corrispondentemente diversa equivale in qualche modo a voler conoscere i suoni senza sviluppare le orecchie e l’udito, o i colori senza sviluppare gli occhi e la vista.
Certo, come Sisifo impiegava tanta ammirevole forza, così molti filosofi e matematici impiegano tanta ammirevole intelligenza. Questa, tuttavia, potrebbe essere paragonata a un binocolo: come il binocolo, infatti, non permette di vedere distintamente il reale tanto al di qua quanto al di là del suo punto focale, così l’intelligenza non permette di vedere distintamente il reale tanto al di qua quanto al di là del suo grado umano: grado che può essere quindi alterato sia da un difetto che da un eccesso d’intelligenza.
Nota a questo proposito Steiner (e siamo nel 1924): “Gli antichi Ebrei differenziavano saggezza e intelligenza. Ai nostri giorni pensiamo che una persona intelligente debba essere anche saggia. Ma ciò non è vero: si possono immaginare in modo molto intelligente le più grandi idiozie. E se si osservano in particolare molte cose della scienza attuale, si deve ben dire che si tratta di una scienza intelligente in tutti gli ambiti, ma che non si tratta certo di una scienza saggia” (4).
Nel Faust di Goethe, l’intelligenza viene rappresentata da Wagner, mentre in quello di Ferdinando Pessoa, essendosi evidentemente smarrita, nel frattempo, la saggezza (quella che fa dire, ad esempio, al “coro degli Angeli”: “Evitare dovete / Ciò che non vi compete”) (5), viene rappresentata dallo stesso Faust.
Annota infatti Pessoa: “Il dramma nel suo insieme rappresenta la lotta fra l’Intelligenza e la Vita, lotta in cui l’Intelligenza risulta sempre perdente. L’Intelligenza è rappresentata da Faust e la Vita in varie forme, a seconda delle circostanze postulate dal dramma. Nel 1° atto la lotta consiste nel fatto che l’Intelligenza vuole capire la Vita, ma viene sconfitta, e capisce soltanto che non potrà mai capirla (…) Nel 2° atto abbiamo l’Intelligenza che lotta nel tentativo di dirigere la Vita; questo tentativo fallisce ugualmente, anche se in modo diverso (…) Il 3° atto concerne la lotta dell’Intelligenza per adattarsi alla vita che, com’è naturale, è rappresentata dall’amore, cioè da una figura femminile, Maria, che Faust tenta di sapere amare (…) Il tentativo mancato del 4° atto è l’annientamento della Vita perché la rabbia della vendetta fallisce di fronte alla capacità di reazione della Vita…(…) Infine, nel 5° atto, abbiamo la Morte, il fallimento finale dell’Intelligenza di fronte alla Vita” (6).
Laddove fallisce l’ordinaria coscienza rappresentativa, potrebbe però riuscire la coscienza immaginativa, solo che gli odierni pregiudizi materialistici non le impedissero, tarpandole acriticamente le ali, di educarsi, svilupparsi e affermarsi. Questo tipo di coscienza (che animava appunto Goethe) non avrebbe peraltro alcun bisogno di “lottare” con la vita (com’è costretta a fare invece la prima, in quanto morta) perché sarebbe essa stessa viva.
Recita il Vangelo di Giovanni: “In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini”. Come potrebbe dunque comprendere una “vita” che è nel Logos, una “luce” in cui non sia il Logos?
Ed è allora un caso che si parli talvolta di una “intelligenza diabolica”, ma che non si parli mai di una “saggezza diabolica”?

Note:

01) I paradossi di Zenone, 22 ottobre 2004;
02) A.Zichichi: Galilei divin uomo – il Saggiatore, Milano 2001, p.72;
03) K.Appenzeller: La quadratura del cerchio – Il capitello del sole, Bologna 2001, p.12;
04) R.Steiner: L’albero delle Sefiroth in AntroposofiaRivista di Scienza dello Spirito, anno LIX, n°3-4, maggio-agosto 2004, p.5;
05) W.Goethe: Faust – Einaudi, Torino 1967, p.329 (traduzione di Barbara Allason);
06) F.Pessoa: Faust – Einaudi, Torino 1991, pp.3-4.

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Di Francesco Giorgi
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