Scrive Steiner: “La massima parte di ciò che oggi opera nella civiltà attraverso la tecnica, e in cui l’uomo con la sua vita è irretito in sommo grado, non è natura, ma subnatura. E’ un mondo che si emancipa dalla natura, verso il basso (…) Egli deve trovare l’energia, la forza conoscitiva interiore, per non essere sopraffatto da Arimane nella civiltà tecnica. La subnatura deve venir capita come tale. Potrà venir capita solo se l’uomo, nella conoscenza spirituale, salirà alla natura superiore extraterrena per lo meno altrettanto, quanto con la tecnica è disceso nella subnatura (…) Beninteso, questo non vuol dire che si debba ritornare a stati di civiltà precedenti, ma che l’uomo trovi la via per mettere le nuove condizioni della civiltà in un rapporto giusto con se stesso e col cosmo” (1).
Ma gli uomini, oggi, non solo non stanno andando in questa direzione, ma stanno andando addirittura in quella opposta: non si stanno sforzando, cioè, di compensare, nelle loro anime, la discesa nella tecnica e nella subnatura con una elevazione dello spirito (con lo sviluppo di un superiore grado di coscienza), bensì stanno più o meno inconsciamente lasciando che le loro anime e il loro conoscere scendano al livello della tecnica e della subnatura (“Chi non possiede se stesso – dice Schelling – diviene in breve schiavo di una cosa estranea. Chi non vuole avanzare regredisce”) (2).
Sia dunque lodata Paola Mastrocola che, nel suo La scuola raccontata al mio cane, ci dà una coraggiosa ed eloquente testimonianza di una ingravescente malattia culturale della quale ben pochi sembrano preoccuparsi.
Scrive infatti: “Io credo che quasi nessuno si chieda perché ai nostri ragazzi la scuola oggi insegni a fare articoli, saggi brevi e lettere commerciali, né quale sia la differenza teorica tra letteratura e comunicazione. Agli adulti miei coetanei, ora genitori come me, non importa molto di tutto ciò. Se scendono in piazza per la scuola, è solo per questione di orari, tempi pieni, precariato e occupazione, scuola pubblica o privata. Non certo per difendere la letteratura e i linguaggi artistici. Questioni sindacali. Non certo culturali” (3).
Chiunque abbia a cuore la vita della cultura e della scuola (e quindi il futuro dell’umanità) farebbe perciò bene a leggere questo libro, nonostante l’autrice, docente di lettere in un Liceo scientifico, osservi e valuti il fenomeno da un punto di vista classicamente “umanistico” e alla luce, sebbene in modo un po’ contraddittorio, di una concezione tradizionale dell’insegnamento (prima confessa, ad esempio: “Tra tutte le cose che mi dicono, “insegnante nostalgica” è quella che mi piace di più”, ma poco dopo dichiara: “Nessuno di noi insegnanti nostalgici pensa, credo, minimamente di voler tornare alla scuola di una volta. Nessuno si sogna di desiderare una simile idiozia”) (4).
Non pensa, dunque, che una sana educazione, per poter aiutare i giovani a risvegliare e sviluppare le loro attitudini, i loro talenti o, più in generale, la loro libera individualità e umanità, debba basarsi su una vera e profonda conoscenza dell’essere umano (dotato di corpo, anima e spirito), bensì ritiene che debba reggersi sulle colonne della “Tradizione” e del “Patrimonio”.
“Tradizione – scrive appunto – viene da trans+dare: dare, consegnare al di là, oltre. Indica una trasmissione nel tempo, una consegna, il passaggio di qualcosa alle generazioni successive. Patrimonio viene da pater: è l’insieme dei beni che qualcuno prima di te, ad esempio il padre, ti lascia. Qualcosa che diventa tuo e che tu a tua volta lascerai, in trasmissione (o tradizione) ad altri” (5).
Il concepire la cultura come un “sapere”, ossia come una “cosa” o un “bene” che si può avere o non-avere (e non pertanto essere o non-essere), e quindi come un “Patrimonio” trasferibile o non-trasferibile, la porta tuttavia a considerare i giovani come dei “contenitori”, pieni di sapere, se colti, vuoti di sapere, se ignoranti.
“I giovani – osserva appunto – non trasferiscono più nulla dentro di loro. Non si fanno più deposito. Cioè non diventano un luogo dove contenere le conoscenze, le letture” (6).
Nonostante questi limiti (e altri di natura velatamente “cognitivistica”), la Mastrocola, in virtù di una fine sensibilità personale, riesce comunque a mettere a nudo tanto l’attuale dominio, all’interno della scuola, dello spirito della tecnica e della subnatura (“al mito comunista, oggi effettivamente un po’ appannato, si è sostituito o affiancato ora il mito tecnologico”) (7) quanto la sistematica e spietata mortificazione delle anime (e non solo – come dice – delle “intelligenze”) (8) che fatalmente ne consegue. “Abbiamo fatto fuori la libertà di pensiero, – afferma ad esempio – l’originalità, la creatività individuale che prevede anche la digressione infinita, il collegamento imprevisto, persino l’andare da tutt’altra parte…Trac! Imbrigliati nella rete” (9).
Magistrale, soprattutto, è la sua puntigliosa e talvolta irridente denuncia dell’alterazione e corruzione “burocratica” e “informatica” del linguaggio.
Al riguardo, racconta: “Nel giro di quindici giorni, feci la conoscenza di cinque parole nuove: Commissione, Progetto, Autonomia, Pof (Piano dell’Offerta Formativa – nda), Accoglienza (…) Non so dire quale di quelle parole mi fece più paura (…) E’ che le parole fanno paura. Devono far paura. Le parole non sono solo parole: ci sono mondi dietro le parole. Ci sono le cose. E se di colpo appaiono parole nuove, vuol dire che ci stanno facendo passare, dietro, delle cose nuove. Quindi, se noi tranquillamente accettiamo che ci cambino le parole, accettiamo in realtà che ci cambino il mondo e la vita” (10).
Ove però considerassimo (come insegna l’antroposofia) che “dietro le parole” ci sono, più che le “cose”, gli spiriti, potremmo dire: “E se di colpo appaiono parole nuove, vuol dire che ci stanno facendo passare, dietro, degli spiriti nuovi. Quindi, se noi tranquillamente accettiamo che ci cambino le parole, accettiamo in realtà che ci cambino l’anima”.
E quali sono questi spiriti “nuovi”? Per l’appunto quelli della tecnica e della subnatura, della quantità e non della qualità, al servizio – come abbiamo visto – di Arimane (osserva infatti la Mastrocola: “Importano ormai solo le cose tecniche”) (11).
Quali altre entità potrebbero d’altronde compiacersi di chiamare gli insegnanti “funzioni obiettivo” o “funzioni strumentali” (12), la letteratura “Comunicazione” (13) e i genitori “Utenti” (14)? O quali potrebbero pretendere che l’insegnamento sia innanzitutto “utile”, senza per nulla badare, però, a che lo sia dal punto di vista non soltanto materiale, ma anche animico-spirituale? (“Qual vantaggio infatti avrà l’uomo – dice il Cristo – se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?” – Mt 16,26).
“L’intellettualità – spiega Steiner – emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per se stessa, senza pietà e senza amore” (15).
Afferma infatti l’autrice (parafrasando Petrarca) che un mondo senza Flaubert, Shakespeare, Goethe, Stevenson, Stendhal, Esiodo, Cavalcanti o Torquato Tasso “sarà un mondo dove farà molto freddo” (16), aggiungendo, per quel che riguarda in specie l’usurpazione, da parte della “Comunicazione”, del regno della letteratura, queste parole: “Quando leggi Montale, non capisci in modo univoco quel che ti dice: capisci più cose, spesso indistinte e difficilmente traducibili. Invece, se leggi il giornale, che è pura comunicazione, capisci perfettamente, ma capisci una cosa sola: ad esempio che ieri un ragazzino ha derubato la tal vecchietta nella tal strada. Ed è tutto, punto, chiudi il giornale e buonanotte: i tuoi pensieri si fermano lì, non vanno avanti. E’ come un osso, che abbia inequivocabilmente odor di osso, e basta” (17).
Ebbene, questo “odor di osso” è appunto l’odore della morte, e quindi l’odore stesso di Arimane (e dei suoi scherani).
Si domanda inoltre la Mastrocola: “Chi ha disposto che oggi le antologie siano per generi, per moduli, per percorsi? Niente da fare, non lo so; mi sfugge sempre più l’origine di queste novità che irrompono sulla scena del mio lavoro e lo stravolgono. Di colpo mi sento sempre più inerme e passiva, schiacciata da un ingranaggio che non conosco. Impossibile reagire, ribellarsi. Io ci parlerei volentieri con l’Ingranaggio, ma…dove abita?” (18).
“L’Ingranaggio” – possiamo risponderle – abita proprio là dove abita Arimane. Osserva infatti Steiner: “Quando, nello sviluppare la sua libertà, l’uomo cade nelle reti di Arimane, egli viene assorbito nell’intellettualità come in un automatismo spirituale nel quale è una parte, e non più se stesso” (19).
Se il Novecento è stato il secolo dello sterminio, nei Gulag e nei Lager, dei corpi, stiamo correndo dunque il rischio che questo divenga il secolo dello sterminio, nella cultura e nella scuola, delle anime: ossia di uno sterminio (o di una “strage degli innocenti”) che, ove non fossimo – come siamo – degli incalliti materialisti, ci apparirebbe ancor più temibile e orribile di quello dei corpi. Dice infatti il Cristo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
Per pensare, riflettere o meditare – propone l’autrice – “li vogliamo dunque spegnere ogni tanto questi telefonini, computer, e-mail, televisori, modem, Dvd? Vogliamo scollegarci un attimo? Vogliamo fare come diceva Saba, in una delle sue poesie più belle:
Anima, se ti pare che abbastanza
Vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera? ” (20).
Ma cosa ci si può aspettare da una scuola che, “truffando”, “ingannando” e “facendo del male” agli allievi (21), “non ci pensa neanche di proporre un modello diverso, un’alternativa al mondo”, bensì, volendosi conformare e adeguare a “questo mondo” – secondo quanto osserva con amara ironia la Mastrocola – “non fa lezione ma brainstorming e uscite didattiche; non boccia, ma recupera; non chiede, ma offre; non segue programmi, ma percorsi; non fa letteratura, ma comunicazione; non fornisce contenuti, ma metodi; non fa vita e opere, ma analisi del testo; non impone libri da leggere, ma lascia scegliere” (22)?
Oppure da una scuola nella quale l’insegnante non è più un “maestro” (poiché “l’attuale scuola odia i “maestri””) (23), bensì un individuo che “pianifica l’offerta, cura l’utenza, individua i percorsi, stabilisce gli obiettivi, disegna la mappa, costruisce la griglia, indica i saperi, fornisce un metodo, studia le strategie, usa gli strumenti, stabilisce i criteri, valuta oggettivamente, si autovaluta, si monitorizza, certifica le competenze, somministra i test, verifica in itinere, rispetta gli obiettivi, organizza i moduli, percorre i percorsi, si aggiorna nei contenuti e nei metodi, mette in atto il processo educativo, esplicita le competenze, concretizza le conoscenze, verifica l’apprendimento, si relaziona agli altri enti – anche e preferibilmente in contesti variabili – governa i conflitti, lavora sul territorio, innalza il tasso, il successo scolastico…ma soprattutto è flessibile, flessibile e disponibile, disponibile al cambiamento…” (24)?
Da una scuola, insomma, che, non preparando più a distinguere “che cosa è alto e che cosa è basso, che cosa è piccolo e che cosa è grande”, e a non più riconoscere “che quel che è piccolo, per ragioni ovvie, è naturalmente contenuto in ciò che è grande” (25), impedisce ai giovani d’imparare a distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il bene dal male o, in sintesi, l’umano dal non-umano?
Per concludere, vorremmo permetterci, in tutta e sincera modestia, di dare alla brava e arguta Mastrocola un piccolo suggerimento. Se è vero – come afferma – che “stiamo curando il malato (la scuola – nda) con medicine vecchie” (26), e se non è del tutto convinta della “utopia della Scuola-Stanza tutta per sé” che propone alla fine del libro (27), perché non prova allora a cercare una medicina davvero nuova (28), affrontando quella parte dell’insegnamento di Steiner dedicata all’educazione, e dalla quale hanno tratto e continuano a trarre costante ispirazione le numerose scuole “Waldorf “ operanti oggi nel mondo (29)?
Note:
01) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.223 e 224;
02) F.W.J.Schelling : Clara – Guerini e Associati, Milano 1987, p.43;
03) P.Mastrocola: La scuola raccontata al mio cane – Guanda, Parma 2004, pp.109-110;
04) ibid., pp.182 e 183;
05) ibid., p.47;
06) ibid., pp.144-145;
07) ibid., p.76;
08) ibid., p.173;
09) ibid., p.93;
10) ibid., p.21;
11) ibid., p.80;
12) ibid., p.55;
13) ibid., p.100;
14) ibid., p.122;
15) R.Steiner: op. cit., p.102;
16) P.Mastrocola: op. cit., p.90 (corsivo nostro);
17) ibid., p.103;
18) ibid., p.85;
19) R.Steiner: op. cit., p.104 (corsivi nostri);
20) P.Mastrocola: op. cit., p.163;
21) ibid., p.168;
22) ibid., p.138;
23) ibid., p.41;
24) ibid., p.42;
25) ibid., p.109;
26) ibid., p.183;
27) ibid., p.187;
28) nella nota Eclisse della ragione (12 maggio 1999), abbiamo a questo proposito scritto: “Sul piano storico e culturale, la “tecnocrazia”, per il suo carattere estensivo e intensivo, rappresenta un fenomeno del tutto nuovo: e proprio perché tale, non si presta a essere compreso e dominato da alcuna forza proveniente dal passato. Se “le grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale” – come dice Severino – vanno perciò “ritirandosi ai margini” è perché le stesse (senza rendersene conto) sono da tempo già morte. Ogni speranza, dunque, non può essere riposta che in un pensiero del tutto nuovo: in un pensiero, ossia, che si dimostri capace di attingere alla “sovranatura” la forza che gli necessita per comprendere e dominare quella della “subnatura”, e porre così davvero la tecnica “a disposizione dell’uomo”;
29) la prima di queste scuole fu creata nel 1919 da Emil Molt per i figli degli operai della fabbrica “Waldorf-Astoria”.