Avvertenza:
il presente articolo segue quelli (aventi lo stesso titolo) del 29 marzo e del 18 aprile 2005, ma nasce dalla rielaborazione, da parte dell’autore, di una sua conferenza del 1998.
Scrive Pasquale Galluppi (Tropea 1770 – Napoli 1846):
“Noi abbiamo delle idee, che sono immediatamente unite agli oggetti, e che non sono rappresentazioni, o immagini, ma intuizioni immediate (…) La definizione dunque ordinaria delle idee è falsa, poiché vi sono in noi delle idee che non sono immagini, ma intuizioni (…) Nelle verità primitive le idee investono, prendono immediatamente gli oggetti” (1).
Ma perché non dire che le idee, “che sono immediatamente unite agli oggetti, e che non sono rappresentazioni, o immagini, ma intuizioni immediate”, sono i “concetti”? E che questi, in quanto appunto “intuizioni immediate”, presuppongono necessariamente un intuire?
Si dovrebbe infatti distinguere l’atto dell’intuire dal contenuto intuito (il concetto), così come, a un diverso livello, si distingue l’atto del percepire dal contenuto percepito (il percetto).
Con il termine “percezione” – scrive a questo proposito Steiner – non indico il “processo dell’osservazione (l’atto del percepire – nda), ma l’oggetto dell’osservazione stessa” (il percetto – nda) (2).
Come dunque il percetto costituisce il contenuto della percezione sensibile (o il modo in cui l’essenza dell’oggetto si dà al percepire), così il concetto costituisce il contenuto dell’intuizione (o il modo in cui l’essenza dell’oggetto si dà al pensare); ed è proprio operando una loro sintesi che l’Io crea prima la rappresentazione (bidimensionale) e poi l’immagine percettiva (tridimensionale).
“La percezione – sottolinea infatti Steiner – è una rappresentazione trasportata nel mondo esteriore” (3).
Contrariamente a quanto in genere si crede, è quindi la rappresentazione a precedere l’immagine percettiva, così come è il concetto a precedere la rappresentazione.
“La rappresentazione – osserva ancora Steiner – non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione (…) La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato” (4).
Per intendere questi passi bisogna però tenere presente che il termine “percezione” sta, nel primo, per “immagine percettiva” e, nel secondo, invece, per “percetto” (ovvero, per quel contenuto che si presenta, agli organi di senso, come uno stimolo indeterminato). Si tenga altresì presente che un “concetto individualizzato” è un concetto che, col farsi rappresentazione, è sceso di livello e ha assunto forma soggettiva.
E’ dunque in virtù di una inconscia attività immaginativa che il concetto, in sé privo di forma, viene a manifestarsi, sul piano animico, come rappresentazione e, su quello fisico, come immagine percettiva.
Scrive Galluppi:
“Fa d’uopo (…) ammettere nello spirito una passibilità, ed un’attività. Gli oggetti de’ nostri pensieri sono l’Io, e le sue modificazioni; un fuor di me, e le sue modificazioni. La coscienza ci offre i primi due oggetti, la sensibilità esterna, o semplicemente sensibilità, ci offre i secondi. Se le percezioni della coscienza, e della sensibilità cessassero intieramente dopo di essere nate nel nostro spirito, l’edificio delle nostre conoscenze non potrebbe formarsi: lo spirito resterebbe incessantemente nel principio della sua conoscenza. E’ necessaria dunque una facoltà la quale renda permanenti nello spirito gli oggetti a lui dati dalla coscienza, e dalla sensibilità: questa è appunto la facoltà riproduttiva delle percezioni, ed in generale de’ pensieri tutti, ed a questa darò il nome di immaginazione” (5).
Non distinguendo il ricordo in sé (il cosiddetto “engramma” avente natura di concetto) dalla immagine mnemonica (ovvero, dalla rappresentazione del ricordo), Galluppi confonde l’immaginazione con la “memoria” (che rende appunto “permanenti” le acquisizioni dello spirito), mostrandosi per di più convinto che sia una facoltà ri-produttrice e non produttrice.
Così infatti ribadisce: “Allora che un oggetto si è manifestato a’ nostri sensi, e, facendo un’impressione su di essi, vi ha prodotto una percezione; questo oggetto essendo assente, ed incapace di agire attualmente su de’ nostri organi sensorj, lo spirito ha nulla di meno la facoltà di percepirlo, cioè di riprodurre la sua percezione. A questa facoltà io do il nome di immaginazione ed alla percezione riprodotta dò il nome di fantasma” (6).
Per lui, il “fantasma” (la rappresentazione) non è quindi una creazione o una metamorfosi del concetto (stimolata dalla percezione e operata inconsciamente dall’Io), bensì una riproduzione interiore della immagine percettiva esteriore.
Nello spirito, egli distingue infatti una “passibilità” (della sensibilità) e una “attività” (della coscienza).
Ciò dimostra, ancora una volta, che chi si approssima filosoficamente all’inconscia attività del pensare (del pensare quale atto dell’Io), resta comunque lontano dall’esperienza dell’inconscia attività del percepire (del percepire quale atto dell’Io).
Scrive Galluppi:
“Lo spirito non decompone, che per ricomporre di nuovo, egli, dopo di aver osservato separatamente le qualità, le riunisce al loro oggetto. Quest’atto dello spirito, con cui riunisce gli elementi dell’oggetto, chiamasi giudizio. Il giudizio non è dunque che un’analisi della percezione complessa. La percezione vede gli elementi dell’oggetto come riuniti, il giudizio li vede separati e li riunisce. Per riunirli, è necessario che li trovi separati; l’attenzione è, appunto, l’atto che li separa” (7).
“Il puro pensare – fa notare tuttavia Steiner – è affine all’espirazione, come il percepire è affine all’inspirazione. Noi oggi dobbiamo in certo modo ripetere lo stesso processo che l’orientale sperimenta nella sua filosofia yoga, ma respinto più profondamente nell’interiorità umana. La filosofia yoga è diretta verso un’inspirazione e un’espirazione regolate, e in tal modo afferra l’elemento eterno nell’uomo. E che cosa può fare l’uomo occidentale? Può sperimentare chiaramente nell’anima per se stesso, da un lato la percezione, dall’altro il pensare. E può congiungere il percepire e il pensare, che di solito si mettono in connessione soltanto a freddo, in modo astratto e formale, in un’esperienza interiore, in modo da vivere spiritualmente quello che si sperimenta sul piano fisico nell’inspirare, nell’espirare. Sul piano fisico si sperimentano l’inspirazione e l’espirazione; nel loro accordo si sperimenta coscientemente l’eterno. Nell’esperienza comune incontriamo la percezione e il pensare; attivando la vita dell’anima, si sperimenta l’oscillazione pendolare, il ritmo, il continuo vibrante compenetrarsi del percepire e del pensare. E come per l’uomo orientale dall’inspirazione e dall’espirazione si sviluppa una realtà superiore, così dal processo vivificato dell’inspirazione modificata nella percezione, e dall’espirazione modificata nel pensare puro, si sviluppa per gli occidentali, nell’intreccio reciproco del concetto, del pensiero e della percezione, una specie di respirazione spirituale-animica, al posto della respirazione fisica della filosofia yoga. Per mezzo di questo ritmico respiro della percezione e del pensare ci si innalza alla vera realtà spirituale, nell’immaginazione, nell’ispirazione e nell’intuizione” (8).
Lo spirito che “decompone” e “ricompone” le “qualità” è dunque il vero protagonista di quell’attività conoscitiva che si manifesta come analisi nel percepire (nell’inspirare) e come sintesi nel pensare (nell’espirare).
Ma perché il giudizio gli appare allora “un’analisi della percezione complessa”? Perché egli non fa alcuna distinzione tra l’atto percettivo del soggetto, gli stimoli percettivi in cui si frammenta l’unitario percetto e la conclusiva immagine percettiva dell’oggetto.
Anziché asserire che lo spirito “dopo aver osservato separatamente gli elementi, li riunisce, vale a dire, dopo di aver osservato separatamente le qualità, le riunisce al loro oggetto”, si dovrebbe infatti asserire che lo spirito (l’Io), dopo aver accolto i diversi stimoli e averli trasformati in concetti, riunisce quest’ultimi, mediante il giudicare, in un unico concetto sovraordinato che si dà quale determinazione dell’originario e unitario percetto.
Sarebbe importante inoltre osservare che, nell’ambito dell’ordinario processo conoscitivo, il percepire svolge un’attività analitica rispetto al mondo sensibile, mentre l’intelletto ne svolge sia una sintetica rispetto agli elementi analizzati dal percepire, sia una analitica rispetto al mondo sovrasensibile dei concetti o delle idee.
L’intelletto, infatti, riunisce in un solo concetto i molteplici stimoli nei quali si è suddiviso (a causa dell’organizzazione dei sensi) l’oggetto, ma al contempo separa e isola tale concetto da quella unità e totalità costituita dal mondo dei concetti o delle idee.
Sarà la ragione, in un momento successivo, a ri-porre tale concetto “astratto” (da abstrahere, cioè “strappar via”, “distogliere”, “distrarre”) in rapporto con gli altri concetti e a ri-armonizzarlo così col suo mondo (col mondo delle “sfere”).
“Concetto – puntualizza in proposito Steiner – è il pensiero singolo quale viene fissato dall’intelletto. Se metto in movimento, in un vivo fluire, una pluralità di siffatti singoli pensieri, sì che essi si interpenetrino e si colleghino, ne nascono delle figurazioni di pensiero accessibili solo alla ragione, irraggiungibili dall’intelletto. Per la ragione, le creature dell’intelletto rinunciano alle loro esistenze separate e continuano a vivere soltanto come parte di un tutto. Chiameremo idee queste configurazioni create dalla ragione” (9).
Scrive Galluppi:
“I rapporti, che gli oggetti hanno fra di loro, non sono questi medesimi oggetti; il rapporto di eguaglianza, o di diseguaglianza di un corpo ad un altro, non è certamente la percezione di uno di questi corpi, né di tutti e due; noi potremo sentirne uno senza sentirne l’altro e potremmo sentirli tutti e due senza vederne il rapporto. La cognizione del rapporto è dunque un’opera dello spirito, e non può essere una sensazione” (10).
Perché si dia, quale “opera dello spirito”, la “cognizione del rapporto” tra due oggetti è tuttavia indispensabile che questi vengano prima trasformati, da percetti indeterminati, in concetti determinati. La “cognizione del rapporto” tra due oggetti non è infatti che la cognizione del rapporto (di pensiero) tra due concetti. Galluppi stesso ammette: “I rapporti nascono dalle essenze delle cose” (11).
Scrive Galluppi:
“Gli oggetti che noi possiamo percepire sono da una parte l’Io, e le sue modificazioni; da un’altra parte, gli oggetti esterni al principio, che percepisce. Io chiamo sensibilità interna la facoltà di percepire il me, e le sue modificazioni, e sensibilità esterna quella di percepire gli oggetti esterni al me. Si domanda: (…)L’atto dello spirito che ci fa conoscere i corpi è una sensazione, una percezione, o pure un giudizio? Ossia: L’anima, l’Io prova o potrebbe provare delle sensazioni, senza sentire il suo corpo, ed i corpi esterni? O senza sentire un fuor di sé? Se la percezione è l’operazione primitiva, ed elementare dello spirito, quali sono dello spirito le prime percezioni? La percezione di un fuor di sé è ella compresa in queste percezioni primitive? Per quali mezzi noi arriviamo alla conoscenza di un fuor di noi? ” (12).
Supponiamo – esemplifica – che le mie mani in un primo momento semplicemente si tocchino, ma che poi, con la destra, io prenda una penna. L’analisi di questa “percezione complessa” mi offrirà allora le seguenti conoscenze: dapprima, “sento, o esisto nello stato di sentire”, “sento la mano dritta”, “sento per mezzo della mano dritta la mano sinistra”, “sento ancora per mezzo della mano sinistra la mano dritta”, “sento la mano dritta fuori della mano sinistra”, “sento le due mani in un limite comune”; poi, una volta presa la penna, “sento qualche cosa fuori delle mie dita”, “la sento nel limite comune delle mie dita”, “non sento in questa cosa, o per mezzo di questa cosa, ma sento col mezzo delle mie dita”, “non esisto in questa cosa ma essa mi limita”, “questa cosa è dunque fuori di me e non mi è unita”, “non sento questa cosa se non in quanto sento le mie dita, e per le modificazioni, o per i sentimenti, ch’ella mi fa provare”, “sento dunque una X, che esiste fuori di me, e che mi modifica”, “tutte queste sensazioni si riuniscono nell’unità della coscienza, e lo stesso essere, che prova una di queste sensazioni, prova ancora le altre, ed è conscio di tutte” (13).
In realtà, “tutte queste sensazioni”, prima di darsi come tali, non sono che delle percezioni indeterminate che, per potersi determinare, devono essere integrate dai relativi concetti. Galluppi dice di sentire la penna come una X che esiste fuori di lui, e che lo modifica; ma egli non può far altro, inizialmente, che percepire come una X tanto se stesso quanto la mano destra, la mano sinistra e la penna. Senza far ricorso al pensiero, come potrebbe infatti determinare se stesso come “soggetto” (o “io”), la penna come “oggetto” (o “non-io”) e i suoi arti come “mano destra” e “mano sinistra”?
Come visto, si chiede pure: “L’atto dello spirito che ci fa conoscere i corpi è una sensazione, una percezione, o pure un giudizio? ”.
Ma “l’atto dello spirito” – possiamo rispondere – è le tre cose insieme: da principio si dà infatti come una percezione, poi come una sensazione e infine come un giudizio. Non si tratta pertanto di scegliere tra l’una e l’altra cosa, quanto piuttosto di cogliere le successive e vive metamorfosi (le “stazioni”, direbbe Hegel) di uno stesso contenuto e di ordinarle gerarchicamente, dal momento che le essenze dei “corpi” si presentano come “percezioni” sul piano fisico, come “sensazioni” e “rappresentazioni” sul piano animico e come “concetti” su quello spirituale.
La percezione di un “fuor di noi” è dunque una percezione che, come tale, si è già risolta in un giudizio.
Ma “per quali mezzi – si domanda ancora Galluppi – noi arriviamo alla conoscenza di un fuor di noi?”.
Ebbene, per la scienza dello spirito, non c’è che questa risposta: arriviamo alla conoscenza di un mondo che è fuori di noi perché, nella nostra costituzione, c’è un “noi” che è fuori del mondo.
“Nel capo dell’uomo – spiega infatti Steiner – l’organizzazione fisica è un’impronta dell’individualità spirituale. La parte fisica e quella eterica del capo stanno come immagini concluse dello spirituale, e accanto ad esse stanno la parte astrale e quella dell’io, come entità animico-spirituale autonoma. Nel capo dell’uomo si ha dunque a che fare con un’evoluzione parallela delle parti relativamente autonome fisica ed eterica da un lato, dell’organizzazione astrale e di quella dell’io dall’altro” (14).
L’uomo, quale essere animico-spirituale, sta dunque, nella testa, “fuori del mondo”: è cioè separato da un’altra parte di sé che è viceversa unita al mondo.
“Nel sistema delle membra e del ricambio dell’uomo – ricorda appunto Steiner – le quattro parti costitutive dell’essere umano sono intimamente collegate. L’organizzazione dell’io e il corpo astrale non sono accanto alla parte fisica ed eterica. Vi sono dentro; le vivificano, agiscono nella loro crescita, nella loro facoltà di movimento, e così via” (15).
Ciò vuol dire dunque che l’uomo, quale essere animico-spirituale, si trova, con l’organizzazione eterico-fisica della testa, in una relazione simile a quella in cui si trova, subito dopo la morte, con il proprio cadavere. Come, al momento della morte, quest’ultimo si allontana infatti da lui, così, durante la vita (al compimento della cosiddetta “età evolutiva”) si allontana da lui l’apparato neuro-sensoriale (in specie la neocorteccia).
E’ proprio in virtù di questa separazione, però, che l’essere animico-spirituale dell’uomo può utilizzare l’organizzazione eterico-fisica della testa come uno specchio e cominciare così a usufruire di una coscienza riflessa di sé e del mondo (“L’attività del separare – scrive Hegel – è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta”) (16).
Tale coscienza riflessa è l’ordinaria e astratta coscienza rappresentativa o intellettuale.
La percezione dell’essenza dell’oggetto (dell’entelechia) si dà perciò come un processo vivo e reale, poiché vi è impegnata quella parte dell’uomo (metabolica o volitiva) ch’è unita al mondo, mentre la rappresentazione interiore nella quale sfocia tale processo si dà come uno spento prodotto ideale, poiché non è che un’immagine speculare dell’essenza spirituale.
Perveniamo dunque “alla conoscenza di un fuor di noi” solo perché ci serviamo della mediazione cerebrale.
Quanto per la coscienza ordinaria è “fuor di noi”, per quei superiori livelli di coscienza detti, da Steiner, “ispirativo” e “intuitivo” si rivela infatti essere, rispettivamente, in noi e noi.
Scrive Galluppi:
l’attenzione è un “atto volontario”, una “analisi” (17); “le idee si legano fra di esse nell’attenzione” (18).
Ma l’attenzione, più che un “atto volontario”, è un “atto dell’Io” che si realizza mediante il volere nel pensare, così come l’intenzione è un “atto dell’Io” che si realizza, all’opposto, mediante il pensare nel volere.
Galluppi sembra inoltre contraddirsi poiché afferma sia che l’attenzione è una “analisi” sia che “le idee si legano tra loro nell’attenzione”.
Sarebbe bene invece realizzare che l’attenzione (quale atto dell’Io o Io in atto) conosce il suo momento analitico allorché, per afferrare l’oggetto reale (il percetto), va in modo centrifugo dall’Io agli organi di senso, mentre conosce il suo momento sintetico allorché, per afferrare l’oggetto ideale (il concetto), va in modo centripeto dagli organi di senso all’Io.
Eccoci perciò di nuovo al cospetto di quel fenomeno già caratterizzato da Steiner con le seguenti parole: “Attivando la vita dell’anima, si sperimenta l’oscillazione pendolare, il ritmo, il continuo vibrante compenetrarsi del percepire e del pensare” (19).
Scrive Galluppi:
“Non vi sono idee innate, ma tutte le idee sono acquistate” (20).
Nell’intento di prendere le distanze dall’innatismo, egli fa sua la lezione dell’empirismo e non si cura perciò di distinguere l’idea dalla coscienza dell’idea.
Grazie all’esperienza sensibile, “acquistiamo” infatti, non le idee, bensì la coscienza delle idee.
Parlando dell’idealismo di Eduard von Hartmann, Steiner osserva appunto: “Sebbene (…) l’idea non si manifesterebbe affatto ove non esistesse la coscienza, essa deve, nondimeno, venire concepita così che la sua caratteristica non stia nell’essere cosciente, bensì in ciò ch’essa è ed ha in se stessa, indipendentemente dal suo divenire cosciente” (21).
E’ questo un punto decisivo. Chiunque non sia in grado di afferrare la natura ideale delle forze attive nell’inconscio, mai potrà infatti operare tale distinzione e mai potrà venire perciò a capo dei problemi posti dalla moderna gnoseologia.
La prima cosa da fare, a questo fine, è proprio quella di realizzare che l’odierna coscienza intellettuale o rappresentativa dell’idea, in quanto coscienza riflessa, ci dà l’idea come forma (ideale), ma non come forza (reale), inducendo perciò il soggetto nell’erronea convinzione che la viva forza dell’idea (sperimentata inconsciamente nella percezione) sia estranea alla spenta forma appresa dall’intelletto.
Emblematica, al riguardo, è la concezione di Schopenhauer: in tale forza, egli vede infatti l’espressione di una “volontà” contrapposta per l’appunto alla “rappresentazione”.
Fatto si è che solo in virtù della scienza dello spirito di Rudolf Steiner (in grado di afferrare le inconscie dinamiche del pensare, prima ancora di quelle del sentire e del volere) ci si può rendere conto che l’essenza dell’oggetto o del fenomeno (l’entelechia) è unità di forma e di forza, mentre il dato immediato della percezione (il percetto) è una forza senza forma (in quanto sperimentato mediante il volere) e il dato mediato del pensiero (la rappresentazione) è una forma senza forza (in quanto appreso dal pensare riflesso dall’organo cerebrale).
Chiunque non sia pago del dualismo (cartesiano) tra la res extensa (il reale) e la res cogitans (l’ideale), ma si ostini al contempo a ignorare la scienza dello spirito, non potrà dunque far altro che ricorrere a una mera reductio ad unum: a una riduzione della forza alla forma (del reale all’ideale), quale viene operata (lucifericamente) dai razionalisti o dagli idealisti; della forma alla forza (dell’ideale al reale) quale viene operata (arimanicamente) dagli empiristi o dai materialisti.
Scrive Galluppi:
“Io non son partito dalla tavola rasa: io son partito dal sentimento del me, il quale sente un fuor di me (…) Tutte le idee, che sono un prodotto della meditazione sul sentimento del me, il quale sente un fuor di me, io le chiamo idee essenziali all’intelletto o idee naturali” (22).
Allorché nascono, insieme, l’anima cosciente (l’autocoscienza), la scienza e la modernità, l’uomo si scopre separato, nella sfera della coscienza (della testa), dalla natura. Gli si viene perciò a porre, con la massima intensità, il problema del significato e del valore della sua attività conoscitiva: che rapporto c’è – prende ad esempio a domandarsi – tra le idee che stanno nella mente e le cose che stanno fuori della mente? Ovvero, che rapporto c’è tra quanto produce l’intelletto e quanto si trova nel mondo?
Orbene, se i concetti (le idee “essenziali” o “naturali” di Galluppi) fossero prodotti o creati dall’intelletto, in occasione della sua “meditazione sul sentimento del me”, non farebbero che riproporsi, seppure a un altro livello, gli interrogativi di sempre: di quando si “medita” cioè sulle cose, e non sul “sentimento del me”.
Il sentimento del “me” e quello del “fuor di me” non rappresentano infatti che il modo in cui i dati rispettivamente forniti dall’autopercezione del soggetto e dalla percezione dell’oggetto si presentano, prima di essere accolti nella sfera del pensiero, nella sfera della sensazione e in quella del sentimento; ed è compito appunto del pensare l’esplicitare (concettualmente) quanto è ancora implicito negli stimoli e negli impulsi nervosi, e che, risalendo dal corpo all’anima, prende a venire alla luce (a risvegliarsi) prima in forma di sensazione, poi di sentimento e infine di pensiero (23).
“Al sapere – osserva in proposito Hegel – è di necessità inerente non meno la meta che la serie del processo; la meta è là dove il sapere non ha più bisogno di andare oltre se stesso, dove trova se stesso, dove il concetto corrisponde all’oggetto e l’oggetto al concetto” (24). L’intelletto, dunque, non produce o crea i concetti, bensì li percepisce negli oggetti e nei fenomeni del mondo.
Scrive Galluppi:
“Noi abbiamo una nozione generale della sostanza, ma noi non conosciamo affatto la natura, o, come suol dirsi, l’essenza di ciascuna sostanza in particolare. E’ questo il primo limite dello spirito umano. Egli ignora l’essenza particolare specifica dello spirito umano. Egli ignora l’essenza particolare, individuale dello spirito di alcuno individuo. Egli ignora l’essenza particolare, generica delle prime sostanze del mondo materiale. Egli ignora l’essenza individuale di ciascuna sostanza particolare della materia, cioè di ciascuna monade. Egli non conosce l’essenza generica dell’anima de’ bruti, né la specifica, per cagion di esempio, del cane, dell’asino, ecc.; né l’individuale di quella di tal cane, ecc.. Egli sa molto bene che l’infinito esiste; ma è molto lontano da poterne comprendere la natura” (25).
Conoscere la “natura” o “l’essenza di ciascuna sostanza in particolare” significa però conoscere la realtà qualitativa del concetto, per poter poi risalire, da questa, a quella spirituale dell’Io.
Tanto la conoscenza dell’una quanto quella dell’altra sarebbero tuttavia impossibili se non si facesse anzitutto esperienza, muovendo dall’ordinaria coscienza rappresentativa, della vivente realtà del pensare (26).
Grazie alla coscienza rappresentativa, si sperimenta infatti la realtà dell’io “finito” (dell’ego) o “relativo” (al non-ego), mentre, in virtù di quella immaginativa, si comincia a sperimentare la realtà dell’Io “infinito” o “assoluto” (dell’Io spirituale).
Fatto si è (per dirla con Steiner) che come i concetti, quali “creature” dell’intelletto, rinunciano alle loro “esistenze separate” e “continuano a vivere”, nella ragione, “come parte di un tutto” (dell’idea), così, a un superiore livello, le idee, quali “creature” della ragione, rinunciano alle loro “esistenze separate” e “continuano a vivere”, nell’Io, come parte di un tutto.
E’ vero, dunque, che il pensiero “finito” (la rappresentazione) non può comprendere la natura dell’”infinito”; ma non può comprenderla soltanto perché, non riuscendo di norma a trascendere il proprio stato, si figura l’”infinito” come altro da sé (proiettandolo magari in una trascendenza).
Pertanto, ove l’uomo, anziché ricercare lo spirito “fuori” di sé, guardasse “dentro” di sé, sforzandosi di osservare e sperimentare, con l’ausilio di una corretta disciplina interiore, la vita o il movimento del pensiero (27), prima o poi ricaverebbe, da questo suo impegno extraordinario, tutta la forza che gli occorre per risorgere con la propria coscienza dalla tomba dello spazio e immettersi in quella viva e luminosa attività dello spirito che sola può condurlo, in modo graduale, libero e consapevole, al suo vero Io.
Note:
01) P.Galluppi: Saggio filosofico sulla critica della conoscenza – Estratti, con Introduzione e Note di Carmelo Librizzi – Signorelli, Roma 1964, p.18;
02) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p.52;
03) R.Steiner: Antroposofia – Psicosofia – Pneumatosofia – Religio, Roma 1939, p.83;
04) R.Steiner: La filosofia della libertà, p.89;
05) P.Galluppi: op.cit., p.35;
06) ibid., p.36;
07) ibid., pp.18-19;
08) R.Steiner: I confini della conoscenza della natura – Antroposofica, Milano 1979, p.117;
09) R.Steiner: Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, pp.63-64;
10) P.Galluppi: op.cit., pp.22-23;
11) ibid., p.25;
12) ibid., p.29;
13) ibid., p.30;
14) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.26;
15) ibid., pp.26-27;
16) G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, p.19;
17) P.Galluppi: op.cit., p.37;
18) ibid., p.39;
19) vedi nota 8;
20) P.Galluppi: op.cit., p.59;
21) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.164;
22) P.Galluppi: op.cit., p.61;
23) scrive Hegel: “La sensazione è la forma dell’agitarsi ottuso dello spirito nella sua individualità priva di coscienza e di intelletto (…) il pensiero è ciò che vi ha di più proprio onde l’uomo si distingue dal bruto, e che la sensazione si ha in comune col bruto” (G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p.391);
24) G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito, p.52;
25) P.Galluppi: op.cit., p.75;
26) a differenza di Hegel che pone “nell’automovimento del concetto ciò mediante cui la scienza esiste” (G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito, p.42), Steiner pone infatti nell’automovimento pensante dell’Io ciò mediante cui la scienza esiste;
27) avverte infatti Hegel: “E’ peraltro assai più difficile rendere fluidi i pensieri solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile” (ibid., p.20).