Abbiamo detto, l’ultima volta, che “ricercare” muniti di un criterio ideale (di un’idea-guida) che consenta di poter ragionevolmente contare sulla conferma dei fatti, è cosa ben diversa dal procedere alla cieca, come un viaggiatore sprovvisto di mappe o di bussola.
Ascoltate quanto scrive Steiner, a commento dell’esposizione fatta da Johann Wilhelm Josephi (1763-1845), libero docente all’Università di Gottinga, della scoperta dell’osso intermascellare:
“Questa è certamente una esposizione completa della scoperta di Goethe, ma non derivata da una coerente applicazione dell’idea del tipo, bensì come espressione di un dato di fatto immediatamente constatabile. Quando ci si appoggia unicamente a casi simili, allora dipende soltanto da circostanze fortuite che si riescano a trovare proprio quegli esemplari nei quali la cosa è chiaramente visibile. Se invece si concepisce la cosa nella maniera ideale di Goethe, questi esemplari speciali servono solo a confermare l’idea, cioè a render manifesto ciò che di solito la natura occulta; ma l’idea stessa può venir seguita in qualunque esemplare; ciascuno ne mostra sempre un aspetto particolare. Appunto quando si possiede l’idea, si è in grado di trovare proprio quelle circostanze in cui essa specialmente si esprime. Invece, senza di essa si è soggetti al caso” (p. 40).
Ebbene, oggi (facendo di necessità, virtù) si è giunti addirittura a teorizzare e sancire la funzione evolutiva del caso, attribuendogli il ruolo del Deus ex machina. Sentite, appunto, quel che scrive Jacques Monod (1910-1976): “Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell’evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi, sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche (…) La selezione agisce sui prodotti del caso e non può alimentarsi altrimenti; essa opera però in un campo di necessità rigorose da cui il caso è bandito. Da queste necessità, e non dal caso, l’evoluzione ha tratto i suoi orientamenti generalmente ascendenti, le sue successive conquiste, il dipanarsi ordinato di cui offre apparentemente l’immagine” (J.Monod: Il caso e la necessità – Mondadori, Milano 1999, pp. 110-111).
Dunque: “In principio era il caso…”.
Noi siamo convinti, tuttavia, che simili teorizzazioni non derivino che da una “proiezione” della casualità che governa il modo di procedere del soggetto, in questo caso del ricercatore, sull’oggetto, ovverosia sulla natura o sul mondo.
Per quale motivo, d’altronde, un ricercatore privo di un’idea-guida, abituato quindi a muoversi a caso, non dovrebbe essere indotto a credere che la natura faccia altrettanto?
Ma che cos’è il caso? Nient’altro – direbbe Voltaire (1694-1778) – che la “causa ignota” di un “effetto noto”: ossia, uno “scotoma”, un “punto nero” che occulta e usurpa il ruolo dello spirito o, se si vuole, un’idea vuota o un concetto privo di concetto all’incirca nello stesso senso in cui – come abbiamo visto citando Hegel – la quantità è “una qualità priva di qualità”.
Non è d’altro canto emblematico che i meccanicisti, proprio coloro, cioè, in cui domina la forma mentis quantitativa o “computazionale”, eleggano il caso a loro Dio?
Ma andiamo avanti.
Scrive Steiner: “Come nelle infinite forme vegetali egli cerca la pianta primordiale (…) così in relazione agli animali e all’uomo, Goethe aveva fatto di tutto per “scoprire caratteri ideali” che fossero pienamente conformi alle leggi naturali. Subito dopo il suo ritorno dall’Italia, apprendiamo ch’egli lavora diligentemente in Anatomicis, e nel 1789 scrive a Herder: “Ho da esporre un’armonia della natura nuovamente scoperta”. Doveva trattarsi allora d’una parte della teoria vertebrale del cranio il cui completamento però cade nel 1790. Ciò ch’egli sapeva fin da allora, era che tutte le ossa formanti l’occipite sono tre vertebre modificate. Goethe immaginava questo fatto nel modo seguente: il cervello non rappresenta che un midollo spinale perfezionato in sommo grado; mentre nel midollo spinale terminano e se ne dipartono i nervi che servono specialmente alle funzioni organiche inferiori, nel cervello terminano e se ne dipartono i nervi che servono alle funzioni superiori spirituali, specialmente i nervi sensori. Nel cervello compare sviluppato ciò che è accennato in potenza nel midollo spinale. Il cervello è un midollo completamente perfezionato; il midollo spinale, un cervello non ancora giunto a perfetto sviluppo. Ora le vertebre della spina dorsale sono completamente adattate alle parti del midollo spinale, di cui sono gli organi di protezione. Appare quindi molto verosimile, che se il cervello è un midollo spinale a una potenza superiore, anche le ossa che lo proteggono siano solo vertebre più perfette” (pp. 42-43).
Come vedete, per poter afferrare la realtà di questi processi o di queste metamorfosi è necessario mettere in movimento il pensiero. Non si tratta infatti di stabilire solamente che A è A e B è B, che C è C e D è D (come fa la logica analitica, in ossequio al principio d’identità), bensì di capire come A si muti in B e come C si muti in D: come, cioè, dal midollo divenga il cervello e come dalle vertebre divengano le ossa craniche.
Tirando in ballo il divenire, si tira in ballo naturalmente anche il tempo. Chi è più vecchio, ad esempio, il midollo o il cervello? Indubbiamente il cervello, perché prima di essere un cervello è stato un midollo. Il cervello – per dirla con Jung – è dunque un “Senex”, mentre il midollo è un “Puer”; e lo stesso vale per le ossa craniche e le vertebre.
Ciò che importa, tuttavia, è che tali processi non sono direttamente osservabili dai sensi (fisici). Con gli occhi del corpo, possiamo infatti vedere il midollo spinale e il cervello, le vertebre e le ossa craniche, ma non il primo trasformarsi nel secondo né le terze trasformarsi nelle quarte: possiamo vedere insomma le cose, ma non il movimento grazie al quale si metamorfosano.
Oggi ci si vanta, a ragione, di essere evoluzionisti. Ma l’evoluzione è un processo, e non una cosa che possa essere vista con gli occhi; con questi, si possono infatti vedere le cose “evolute” o “involute”, ma non l’“evoluzione”, poiché questa può essere “vista” soltanto dal pensiero: può essere cioè solo “immaginata”. Ma è possibile immaginarla così com’è (oggettivamente) senza disporre di un adeguato livello di coscienza (quello, appunto, immaginativo)? No, non è possibile. Tutti gli errori e le grossolanità del darwinismo e del neo-darwinismo (responsabili, oltretutto, di aver ridato fiato al “creazionismo”) derivano infatti, essenzialmente, dall’aver portato ingenuamente incontro alla realtà dinamica dell’evoluzione, quella statica dell’intelletto.
Ricordate quanto abbiamo detto, a suo tempo, di quelle proprietà che la scienza definisce oggi “emergenti”? Ebbene, abbiamo qui un esempio di come stiano in realtà le cose. Abbiamo appena visto, infatti, che le forze attive a un livello inferiore (nel midollo e nelle vertebre), a un livello superiore (nel cervello e nelle ossa craniche) veicolano proprietà o qualità diverse.
Le proprietà o qualità dunque “emergono” (si attuano) – è vero – “solo a un certo livello di aggregazione” della materia o della sostanza, ma in tanto possono farlo, sia in quanto ai livelli precedenti sono, non “assenti”, bensì “immerse” (potenzialmente presenti), sia in quanto è in virtù della loro stessa attività che la materia o la sostanza raggiunge un “livello di aggregazione” superiore.
Chi non comprende la realtà di questi processi finisce pertanto col ragionare allo stesso modo di chi, vedendo un sub emergere dall’acqua, ma non avendolo visto immergervisi, si desse a sostenere che il sub, in quanto “emergente” dall’acqua, è stato creato o prodotto dall’acqua.
In ogni caso, della scoperta che “tutto il capo appare già preformato negli organi corporei inferiori”, Steiner dice:
“Era una scoperta del più vasto significato; con la quale restava dimostrato che tutti gli elementi di un complesso organico sono idealmente identici; che masse organiche “internamente non formate” si manifestano all’esterno in modo diverso, e che la stessa cosa si palesa su di un piano inferiore come nervo spinale, su di uno superiore come nervo di senso specifico, per aprirsi poi in organi di senso, capaci di percepire, afferrare, comprendere il mondo esteriore. Tutto il vivente era con ciò descritto nella sua forza plastica e formatrice, estrinsecantesi dall’interno; era adesso per la prima volta compreso come vero vivente” (p. 43).
Ovvero, come quel “vivente” che, se ricordate quanto asserito da Boncinelli , “non è ancora del tutto chiaro” che cosa sia, e del quale “manca a tutt’oggi una definizione rigorosa”.
Ma un tale stato di cose dipende solo dal fatto – come non ci stancheremo mai di ripetere – che “non è ancora del tutto chiaro” che cosa sia il movimento del pensare. Solo afferrando la natura di questo movimento è possibile infatti afferrare la natura del vivente.
Diceva Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas” (La vera religione – Rusconi, Milano 1997, p. 128).
La “veritas” della vita (del vivente o del corpo eterico) è però chiamata a mediare tra quelle dell’anima (del corpo astrale) e dello spirito (dell’Io), che dimorano appunto “in interiore homine”, e la ” veritas” della morte, che dimora invece “in exteriore homine” (nel corpo fisico).
Chi non voglia limitarsi a una lettura mistica di tale nota affermazione, dovrà imparare quindi a distinguere questi livelli e a sviluppare, unitamente al pensiero, i gradi di coscienza che vi corrispondono (quello immaginativo per la vita, quello ispirativo per l’anima, quello intuitivo per lo spirito).
Freud, ad esempio, dichiara “misterioso” il “salto dalla mente al corpo” proprio perché ignora la realtà di tali livelli e, in particolare, quella mediatrice del vivente (da Goethe detta, non a caso, “sensibile-sovrasensibile”).
A questo punto, e dal momento che abbiamo ancora un po’ di tempo, proporrei di cominciare il terzo capitolo, intitolato: L’essenza e il significato degli scritti goethiani sulla formazione organica.
Scrive Steiner: “L’alto significato dei lavori morfologici di Goethe è da cercarsi nel fatto che in essi si pongono le basi teoretiche e il metodo per lo studio delle nature organiche, ciò che è un fatto scientifico di primo ordine. Se si vuole valutarlo nel giusto modo, si deve anzitutto tener presente la grande differenza che passa tra i fenomeni della natura inorganica e quelli della natura organica. Un fenomeno della prima è, per esempio, l’urto di due sfere elastiche. Se una delle sfere è in stato di riposo e viene urtata dall’altra in una data direzione e con una data velocità, anche l’altra ne riceve una determinata direzione di moto e una determinata velocità. Se dunque si tratta di comprendere un tale fenomeno, ciò può essere raggiunto soltanto se si traduce in concetti quel che è immediatamente dato ai sensi. Ciò deve riuscirci fino al punto che nulla del reale sensibile sussista senza che noi lo abbiamo concettualmente compenetrato. Vediamo arrivare una delle sfere, urtare la seconda, e questa muoversi ulteriormente. Abbiamo compreso questo fenomeno quando sappiamo dedurre dalla massa, direzione e velocità della prima e dalla massa della seconda, la velocità e la direzione di questa; quando riconosciamo che nelle condizioni date quel fenomeno deve prodursi di necessità”. Ciò però non significa se non che quanto si offre ai nostri sensi deve apparire come una necessaria conseguenza di quello che dobbiamo presupporre idealmente. Se così avviene, possiamo dire che concetto e fenomeno coincidono. Non c’è niente nel concetto che non sia anche nel fenomeno, e niente nel fenomeno che non sia anche nel concetto (p. 45).
Ma che cosa vuol dire che nei fenomeni (o negli oggetti) del mondo inorganico “non c’è niente nel concetto che non sia anche nel fenomeno, e niente nel fenomeno che non sia anche nel concetto”? Consideriamo, ad esempio, una bicicletta. Qualora la smontassimo, tanto da avere di fronte a noi tutti i pezzi che la compongono, e poi la rimontassimo, potremmo essere assolutamente sicuri di aver abbracciato e dominato col pensiero l’intero oggetto. La bicicletta rimontata risulterebbe infatti identica a quella smontata, e funzionerebbe pure allo stesso modo.
Non sarebbe di certo così se, al posto di una bicicletta, “smontassimo” e poi “rimontassimo” una pianta o un animale. La pianta e l’animale rimontati non risulterebbero infatti identici a quelli smontati, né “funzionerebbero” allo stesso modo (per non dire che non funzionerebbero affatto).
Ricordate, a questo proposito, quanto detto da Goethe (in un passo che abbiamo letto qualche volta fa) di una farfalla presa nel retino? “La povera bestia trema nella rete, si spoglia dei colori più belli; e anche se si riesce a prenderla incolume, alla fine eccola là, rigida e inanimata; il cadavere non è l’animale intero, gli manca qualcosa, gli manca una parte principale che in questo come in ogni altro caso è essenziale: la vita…”.
Alla bicicletta (rimontata) non manca dunque nulla, mentre alla farfalla (uccisa) viene a mancare una parte “essenziale” della sua natura: ovvero, la vita. Nel primo caso, possiamo perciò dire che “concetto e fenomeno coincidono”, in quanto, per così dire, non rimane fuori niente; nel secondo invece non coincidono, in quanto rimane fuori qualcosa (addirittura di “principale”).
Ma per quale ragione è così? Perché il concetto (o la legge) della bicicletta rimanda a quello del suo inventore o costruttore umano, mentre il concetto (o la legge) della farfalla rimanda a quello del suo creatore cosmico, e per ciò stesso a un livello di coscienza che l’uomo potrebbe avvicinare e raggiungere solamente portandosi al di là di quello ordinario che lo vincola (rappresentativamente) al sensibile.
Continua infatti Steiner: “Un corpo viene riscaldato e aumenta perciò di volume; tanto la causa quanto l’effetto appartengono al mondo dei sensi. Non abbiamo dunque bisogno per comprendere tali processi, di uscire dal mondo dei sensi. Deduciamo semplicemente in seno ad esso un fenomeno dall’altro. Quando dunque spieghiamo un tale fenomeno, cioè quando vogliamo penetrarlo concettualmente, non abbiamo da accogliere nel concetto nessun altro elemento, all’infuori di quelli che sono pure manifestamente percepibili coi nostri sensi. Possiamo percepire tutto quel che vogliamo comprendere. E in ciò consiste il coincidere della percezione (fenomeno) col concetto” (p. 46).
Sarà bene sottolineare ch’è proprio questa coincidenza della percezione col concetto a rendere mirabile, per non dire “esatta”, la scienza della realtà morta o inorganica.
Non va però dimenticato che tale scienza è un frutto (postumo) dell’incarnazione del Logos; non è ai morti ch’è concesso infatti di osservare e conoscere la morte, bensì ai vivi o, per meglio dire, ai risorti.
Dobbiamo quindi a dei “portatori del Logos”, quali, ad esempio, Copernico (1473-1543), Galilei (1564-1642) o Keplero (1571-1630) la nascita dell’anima cosciente e della “modernità”, nonché la sofferta affermazione della libertà di pensiero che ne è conseguita.
E in che cosa consisteva quest’ultima? Proprio nella libertà di poter far coincidere il concetto con il fenomeno (con la percezione sensibile), prescindendo da tutto ciò che di questo veniva affermato da Aristotele, dalla Scrittura o dall’autorità religiosa.
Oggi, l’ostacolo è però diverso. In nome della coincidenza del concetto con la percezione sensibile, non solo ci si rifiuta infatti (materialisticamente) di vivificare, sviluppare e ampliare il concetto così che possa coincidere (come quello goethiano di “tipo”) con la percezione della realtà extrasensibile (del vivente), ma ci si sforza anche di riportare e ridurre ogni concetto di ordine sovrasensibile (quali quelli di vita, anima e spirito) a percezioni reali di ordine sensibile o a percezioni più o meno virtuali di ordine subsensibile.
Allorché parliamo delle piante, degli animali o degli esseri umani, così come parleremmo di “biciclette”, non esauriamo dunque il fenomeno, bensì le nostre capacità; non sapendo pensare diversamente, altro non operiamo, infatti, che un’adaequatio rei ad intellectum.
Teniamo comunque ben fermo, per concludere, che per ogni fenomeno inorganico devono sempre valere due condizioni: si devono dare una causa e un effetto; ed entrambi devono essere percepibili dai sensi (fisici).
Quando dunque si afferma, tanto per fare un esempio, che il cervello è la causa sensibile del pensare, del sentire e del volere extrasensibili, si esce dal campo della scienza e si entra in quello della metafisica.
Roma, 24 ottobre 2000