Le opere scientifiche di Goethe (10)

L

Abbiamo detto, la volta scorsa, che l’intelletto può comprendere e dominare solo un quarto della realtà; che il quarto di realtà che comprende e domina è quello fisico; che il corpo fisico è essenziale solamente nei minerali; e che perciò le indagini scientifiche basate sull’intelletto sono tanto meno in grado di afferrare l’intima e vera natura delle cose, quanto più si allontanano dal regno minerale.
Ascoltate, ad esempio, che cosa dice Jacques Monod: “ Gli esseri viventi sono oggetti strani. Gli uomini di ogni tempo devono averlo saputo, in modo più o meno confuso. Lo sviluppo delle scienze naturali a partire dal XVII secolo e la loro esplosione a partire dal XIX secolo hanno contribuito a rendere più acuta quest’impressione di stranezza invece di cancellarla. Per quanto riguarda le leggi fisiche che regolano i sistemi macroscopici, l’esistenza stessa dei viventi sembrava un paradosso, una violazione di alcuni principi fondamentali su cui si basa la scienza moderna” (Il caso e la necessità – Mondadori, Milano 1999, p. 22).
Come vedete, non sembra “strano” e “paradossale” il voler comprendere gli esseri viventi quali “oggetti” sulla base delle sole leggi fisiche, bensì sembrano “oggetti strani” gli esseri viventi e un “paradosso” la loro esistenza.

Del vivente, dice invece Steiner: “Qui non possiamo derivare ciò che percepiamo coi sensi da rapporti a loro volta percepibili coi sensi, bensì dobbiamo accogliere, nel concetto dei processi, elementi che non appartengono al mondo dei sensi, dobbiamo andar oltre il mondo dei sensi. L’osservazione non basta più, dobbiamo afferrare l’unità concettualmente, se vogliamo spiegare i fenomeni. Con ciò, però, si produce un distacco tra l’osservazione e il concetto; essi non appaiono più coincidenti; il concetto si libra sopra l’osservazione” (p. 48).

Perché il concetto “si libra sopra l’osservazione”? Perché, essendo reale e vivente (non riflesso) “si libra sopra” il cervello, non dando luogo ad alcuna “rappresentazione”.
Come sappiamo (grazie, in particolare, a La filosofia della libertà), una cosa è infatti la realtà del concetto, altra quella della rappresentazione.
Ascoltate quanto dice in proposito Hegel: “Sentimenti, intuizioni, appetizioni, volizioni ecc., in quanto se ne ha coscienza, vengono denominati, in genere rappresentazioni: si può dire perciò, in generale, che la filosofia pone, al posto delle rappresentazioni, pensieri, categorie e, più propriamente, concetti. Le rappresentazioni in genere possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti (…) Nella nostra coscienza ordinaria i pensieri sono vestiti ed uniti con la consueta materia sensibile e spirituale, e nel nostro ripensare, riflettere e ragionare noi mescoliamo, sentimenti, intuizioni e rappresentazioni con pensieri” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 6-7).
E sentite poi quanto aggiunge: “Alla coscienza sembra come se, col toglierle il modo della rappresentazione, le sia tolto il terreno, che era suo fermo e abituale sostegno. Quando è trasportata nella pura regione dei concetti, non sa più in qual mondo si sia” (ibid., p. 7).
Si tratta, ovviamente, della medesima coscienza che non sa più “in qual mondo si sia” allorché si trova al cospetto di quegli strani e paradossali “oggetti viventi” di cui parla Monod.
Fatto si è che se non ci si educa a “trasportare” la coscienza “nella pura regione dei concetti” (ossia, al grado ispirativo o intuitivo), mai si afferrerà la realtà di quel “tipo” o di quella “entelechia” che “si libra – come dice Steiner – sopra l’osservazione”.
Abbiamo già visto, ad esempio, che la Montalcini si dice sicura che le scienze cognitive, insieme alle neuroscienze, non tarderanno a “decifrare l’essenza della specie umana”. Ma di che cosa si occupano le scienze cognitive? Delle “rappresentazioni mentali”, considerandole (a seconda dei diversi orientamenti) delle “riproduzioni” (dell’ambiente esterno), dei “codici mentali” o delle “caratterizzazioni astratte”, e non dunque dei “frutti” (come si spiega ne La filosofia della libertà) dell’incontro e dell’unione, nell’anima, del percetto (del contenuto della percezione, attinto mediante il corpo) col concetto (col contenuto del pensiero, attinto mediante lo spirito).
Ancora Hegel scrive infatti: “Il rappresentare comincia dall’intuizione e dalla materia trovata dell’intuizione”; la rappresentazione è perciò “il punto medio tra l’immediato trovarsi determinato dell’intelligenza, e l’intelligenza medesima nella sua libertà, che è il pensiero” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 441).
Come l’acqua nasce dall’unione di idrogeno e ossigeno, o come i colori nascono – secondo Goethe – dall’unione di luce e tenebra, così la rappresentazione nasce dunque dall’unione di concetto e percetto.
E come attendersi, allora, che decifrino “l’essenza della specie umana” delle scienze che non sono riuscite finora a decifrare nemmeno l’essenza della rappresentazione: ovvero, della loro stessa materia d’indagine?
In ogni caso, un conto è il “come” si forma una rappresentazione, altro il “perché”. E perché si forma? Perché il concetto, essendo un’entità viva, non può conoscere una cosa morta, se non appunto spegnendosi e trasformandosi in rappresentazione.
La rappresentazione è insomma un “fiore reciso” o, più propriamente, la spoglia del concetto; ed è proprio per questo che ci consente di conoscere il mondo inorganico. Cos’altro è infatti un minerale se non una “spoglia”: vale a dire, un “oggetto” nel quale la vita, l’anima e lo spirito non sono penetrati, o dal quale sono di contro fuoriusciti?
Dovrebbe essere chiaro, quindi, che quando si tratta di conoscere, non più le cose morte, ma gli esseri viventi, occorre, procedendo all’inverso, risalire dalla rappresentazione al concetto.

“Mentre nella natura inorganica – osserva in proposito Steiner – concetto e realtà erano una cosa sola, qui sembrano dividersi l’uno dall’altro e appartenere propriamente a due mondi diversi” (p. 48).

Kant li ha infatti divisi, ponendo il primo nel mondo noumenico, o delle cose quali sono in sé, e la seconda nel mondo fenomenico, o delle cose quali sono per noi.

Continua però Steiner: “ La visione che si offre immediatamente ai sensi non sembra più portare in sé il suo fondamento, la sua essenza. L’oggetto non appare più spiegabile da se stesso, perché il suo concetto è tolto non da esso medesimo ma da qualcos’altro. Poiché l’oggetto non appare dominato dalle leggi del mondo dei sensi, ma tuttavia è presente ai sensi e ad essi appare, è come se nella natura vi fosse un’insolubile contraddizione, come se vi fosse un abisso tra i fenomeni inorganici comprensibili per se stessi, e gli esseri organici, per i quali avviene una violazione nelle leggi della natura, per i quali, tutto a un tratto, verrebbero rotte le leggi di validità universale” (p. 48).

Ecco dunque la vera ragione delle “stranezze”, dei “paradossi” e perfino delle “violazioni” di cui parla Monod.
Tutto ciò, però, deriva unicamente dal fatto che il rapporto che l’essenza (il noumeno) e l’esistenza (il fenomeno) hanno negli organismi è differente da quello che hanno nei meccanismi o in qualsiasi altro prodotto della tecnica.
A Kant, va riconosciuto pertanto il merito di aver messo in luce tale differenza, ma anche il torto di averla – come si suol dire – “ingessata”: di non aver realizzato, in altre parole, che quanto non è raggiungibile e conoscibile dall’ordinaria coscienza intellettuale, può essere raggiunto e conosciuto da superiori gradi di coscienza (che l’uomo dovrebbe però sviluppare).

Scrive appunto Steiner: “Dovremmo, secondo Kant, limitarci a vedere che una tale relazione esiste; ma non si potrebbe, per quel che riguarda gli organismi, soddisfare alla esigenza logica di riconoscere come il concetto generale, l’idea, esca da se stessa, e si manifesti come realtà sensibile. Dovremmo piuttosto ammettere che concetto e realtà si stanno qui di fronte immediatamente e sono stati attuati entrambi, grazie a un influsso esistente fuori di essi, nello stesso modo, come l’uomo, sulla base di un’idea da lui concepita, costruisce un qualunque oggetto composto: per esempio, una macchina. Con ciò verrebbe negata la possibilità di una spiegazione del mondo organico, anzi apparentemente dimostrata la sua impossibilità” (p. 49).

Come sarebbe in effetti insensato, se non addirittura crudele, rimproverare ai muti di non parlare, o ai ciechi di non vedere, così sarebbe altrettanto insensato, se non addirittura crudele, rimproverare agli odierni “intellettuali” (che, come tali, non possono essere – lo ammettano o meno – che dei materialisti) di non riconoscere la realtà dell’idea e quella del processo grazie al quale esce da se stessa e si manifesta come realtà sensibile.
Quello intellettuale e materialistico è infatti diventato ormai un limite, per così dire “fisiologico”. Non a caso, Steiner ci mette in guardia dal pensare che il materialismo sia soltanto una teoria sbagliata da poter razionalmente o dialetticamente confutare.
Che cosa sostiene, ad esempio, tale teoria? Che il pensare, il sentire e il volere dipendono toto coelo dal corpo fisico (dal cervello). Ebbene, è vero: non perché – si badi – sia stato e sarà sempre così, ma perché oggi è così: perché oggi, cioè, le anime umane sono realmente diventate tanto dipendenti dal loro corpo fisico da non riuscire più nemmeno a rammentare un passato in cui dipendevano dallo spirito (trascendente) e a immaginare un futuro in cui potrebbero, se lo volessero, realizzarsi (grazie all’Io e al Logos che lo inabita) in piena libertà.
Il materialismo, tuttavia, non si limita a registrare questa contingente (storica o evolutiva) verità, bensì la ipostatizza, edificando su questa base una cultura che, impedendo alle anime di conoscere la propria autentica storia o il proprio autentico passato, toglie loro la possibilità e di dare un giusto senso al presente e di guardare con speranza e fiducia all’avvenire.
Il materialismo è dunque un ostacolo non perché “fotografa”, per così dire, la condizione di un’umanità “caduta”, “malata” o “alienata”, ma perché impedisce a questa di redimersi, di guarire o di ritrovarsi.
“La superstizione dei materialisti – afferma appunto Steiner – ostacola il vero progresso dell’umanità, non provvedendo a che le facoltà latenti nell’uomo vengano sviluppate” (I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977, p. 44).
Non è significativo, ad esempio, che una cultura che si vanta (a ragione) di essere storicistica ed evoluzionistica non sia riuscita finora a partorire una storia dell’anima che non si riduca sistematicamente a quella del corpo? E che continui pertanto a ignorare, irresponsabilmente, il divenire (ontogenetico e filogenetico) dell’anima attraverso la fase “senziente”, la fase “razionale o affettiva” e la fase “cosciente” o, per meglio dire, “autocosciente”?
Come sapete, è in quest’ultima fase (detta appunto, da Steiner, dell’”anima cosciente”) che viene storicamente alla luce la “modernità” (1413). Ebbene, che cosa accade quando s’ignora un dato del genere? Che alcuni – come ricorda Stephen Toulmin – datano allora la nascita della modernità “nell’anno 1436, quando Gutemberg adottò i caratteri di stampa mobili; alcuni nel 1520, con la ribellione di Lutero contro l’autorità della Chiesa; altri nel 1648, con la fine della guerra dei trent’anni; altri ancora con la rivoluzione americana del 1776 o quella francese del 1789; mentre solo per pochi i tempi moderni iniziano nel 1895, con L’interpretazione dei sogni di Freud e l’ascesa del “modernismo “ nelle arti figurative e nella letteratura” (Cosmopolis – Rizzoli, Milano 1991, p. 18).
Accade, insomma, che si considerino questi eventi (materiali) quali “cause” della modernità, e non – come sarebbe giusto – quali suoi sintomatici o emblematici “effetti”.
Ma torniamo a Kant.
Egli in tanto distingue – come abbiamo detto – il noumeno dal fenomeno, affidando poi a un terzo (a un “intellectus archetipus” sovrumano) l’onere di porre il primo in rapporto col secondo, in quanto, concependo astrattamente il noumeno, non riesce a immaginare come l’idea, in quanto entelechia, possieda la forza di animare e vivificare il fenomeno, o “come – nelle parole di Steiner – il concetto generale, l’idea, esca da se stessa, e si manifesti come realtà sensibile”.
Ma l’idea che “esce da se stessa”, fluisce o – come ama dire Hegel – si “svolge”, prima che come realtà fisica, si manifesta come realtà eterica. E’ da questa “fonte” (“luce di vita”) che sgorga infatti quella corrente di vita (quella “vita della luce”) che vivifica tutti gli organismi.
Nessuno stupore, dunque, se chi non sa concepire una realtà del genere, finisce poi col pensare – al pari di Kant – che come l’uomo, quale terzo, prima ha l’idea della macchina e poi la costruisce, così Dio, quale terzo, prima ha l’idea della pianta e poi la costruisce (e mantiene in vita).
A questo punto, entra in scena Baruch Spinoza (1632-1677).

“Goethe – scrive infatti Steiner – si accostò per la prima volta a Spinoza nella primavera del 1774; e parla di questa sua prima conoscenza col filosofo (in Poesia e verità) nel modo seguente: “Dopo essermi invano dato d’attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di educare il mio strano essere, m’imbattei finalmente nell’Etica di quest’uomo”” (p. 49).

Ciò che interessò maggiormente Goethe fu il fatto che Spinoza ammetteva – al contrario di Kant – la possibilità di una conoscenza dell’essenza delle cose (delle “cose in sé”). Egli distingueva, infatti, tre generi di conoscenza, spiegando come il terzo e più elevato di questi fosse “quello – secondo quanto scrive ancora Steiner – per cui, da una sufficiente rappresentazione della vera essenza di alcuni attributi di Dio, progrediamo ad una sufficiente conoscenza dell’essenza delle cose. Spinoza denomina questo genere di conoscenza scientia intuitiva. A quest’ultimo, supremo genere di conoscenza, Goethe aspirava” (p. 51).

Ma che cosa significa, come dice Spinoza, “che le cose devono venir conosciute in modo che noi ravvisiamo nella loro essenza alcuni attributi di Dio”?

Che Dio – risponde sempre Steiner – “è il contenuto ideale del mondo, il principio motore che tutto spinge, sostiene e guida”; ma subito dopo aggiunge: “Ora questo si può rappresentare in modo da presupporlo come un essere indipendente, per sé stante, separato dagli esseri finiti, che ha accanto a sé queste cose finite e le domina e pone in azione reciproca. Oppure ci si rappresenta questo essere effuso nelle cose finite, sì da esistere non più sopra o accanto ad esse, ma solo in esse. Questa concezione non nega affatto quel principio primordiale, lo riconosce pienamente, ma considerandolo effuso nel mondo. La prima delle due concezioni considera il mondo finito come manifestazione dell’infinito, ma questo infinito rimane sussistente nel proprio essere, non prodiga nulla di sé. Non esce da se stesso, rimane ciò che era prima della sua manifestazione. La seconda concezione considera pure il mondo finito come una manifestazione dell’infinito, solo presuppone che questo infinito, nel suo manifestarsi, sia completamente uscito da se stesso, abbia deposto se stesso, la sua propria essenza e vita nella sua creazione, sicché ormai esista solo in questa. Allora, poiché il conoscere è manifestamente uno scoprire l’essenza delle cose, mentre questa essenza può solo consistere in quella parte che un essere finito ha del principio primordiale di tutte le cose, conoscere significa scoprire quell’infinito nelle cose” (p. 51).

Nel primo caso, si ha dunque una concezione “trascendente” (di Dio); nel secondo “immanente”. Occorre però stare attenti a non identificare l’immanentismo con il “panteismo”.
Dal momento che Dio è presente nel mondo fisico (come corpo o spazio), nel mondo eterico (come vita o tempo), nel mondo astrale (come qualità o essenza) e in quello dell’Io (come Essere o Logos), chi è infatti un “panteista”? Colui che riconosce solo il Dio vivente nella sfera eterica (come in genere fanno, in modo più o meno “paganeggiante”, i naturisti o i vitalisti).
Chi è invece un “politeista”? Colui che riconosce solo gli Dei che popolano la sfera astrale, cioè a dire le entità che formano il cosiddetto “mondo delle idee”.
E chi è infine un “monoteista”? Colui che riconosce solo il Dio dell’Io, ma di un Io – fate bene attenzione – riflesso dal corpo fisico in forma di ego.
Lasciatemi dire, a questo proposito, che il sentir parlare, come spesso si fa, di una concezione “giudaico-cristiana” è invero desolante. Quella cristiana, infatti, è una concezione “trinitaria”, o più precisamente “triunitaria”, che ha ben poco a che vedere tanto con quella monoteistica giudaica quanto con quella monoteistica islamica.

Risposta a una domanda
Spinoza distingue la “natura naturans”, o natura creatrice, dalla “natura naturata”, o natura creata. Tutto il problema – come vede – sta nel modo in cui viene concepito il rapporto tra la prima e la seconda. Chi lo concepisce in modo trascendente, pensa infatti che la natura naturans stia al di sopra della natura naturata o accanto a essa; chi lo concepisce in modo immanente, pensa invece che la natura naturans stia nella natura naturata, e che questa perciò la manifesti o riveli.
Non si fa comunque scienza limitandosi ad affermare che “Dio è in tutto”, ma la si fa soltanto se si è capaci di distinguere, nel tutto, i diversi livelli, i diversi modi o le diverse qualità della presenza divina. Afferma appunto Goethe: ““Credo in un Dio!” Questa è una bella, encomiabile frase; ma riconoscere Dio là dove si manifesti, e sotto qualunque aspetto, è in realtà la beatitudine in terra” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, pp. 176-177).
Conoscere significa infatti scoprire non solo l’essenza delle cose (l’hegeliano “essere determinato”), ma anche ciò che tali essenze hanno in comune (la qualità dell’“essenza”), e quindi l’Essere di tutte le essenze (l’hegeliano “essere indeterminato”).

Scrive Steiner: “Prima di Goethe (…) si spiegava la natura organica secondo la prima concezione (quella trascendente – nda), l’inorganica secondo l’altra” (quella immanente – nda); e aggiunge: “A proposito del libro di Jacobi (Friedrich Heinrich Jacobi, 1743-1819 – nda), pubblicato nel 1811, dal titolo Delle cose divine e della loro manifestazione, Goethe osserva: “Come poteva essermi bene accetto il libro di un amico diletto in cui dovevo veder sostenuta la tesi che la natura nasconde Iddio? Con la mia pura, profonda, innata, sperimentata concezione, che mi aveva appreso a vedere infallibilmente Dio nella natura, e la natura in Dio, sicché questa maniera di rappresentazione formava la base della mia esistenza, non doveva una espressione così strana, unilateralmente limitata, allontanarmi per sempre, nello spirito, dal più nobile uomo il cui cuore devotamente amavo?”” (p. 52).

Non è in effetti la natura a nascondere Dio; siamo noi a farlo.
Vedete, siamo soliti usare una bella espressione: il “dato”. Ma che cos’è un dato se non un qualcosa che non si nasconde, in quanto appunto si dà, si offre o si dona? E da che cosa dipende allora il suo disvelarsi od occultarsi? Unicamente dalla nostra comprensione o incomprensione.
Teniamo comunque presente ch’è anche possibile disvelare una cosa, occultandone un’altra. All’uomo moderno, ad esempio, si è disvelata la “morte di Dio” o il “Dio morto”: vale a dire, il Dio del mondo fisico o inorganico; gli si sono perciò dischiusi gli occhi (rappresentativi) per il mondo in cui Dio è morto, ma non quelli (immaginativi) per il mondo in cui Dio è vivo: proprio quegli occhi, cioè, che l’uomo antico (l’uomo dell’anima senziente o del mito) aveva ancora aperti.
E’ pur vero, d’altro canto, che senza attraversare tale esperienza di morte (e di cecità), non ci saremmo resi liberi, e quindi capaci di assumerci, individualmente, la responsabilità di riaprire pian piano gli occhi (dello spirito) per il Dio risorto.

Roma, 7 novembre 2000

Errata corrige
Segnaliamo ai nostri lettori, pregandoli di scusarci, di aver corretto in data odierna un errore. Alla 65° riga dell’8° incontro (pubblicato il 5-1-2006), si leggeva infatti “le ossa craniche e le vertebre” e non – come scritto dall’autore e come si può leggere adesso – “le vertebre e le ossa craniche”.

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Di Lucio Russo
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