Le opere scientifiche di Goethe (20)

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La scorsa settimana, abbiamo concluso il nostro incontro parlando del mondo “esterno” (fisico), del mondo “interno” (animico), del mondo “esterno dell’interno” (spirituale), e abbiamo detto che quest’ultimo “altro non è che il mondo “interno dell’esterno”: ovverosia, l’essenza spirituale del mondo fisico”.
Ebbene, prima di riprendere la lettura, vorrei fare, al riguardo, qualche altra considerazione.
Vedete, con la coscienza ordinaria ci muoviamo entro due precisi limiti: uno esterno, costituito dall’immagine percettiva; uno interno, costituito dalla rappresentazione. Questo c’induce a credere che ci sia concesso muoverci unicamente nello “spazio animico” da essi delimitato, e che non sia possibile scoprire, vuoi ciò che si situa, nel mondo, al di là dell’immagine percettiva, vuoi ciò che si situa, in noi, al di qua della rappresentazione: che non sia possibile scoprire, cioè, quale sia la loro origine e in qual modo prendano forma.
I realisti ingenui (detti anche “percezionisti”) pensano di risolvere il problema asserendo che l’immagine percettiva della cosa coincide con la cosa, e che la rappresentazione non è che una riproduzione (una “fotografia”) dell’immagine percettiva; Kant pensa di risolverlo asserendo invece che al di là dell’immagine percettiva si situa la realtà sostanziale della “cosa in sé”, mentre al di qua della rappresentazione si situano la realtà formale delle “categorie” e quella altrettanto formale dell’“Io trascendentale” (quale loro unità originaria).
Asserire – come fa Steiner – che apprendiamo l’”in sé” della cosa (che si situa appunto, sia al di là dell’immagine percettiva, sia al di qua della rappresentazione), in virtù del percepire (del volere), quale percetto (quale forza indeterminata) e, in virtù del pensare, quale concetto (quale forma determinata), è dunque cosa ben diversa dall’asserire – come fa Kant – che della ”cosa in sé” non possiamo apprendere nulla, poiché quel che apprendiamo dipende toto coelo dal nostro modo di apprendere, e non dalla cosa.
“Chiamo trascendentale – scrive infatti – ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori” (Critica della ragion pura – Laterza, Bari 1966, vol. I, p. 58).
Come vedete, sia per i realisti ingenui che per Kant esistono solo il mondo “esterno” e quello “interno”: con la differenza, tuttavia, che, per i primi, il mondo “interno” non è che un riflesso (passivo) di quello “esterno”, mentre, per il secondo, il mondo “esterno” non è che una proiezione (attiva) di quello “interno”.
Ma ciò accade perché entrambi ignorano la realtà di quel “terzo” mondo (spirituale) che abbiamo denominato (e non per giocare con le parole) “esterno dell’interno”.
Dal momento, tuttavia, che quello compreso tra la “Scilla” dell’immagine percettiva e la “Cariddi” della rappresentazione è uno spazio angusto (e “angustia” ha la medesima radice di “angoscia” – lat. ăngere: “stringere”), ne patiamo (inconsciamente) la ristrettezza e avvertiamo (oscuramente) il bisogno di ampliare il nostro ordinario orizzonte. Ma per poterlo ampliare, dovremmo appunto superare le barriere che normalmente lo limitano, scoprendo che tanto al di là dell’immagine percettiva quanto al di qua della rappresentazione si situa una medesima e sola realtà (quella dell’essenza dell’oggetto o del fenomeno).
Restituendo all’anima il suo vero spazio, restituiremmo dunque l’anima all’anima (noi a noi stessi).
Ricordate quando affermammo che, di qualcuno che si sia ridotto “pelle e ossa”, si potrebbe anche dire (in termini antroposofici) che si è ridotto “Lucifero e Arimane”, poiché è venuto meno, in lui, quell’essere umano che si trova, quale terzo, tra la pelle luciferica e le ossa arimaniche?
Ebbene, si tratta dello stesso “essere umano” che si trova ordinariamente costretto tra le immagini percettive arimaniche e le rappresentazioni luciferiche.
Come allora concludemmo che nostro compito non è quello di spellarci o disossarci, ma di mettere queste parti al servizio dell’Io, così possiamo adesso concludere che nostro compito non è quello di evitare le immagini percettive (come tende a fare chi sta, come gli antirealisti, con la “testa per aria”) o le rappresentazioni (come tende a fare chi sta, come i realisti ingenui, con la “testa per terra”), ma di servirci di queste manifestazioni per risalire, insieme, all’Io e all’essenza degli oggetti o dei fenomeni.
Ma riprendiamo ora a leggere.

Scrive Steiner: “Se l’immediatamente dato fosse sufficiente a se stesso, tanto che non ne scaturisse per noi in ogni punto un problema, non avremmo mai il bisogno di trascenderlo. Ma le immagini percettive non si seguono e non derivano l’una dall’altra; esse conseguono invece da qualcos’altro, ch’è precluso alla percezione sensibile. Ora s’accosta loro la comprensione concettuale ed afferra anche quel lato della realtà che ai sensi rimane chiuso” (p. 104).
La realtà ci si rivela per due vie diverse: ciò che ne apprendiamo mediante i sensi deve essere pertanto riunito, nell’anima, a ciò che ne apprendiamo mediante il pensare. E’ nell’anima (laddove l’Io esplica l’attività del “giudicare”) che può sorgere dunque l’errore; avverte infatti Goethe: “I sensi non ingannano; inganna il giudizio” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 227).
Quando l’Io, giudicando, ri-unisce nell’anima il percetto e il concetto così da ri-creare spiritualmente l’unità naturale originaria (dall’Io stesso infranta), si ha infatti la verità; quando un qualsiasi usurpatore del ruolo dell’Io, giudicando, li unisce diversamente, si ha invece l’errore o la menzogna.
Immaginiamo, ad esempio, che l’essenza A si dia al percepire come a’ e al pensare come a’’. Ebbene, se, giudicando, prendessimo il percetto a’ e lo ri-unissimo al concetto a’’, ri-avremmo A; ove invece prendessimo a’ e lo unissimo, che so, a b’’, c’’ o d’’, avremmo viceversa un errore o una menzogna.
Ricordate quando abbiamo parlato della necessità di restituire alla psiche (a Eva) la purezza, la castità o la verginità dell’anima (dell’Ave)? A questo punto, dovrebbe essere ancora più chiaro il perché: perché solo un’anima siffatta, in quanto dedita al mondo e all’Io, è in grado di non condizionare e non alterare (con le sue brame o con le sue simpatie e antipatie) il processo del giudicare.
Teniamo comunque presente che come c’è bisogno di un’anima pura per ritrovare la verità, così c’è bisogno della verità per purificare la psiche e ritrovare l’anima.
Imbattersi nella menzogna, vuol dire dunque imbattersi in una psiche (in un “mondo interno”) in cui la vanità, l’interesse e l’utile personale (usurpando appunto il ruolo dell’Io) hanno soffocato l’amore per la realtà.

Risposta a una domanda
Vede, la verità ha il potere di evocare e accendere, nel sentire, la bellezza e, nel volere, la bontà (la moralità). Un mondo permeato di verità (“La verità vi farà liberi”) sarebbe pertanto diverso e migliore. Magari lo capissero quelli che dicono di battersi per un “mondo migliore” senza però battersi per la verità!
Certo, parlare della verità a chi è immerso, come tutti noi, nell’errore e nella menzogna, è un po’ come illustrare la fisiologia degli occhi, da miopi o ipermetropi, ad altrettanti miopi o ipermetropi. Ma non é questo che importa! Importa piuttosto realizzare che i nostri occhi potrebbero e dovrebbero vedere altrimenti, e che non è vero – come vorrebbero insegnarci gli ostacolatori – che non possano essere, per natura, che miopi o ipermetropi.

Scrive Steiner: “L’opinione più diffusa in proposito è che il concetto sia solo un mezzo, appartenente alla coscienza, grazie al quale questa s’impadronisce dei dati della realtà. L’essenza della realtà starebbe nell’in sé delle cose stesse; sicché, anche se fossimo in grado di giungere davvero al fondamento delle cose, non potremmo però impadronirci se non di un’immagine concettuale di esso e non mai del fondamento stesso. Qui sono dunque presupposti due mondi del tutto separati tra loro: il mondo esterno obiettivo, che porta in sé la sua essenza, i fondamenti della sua esistenza, e il mondo interiore soggettivo-ideale, che sarebbe un’immagine concettuale del mondo esterno. Quest’ultima è del tutto indifferente per l’obiettività, non viene da essa richiesta, esiste solo per l’uomo conoscente. La congruenza di questi due mondi sarebbe l’ideale gnoseologico di questa opinione fondamentale” (p. 105).
I due mondi “presupposti” sono, ovviamente, quello “esterno” (oggettivo) delle immagini percettive e quello “interno” (soggettivo) delle rappresentazioni.
Il terzo, quello “esterno dell’interno” dei concetti, in quanto ridotto a mondo formale, viene infatti inserito e compreso in quello (“interno”) delle rappresentazioni, e per ciò stesso soggettivizzato.
“La congruenza di questi due mondi – dice Steiner – sarebbe l’ideale gnoseologico di questa opinione fondamentale”. Tale ideale può essere però realizzato perseguendo, non la “congruenza” del mondo “esterno” (fisico) con quello “interno” (animico), bensì la “congruenza”, nel mondo “interno” (animico), del mondo “esterno” (fisico) con quello “esterno dell’interno” (spirituale); quest’ultimo – come abbiamo detto – non è infatti che il mondo “interno dell’esterno”, e quindi l’essenza spirituale del mondo fisico.
L’immagine concettuale – dice ancora Steiner – “è del tutto indifferente per l’obiettività, non viene da essa richiesta, esiste solo per l’uomo conoscente”. Anche “l’uomo conoscente” fa però parte del mondo (della “obiettività”) ed è “mondo”. Qualora perciò si consideri che il mondo è arrivato a creare un essere mediante il quale poter prendere coscienza di sé, è invero arduo pensare che il conoscere umano sia “del tutto indifferente per l’obiettività”.

Il pensiero, scrive sempre Steiner, “è un organo di percezione né più né meno dell’occhio e dell’orecchio. Come l’occhio vede colori e l’orecchio ode suoni, così il pensiero percepisce idee. Perciò l’idealismo è perfettamente conciliabile col principio dell’indagine empirica” (p. 105).

Ma perché l’occhio ci permette di percepire distintamente i colori, e l’orecchio i suoni? Perché l’uno e l’altro, mentre noi percepiamo i colori e i suoni, non si fanno percepire. Col farsi umilmente da parte, dimostrano quindi di saper fare proprio ciò che non riusciamo a fare noi. Ove ci fossimo già conquistati, nell’anima, la loro stessa umiltà o purezza, percepiremmo infatti distintamente anche le idee e le ri-uniremmo, senza interferire psichicamente, ai loro oggetti (dice appunto Paolo: “Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in Dio…” – 1Cor 13,12).

Continua Steiner: “L’idea non è il contenuto del pensiero soggettivo, ma è risultato d’indagine. La realtà ci si presenta in quanto ci poniamo di fronte a lei coi sensi aperti. Ci appare in una forma che non possiamo riguardare come la sua forma vera; questa la raggiungiamo solo quando mettiamo in movimento il nostro pensiero. Conoscere significa aggiungere la percezione del pensiero alla mezza realtà dell’esperienza sensibile, affinché la sua immagine divenga completa” (p. 105).

Quale “risultato d’indagine”, l’idea è frutto dunque di un’osservazione, e non di un’escogitazione. E c’è una bella differenza – ne converrete – tra lo stato d’animo di chi pensa di dover elaborare e formulare una sua teoria e quello di chi sa, invece, che la teoria è nelle cose o nel mondo, e che sua, semmai, potrebbe essere solo la scoperta o la coscienza della teoria. “L’ideale – afferma per l’appunto Goethe – sarebbe capire che ogni elemento reale è già teoria. L’azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale del cromatismo. Soprattutto non si cerchi nulla dietro ai fenomeni: essi stessi sono la teoria” (ibid., p. 137).
“Conoscere – dice Steiner – significa aggiungere la percezione del pensiero alla mezza realtà dell’esperienza sensibile”: significa insomma “giudicare”. Tuttavia, nel “giudizio di percezione” (così lo chiama Steiner), mediante la copula (è), non uniamo a un concetto un altro concetto, bensì uniamo a un percetto (a un soggetto indeterminato) un concetto (un predicato determinato) . Detto il primo X e il secondo A, il giudizio di percezione sarà infatti: X è A.
Nell’istante stesso in cui lo pensiamo come X (e non ancora, perciò, come A) anche il primo dei termini di questo giudizio si risolve dunque in un “concetto” (in quello, appunto di “percetto” o di “soggetto indeterminato”). Come mai? Perché il pensare è deputato a cogliere i “pensieri” nelle “cose”, e non (come in genere si crede) le “cose” o, più precisamente, perché è deputato ad afferrare i “concetti”, e non i “percetti” (tanto è vero che afferra, non il “percetto”, bensì il “concetto del percetto”).
Ma per quale ragione, allora, il “concetto” di “predicato determinato” (A) ci si dà proprio come “concetto”, mentre il “concetto” di “soggetto indeterminato” (X) ci si dà invece come “percetto”? Per la semplice ragione – come abbiamo già avuto occasione di sottolineare – che il primo lo cogliamo in modo riflesso o indiretto, ma chiaro, per mezzo del pensare, mentre il secondo lo afferriamo in modo diretto, ma oscuro, per mezzo del volere (del percepire). Dirà infatti Steiner: “Ciò che costituisce la singolarità di un oggetto, non si può comprendere, ma solo percepire” (p. 108).
Come vedete, l’idealismo empirico è dunque “idealismo” perché giunge ad esplicare il concetto (l’universale) implicato nel percetto (nell’individuale o nel singolare), ed è “empirico” perché parte dal percetto (dall’individuale o dal singolare) in cui è implicato il concetto (l’universale).

Scrive Steiner: se valesse “l’opinione più diffusa” (quella secondo la quale il concetto sarebbe “solo un mezzo, appartenente alla coscienza, grazie al quale questa s’impadronisce dei dati della realtà”), vedendo ad esempio un triangolo “dovrei seguire nel pensiero i suoi contorni, la grandezza, la direzione dei suoi lati, ecc., e formarmene una fotografia concettuale. Per un altro triangolo dovrei fare precisamente lo stesso, e così per ogni oggetto del mondo dei sensi, sia esterno, sia interno. Si ritroverebbe in tal modo esattamente, nella mia immagine ideale del mondo, ogni oggetto, con la sua situazione e le sue qualità. Ora dobbiamo chiederci: Questa conseguenza corrisponde essa ai fatti? Per nulla. Il mio concetto del triangolo è un concetto unico che abbraccia tutti i triangoli percepiti; e per quante volte possa rappresentarlo rimane sempre il medesimo. Le mie diverse rappresentazioni dei triangoli sono tutte identiche tra loro. Io non ho che un solo concetto del triangolo. Nella realtà, ogni oggetto ci si presenta come “questo” particolare e pienamente determinato, al quale si contrappongono “quelli”, altrettanto determinati e saturi di vera realtà. Di fronte a tale molteplicità sorge il concetto quale rigorosa unità. In esso non vi sono specificazioni, né parti; esso non si moltiplica e, sia pure infinite volte rappresentato, è sempre il medesimo. Che cos’è dunque, in realtà, il portatore di tale identità del concetto? Non può, effettivamente, essere la forma del suo apparire quale rappresentazione, perché, come affermava a ragione Berkeley, la rappresentazione dell’albero che io ho in questo momento non ha assolutamente nulla a che fare con quella dello stesso albero che ho un momento dopo, se, tra l’una e l’altra, tengo chiusi gli occhi; e altrettanto poco hanno a che fare l’una con l’altra le diverse rappresentazioni dello stesso oggetto in individui diversi. Dunque l’identità può risiedere unicamente nel contenuto della rappresentazione, cioè nel suo quid. La sostanza, l’essenziale, deve garantirmi l’identità” (pp. 106-107).

Orbene, immaginiamo di disegnare tre figure, quella di un triangolo equilatero, quella di un triangolo isoscele e quella di un triangolo scaleno, e di chiederci, poi, che cosa hanno in comune. Quali pure immagini percettive, sono l’una diversa dall’altra. Il linguaggio potrebbe comunque aiutarci perché – fateci caso – diciamo di aver disegnato, non un “equilatero”, un “isoscele” e uno “scaleno”, bensì un “triangolo equilatero”, un “triangolo isoscele” e un “triangolo scaleno”; ripetendo ogni volta la parola “triangolo”, è come perciò se dicessimo di aver disegnato uno stesso “contenuto” in tre “forme” diverse. Sarebbe accaduto naturalmente lo stesso ove avessimo disegnato, poniamo, tre cani: che so, un maremmano, un setter e un barboncino. Anche in questo caso, ci saremmo trovati di fronte a tre diverse “forme” di uno stesso “contenuto”: vale a dire, a tre diverse “razze” di una stessa “specie”, e quindi (fuor di metafora) a tre diverse “manifestazioni” di una stessa “essenza” o a tre diverse “rappresentazioni” di uno stesso “concetto”.
La diversità (la molteplicità) si dà dunque ai sensi, mentre l’identità (l’unità) si dà invece al pensiero: e questa non è meno reale di quella. Certo, la realtà della prima ci è data dalla natura, mentre quella della seconda – come ben sappiamo – ce la dobbiamo liberamente e attivamente conquistare, mediante lo studio e l’esercizio interiore (concentrazione e meditazione).

Roma, 23 gennaio 2001

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Di Lucio Russo
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