Cominceremo stasera l’ultimo paragrafo del nono capitolo, intitolato: Scienze etiche e storiche. Si tratta di un paragrafo piuttosto lungo in cui Steiner affronta quegli stessi temi che svilupperà poi nella seconda parte de La filosofia della libertà.
Scrive Steiner: “La risposta alla domanda: “Che cosa è il conoscere?” ci ha illuminati sulla posizione dell’uomo nell’universo. Ora le vedute a cui siamo arrivati riguardo a questa questione, non possono fare a meno di gettar luce anche sul valore e l’importanza dell’azione umana (…) Il primo compito a cui dovremo ora applicarci sarà quello d’investigare il carattere dell’attività umana. In che rapporto sta quello che dobbiamo riguardare come effetto dell’azione umana, di fronte ad altre attività entro il processo universale? Consideriamo due cose: un prodotto naturale e una creazione dell’attività umana, la forma del cristallo e, diciamo, la ruota d’un carro. In ambedue i casi l’oggetto in questione ci appare come risultato di leggi esprimibili in concetti. La differenza sta soltanto in ciò, che il cristallo dobbiamo vederlo come il prodotto immediato delle leggi che lo determinano, mentre per la ruota del carro tra il concetto e l’oggetto si frappone l’uomo” (pp. 137-138).
Che cos’è il conoscere? E’ il risalire dall’esistenza all’essenza. E che cos’è il creare? Il discendere dall’essenza all’esistenza.
Il discendere dall’essenza all’esistenza può essere però immediato, e si ha allora la creazione divina (naturale), oppure mediato, e si ha allora la creazione umana (culturale). Un cristallo è un esempio della prima, una ruota della seconda.
Per meglio orientarci, converrà comunque rifarci alla celebre distinzione, operata dalla Scolastica, tra i concetti o le idee (gli “universali”) “ante rem”, “in re” e “post rem”.
Nel conoscere, l’uomo trasforma l’idea in re (l’idea percepita) nell’idea post rem (nell’idea conosciuta); nel creare, trasforma invece l’idea ante rem (l’idea pensata) nell’idea in re (nell’idea percepita).
Scrive appunto Steiner: “Nel conoscere, apprendiamo quali siano le condizioni ideali dell’esperienza sensibile; portiamo a manifestazione il mondo delle idee che già si trova entro la realtà; concludiamo dunque il processo universale in quanto portiamo a manifestazione il produttore che eternamente genera i prodotti, il quale però, senza il nostro pensiero, resterebbe eternamente in essi celato. Ma nell’azione noi completiamo tale processo, trasmutando in realtà, in quanto non lo è ancora, il mondo delle idee” (p. 138).
Ricordate quel “moto pendolare vivente” di cui parla Steiner nell’aggiunta al decimo capitolo de La filosofia della libertà?
Si tratta di quel ritmo con il quale l’Io oscilla, a mo’ di inalazione ed esalazione o di diastole e sistole, tra il polo del corpo (fisico) e quello dello spirito. Nel conoscere, l’Io parte infatti dal corpo (dalla percezione sensibile) per arrivare allo spirito (all’idea); nel creare, parte viceversa dallo spirito (dall’idea) per arrivare al corpo (alla percezione sensibile).
E’ importante tenerlo presente, poiché è impossibile venire a capo di tutta una serie di problemi se non si concepisce l’attività conoscitiva in modo dinamico. Qual è infatti il principale limite dell’intelletto? Quello appunto di essere statico, e di non riuscire perciò a concepire, se non astrattamente, la viva realtà del movimento.
Buon senso vorrebbe, dunque, che s’integrasse quanto dà la coscienza intellettuale con quanto danno la coscienza immaginativa, la coscienza ispirativa e quella intuitiva. Sono proprio la coscienza immaginativa e quella ispirativa a consentire infatti l’esperienza del “moto pendolare vivente”, quale autoesperienza dell’Io, sia sul piano dinamico del movimento, sia su quello qualitativo dell’enantiodromia (del rovesciamento nell’opposto).
Agendo, dice Steiner, trasmutiamo “in realtà, in quanto non lo è ancora, il mondo delle idee”. Non esiste infatti solo la natura, ma anche ciò che è stato creato da noi.
Siamo quindi responsabili delle idee che pensiamo (e in specie del modo in cui le pensiamo), così come di quelle che “mettiamo al mondo”, trasmutandole in realtà. Basta pensare, per convincersene, a quelle “ideocrazie” (così François Furet denomina il comunismo, il fascismo e il nazismo) che hanno funestato nella maniera più tragica il Novecento: ossia, quello che Robert Conquest ha non a caso definito Il secolo delle idee assassine (Mondadori, Milano 2001).
Scrive Steiner: “Il nostro conoscere ci conduce a trovare, dagli accenni contenuti nella natura che ci attornia, la tendenza del processo universale, l’intento della creazione. Quando l’abbiamo raggiunto, allora la nostra azione ha il compito di collaborare autonomamente alla realizzazione di quegli intenti. E così il nostro agire ci appare una diretta continuazione di quella specie di attività che pervade anche la natura” (p. 138).
Le idee operano dunque nel reale. In questo, dobbiamo però distinguere le sostanze, le forze e le leggi, osservando che le sostanze sono governate dalle forze, e che le forze sono governate dalle leggi: vale a dire, dal pensiero.
Immaginate, tanto per fare un esempio, che mi cada in testa una tegola. Nell’istante stesso in cui mi colpisce, sperimento (mio malgrado) una sostanza e una forza. Se la tegola, anziché cadermi in testa dall’alto, l’avessi avuta tra le mani, avrei infatti sperimentato una sostanza, ma solo limitatamente una forza (il suo semplice peso). Ebbene, immaginiamo che, una volta ripresomi dal trauma, abbia voglia di scoprire con quale velocità mi ha colpito. Cosa dovrei fare? Dovrei calcolarla, in base alla cosiddetta “legge di caduta dei gravi” (Galilei). Dovrei cioè pensarla, perché il pensiero (la legge che governa il fenomeno) non si mostra che al pensiero.
Non solo, tuttavia, le sostanze si mostrano subordinate alle forze, e le forze alle leggi, ma anche le leggi si mostrano subordinate, a loro volta, a un principio unitario (a un “insieme”) che le armonizza, regolandone i reciproci rapporti. Per l’ecologia, ad esempio, l’ambiente non è appunto che l’insieme delle condizioni (fisiche, chimiche, biologiche) in cui si svolge la vita degli organismi. L’insieme, ove sia davvero “raggiunto”, ci rivela dunque quella “tendenza del processo universale” cui siamo chiamati a collaborare mediante le nostre azioni.
Vedete, quando recitiamo il Pater noster, diciamo: “Sia fatta la Tua volontà”: siamo noi, però, a volere che sia fatta; se si facesse da sola (com’è nella natura), non avremmo infatti alcun bisogno d’invocarla. L’invochiamo, invece, perché è fatta “in cielo” e non “in terra”, potendosi fare, “in terra”, soltanto attraverso gli uomini.
Continua Steiner: “Il prodotto naturale non ha affatto in sé la legge ideale da cui appare dominato. Bisogna che gli si faccia incontro qualcosa di superiore, appunto il pensare umano; allora a questo appare ciò da cui quello è dominato. Per l’azione umana il caso è diverso. Qui, all’oggetto attivo è immediatamente insita l’idea; e se un essere superiore gli si facesse incontro, non potrebbe trovare nell’attività di quello null’altro se non ciò ch’egli stesso vi ha posto. Poiché un’azione umana perfetta è il risultato dei nostri intenti e soltanto questo” (p. 138).
Gli animali, ad esempio, sono dominati da quella “legge ideale” (specie o idea) che ne determina, tra le altre cose, il comportamento. Vivono questa condizione, ma non possono averne coscienza, in quanto non godono della facoltà di pensare il pensiero. La “legge ideale” cui sono sottoposti può essere però conosciuta dal “pensare umano”; e lo può perché sono gli uomini, quali Io, ad avere le idee, mentre sono le idee ad avere gli animali.
Al pensare umano, che osservi un animale, si rivela dunque l’idea che lo trascende e ne determina il comportamento; ma a un essere dotato di un pensare superiore, che osservasse un uomo, non si rivelerebbe la stessa cosa, poiché, in questo caso, sarebbe l’individualità (l’Io) a trascendere l’idea e a determinare, per suo mezzo, l’azione.
E’ mediante l’idea, infatti, che l’Io dà forma alla propria volontà; e un’idea che informi la volontà dell’Io altro non è che un “intento”, una “intenzione” o uno “scopo”.
“Un’azione umana perfetta – dice appunto Steiner – è il risultato dei nostri intenti e soltanto questo”. Non è affatto facile, tuttavia, valutare le intenzioni, in quanto si trovano e agiscono nel profondo, e quindi a un livello assolutamente diverso da quello dei fatti. Non a caso, diciamo: “Dio giudica le intenzioni, e non i fatti”.
Ed è così, perché il valutare i fatti spetta all’attività giuridica, mentre il valutare le intenzioni spetta all’attività morale. E’ fatale dunque che l’intelletto, per sua natura moralmente neutro (come la matematica, che ne esprime al meglio le caratteristiche), non possa che basarsi, per le sue valutazioni morali, sui fatti, finendo così col confondere la sfera morale con quella giuridica, e con l’affidarsi per ciò stesso (in stile vetero-testamentario) alla “legge”.
L’intenzione – abbiamo detto – è un’idea che informa la volontà; ma l’idea – come sappiamo – è un’essenza, un’entità o uno spirito. Come discernere dunque le intenzioni, se non si conosce lo spirito? E come fondare una morale più alta di quella eteronoma, se non si dispone, insieme alle scienze della natura, di una scienza dello spirito?
Se osserviamo un prodotto naturale che agisca sopra un altro – scrive Steiner – “vediamo un effetto il quale è determinato da leggi afferrabili in concetti. Ma se vogliamo comprendere l’effetto, non basta che lo mettiamo in relazione con qualche legge, bensì dobbiamo avere un secondo oggetto percepibile, naturalmente dissolvibile anch’esso in concetti. Quando vediamo un’impronta sul terreno, cerchiamo l’oggetto che l’ha prodotta. Questo ci conduce al concetto di un tale effetto, dove la causa di un fenomeno appare a sua volta sotto forma di una percezione esteriore, vale a dire al concetto di forza” (p. 139).
Pensando come “effetto” l’impronta che osservo, metto in moto la ricerca della “causa”, poiché è il concetto stesso di effetto a richiamare quello di causa. Non basta, però, dopo aver determinato concettualmente l’impronta percepita come effetto, determinare la causa come “concetto”, occorre pure percepirla, e perciò scovarla come “oggetto”.
Come già sappiamo, su questo piano (inorganico) è appunto necessario che siano percepibili tanto la causa che l’effetto.
Immaginando che sia stato un cavallo a lasciare l’impronta sul terreno, è facile capire che l’idea dello zoccolo potrebbe produrre un’impronta “ideale”, ma non un’impronta “reale” (sensibilmente percepibile). Affinché si produca quest’ultima, bisogna infatti che eserciti la sua forza uno zoccolo reale, e che la pressione da esso esercitata sia superiore alla durezza del terreno. Come si vede, non si tratta che di un gioco di forze (regolato comunque da leggi).
Scrive Steiner: “La forza può venirci incontro soltanto là dove l’idea appare da prima in un oggetto percepibile, e solo in questa forma agisce sopra un altro oggetto. La contrapposizione a ciò si ha là dove la mediazione è eliminata e l’idea si accosta al mondo sensibile in modo immediato. Allora l’idea stessa appare come funzione causale. Ed è qui che si parla di volontà. La volontà è dunque l’idea stessa intesa quale forza. E’assolutamente illecito parlare di una volontà per sé stante” (p. 139).
Nel mondo inorganico, l’idea A, attiva come forza A, può esercitare un’azione sull’oggetto B, unicamente per mezzo dell’oggetto A. Laddove tale “mediazione è eliminata”, l’idea A, attiva come forza A, “si accosta” invece all’oggetto B “in modo immediato”: senza più agire, cioè, mediante l’oggetto A.
Ad apparire quindi come “causa” non è più qui l’oggetto A, bensì l’idea A, attiva come forza A o, in questo caso, come volontà A.
La volontà, dice Steiner, è “l’idea stessa intesa quale forza”. Non abbiamo infatti detto, a suo tempo, che l’idea va intesa, sul piano astrale quale “essenza”, sul piano eterico quale “forza, e sul piano fisico quale “oggetto” o “cosa”?
Anche di questo, tuttavia, non si è di norma coscienti, e si finisce allora col considerare la volontà come una forza “per sé stante”. Tipico è il caso di Schopenhauer che vede alla Volontà nella natura (Laterza, Roma-Bari 1989) come a una forza disgiunta da quella del pensiero o delle idee, e perciò agente come un cieco impulso o una cieca brama di vita.
Prosegue Steiner: “Quando l’uomo compie un’azione, non si può dire che alla rappresentazione si aggiunga anche il volere. Esprimersi così, significa non avere afferrato chiaramente i concetti. Infatti, che cos’è la personalità umana, se si prescinde dal mondo delle idee che la riempiono? Evidentemente un’esistenza attiva (…) Ma quest’esistenza attiva non è nulla di reale, è un’astrazione senza contenuto, che non si può afferrare. Se si vuole afferrarla, se si vuole un contenuto, si trova appunto il mondo delle idee in atto di agire. Ed. v. Hartmann fa di quest’astrazione un secondo principio costitutivo del mondo, accanto all’idea. Ma esso non è altro che l’idea stessa, soltanto in una data forma della sua manifestazione. Volontà senza idea sarebbe nulla. Non si può dire lo stesso dell’idea, poiché l’attività è un suo elemento, mentre essa è l’essenza portatrice di se stessa” (p. 139).
Sappiamo bene, ormai, che la coscienza ordinaria ci fornisce un’esperienza morta delle idee. Niente di più logico, allora, che essa consideri la volontà come un qualcosa che non ha nulla a che fare con l’idea, e che può perciò starle tutt’al più “accanto”.
Solo a un grado di coscienza superiore a quello ordinario (rappresentativo) ci si può dunque rendere conto che la volontà è la forza dell’idea e che l’idea è la forma della volontà. Dice Steiner che la “volontà senza idea sarebbe nulla”, ma che “non si può dire lo stesso dell’idea, poiché l’attività è un suo elemento, mentre essa è l’essenza portatrice di se stessa”.
Perché? Perché, essendo la volontà la vita dell’idea (“un suo elemento”), e l’idea l’”essenza portatrice” di tale vita, una volontà senza idea non potrebbe essere appunto che un nulla.
Scrive ancora Steiner: “Lo spiegare un processo della natura è un risalire alla condizioni che lo determinano; una ricerca dell’elemento produttore (determinante – nda) di fronte al prodotto dato (determinato – nda) (…) Per l’azione umana il caso è diverso. Qui è la stessa legge che determina un fenomeno, che entra in azione; ciò che costituisce (produce – nda) un prodotto si presenta esso stesso sulla scena dell’azione (…)I processi naturali si distinguono dunque dalle azioni umane pel fatto che in quelli la legge è da considerarsi come lo sfondo determinante dell’esistenza manifesta, mentre in queste ultime l’esistenza stessa è legge e non appare determinata da altro che da se stessa. Perciò ogni processo naturale si scinde in un determinante e in un determinato, di cui il secondo segue di necessità dal primo, mentre l’azione umana si determina unicamente da sé. E in questo sta l’agire in libertà (…) Mentre tutti i processi naturali sono soltanto manifestazione dell’idea, l’azione umana è l’idea agente stessa” (pp. 139-140).
La differenza tra un processo della natura e un’azione umana sta dunque nel fatto che il rapporto con l’idea, nel primo ha carattere trascendente, mentre nella seconda ha carattere immanente.
Ricordate? Non abbiamo alcun bisogno di ricercare quel che illumina il Sole, poiché il Sole, mentre illumina tutto, illumina anche se stesso. In quanto fonte della luce, è infatti in grado di bastare a se stesso o di reggersi su di sé.
Ebbene, un processo della natura ha bisogno di essere illuminato (al pari di un pianeta) dall’esterno (dall’uomo), mentre l’azione umana s’illumina (al pari di un astro) dall’interno.
Nell’uomo, l’Io equivale infatti a un Sole, il cui calore e la cui luce prendono forma, e per ciò stesso si diversificano, riversandosi nelle idee. Non dimentichiamo che Steiner afferma che le idee sono appunto “recipienti d’amore”.
In quanto “essere”, l’Io è il fondamento di tutte le “essenze”, e dunque il soggetto (lo spirito) di tutte le idee. Volendo, lo si potrebbe paragonare a un fuoco dal quale sprizzino incessantemente le scintille delle idee.
Quando osserviamo, che so, un uccello che costruisce il nido, o un ragno che tesse la tela, dobbiamo dunque risalire, per darci ragione di questi comportamenti, dal singolo esemplare alla specie, mentre, quando vogliamo spiegarci il comportamento di un uomo, non dobbiamo uscire da lui, bensì risalire, in lui, dal piano in cui si presenta l’azione a quello in cui si trova l’idea o l’intenzione che la genera.
In altri termini, l’intelligenza e le attitudini che mostrano gli animali non appartengono al singolo, bensì alla specie; l’intelligenza e le attitudini che mostra l’essere umano appartengono invece all’individuo, poiché “ogni uomo – spiega Steiner – è una specie a sé” (Teosofia – Antroposofica, Milano 1957, p. 50).
Si potrebbe perciò dire, in modo un po’ spiccio, che sono le idee a “usare” gli animali, mentre è l’uomo a “usare” le idee.
In ogni caso, come il nostro bisogno di spiegare il comportamento animale, giunto alla specie, si sente appagato, così, giunto alle idee e all’Io, si sente appagato quello di spiegare il comportamento umano (nostro o altrui).
Ciò implica, tuttavia, che il singolo animale non è responsabile delle azioni che discendono (quale “dover-essere”) dalle idee della specie (che siamo soliti chiamare “istinti”), mentre ogni uomo è responsabile delle azioni che discendono (quale “voler-essere”) dalle sue idee e, a maggior ragione, dai suoi ideali.
Vedete, chi non ha ideali può diventare un “depresso”, ma chi ne ha può diventare un “maniaco”. E perché? Perché crede di avere un ideale, e non si accorge ch’è in realtà l’ideale ad avere lui: vale a dire, a dominarlo o possederlo.
Per poter davvero “avere” un ideale umano, è infatti indispensabile “essere”, non un ego, ma un Io (un homo): l’unico soggetto, cioè, capace di dominare in modo creativo le idee, e di non esserne in modo distruttivo dominato.
Inutile aggiungere che sono le forze arimaniche a toglierci gli ideali, rendendoci depressi; e che sono quelle luciferiche, dandoci loro in pasto, a renderci maniaci.
Roma, 17 aprile 2001