Riprendiamo subito a leggere dal punto in cui ci eravamo interrotti la volta scorsa.
Scrive Steiner: “In quanto la nostra teoria della conoscenza è arrivata alla conclusione, che il contenuto della nostra coscienza non è solo un mezzo per formarci un’immagine del fondamento del mondo, ma che questo fondamento stesso, nella forma sua più propria, si manifesta nel nostro pensiero, non possiamo fare a meno di riconoscere immediatamente, anche nell’azione umana, l’incondizionato agire di quel fondamento stesso” (p. 140).
In virtù del cammino conoscitivo, che risale dal pensato (dalla rappresentazione) al pensare, dal pensare al concetto (o all’idea), e dal concetto all’Io, si scopre che l’Io è il fondamento non solo del mondo, ma anche dell’uomo, e che, in quanto tale, è il fondamento tanto del pensare quanto del volere, e quindi sia un soggetto pensante sia un soggetto agente.
Ogni azione presuppone un agire. L’agire è però una forza indeterminata che, per potersi concretare ora nell’azione A, ora in quella B, ora in quella C, e così via, ha bisogno di determinarsi, e di prendere perciò una forma. Ma non è tutto: come l’azione presuppone un agire, e come l’agire presuppone una forma (un concetto o un’idea), anche la forma presuppone un agente.
Dobbiamo pertanto prendere in considerazione l’azione, l’agire e l’agente, e, tra l’agire e l’agente (l’Io), quel “mondo delle idee” (Platone) o quel “regno delle Madri” (Goethe) che potremmo anche dire “mondo degli scopi” o dei “motivi”.
Per agire, occorre infatti essere “motivati”: occorre, cioè, che l’Io dia appunto una forma alla forza indeterminata dell’agire.
La libertà o non libertà dell’agire dipende dunque – come spero di essere riuscito a chiarire, quando ci siamo occupati della seconda parte de La filosofia della libertà – dal tipo di rapporto sussistente tra il motivo e l’agente: se il motivo (quale causa interiore dell’azione) è posto dall’Io, l’agire sarà libero; se è imposto all’Io, sarà non libero. Il che equivale a dire che quando l’Io è causa del motivo dell’azione, c’è libertà, mentre quando si dà un motivo dell’azione di cui l’Io non è causa, non c’è libertà.
Non c’è dunque libertà tutte le volte che il motivo dell’azione viene imposto, più o meno coscientemente, dalla natura (dalla costituzione, dal temperamento, dal carattere), o dalla cultura (da quello che C.G. Jung chiama “conscio collettivo” o da quelli che i sociologi chiamano “patterns of behaviour”: “modelli di comportamento”).
Continua Steiner: “Noi non conosciamo una guida del mondo che fuori di noi stessi ponga alle nostre azioni uno scopo e una direzione. La guida del mondo ha rinunziato al suo potere; ha messo tutto nelle mani dell’uomo, annientando la sua propria esistenza separata, e ha impartito all’uomo il compito di continuare l’opera “ (p. 140).
Abbiamo appena distinto i condizionamenti naturali da quelli culturali. Una “guida del mondo” che stia “fuori di noi stessi” fa ovviamente parte dei secondi, poiché, stando appunto “fuori di noi”, non può manifestare la sua volontà se non indirettamente: vale a dire, mediante regole, precetti, norme, comandamenti o “imperativi categorici” (Kant).
Scrive ancora Steiner: “Con ciò la filosofia qui esposta è la vera filosofia della libertà. Essa non fa dipendere le azioni umane né dalla necessità naturale né dall’influsso d’un creatore o guida sito fuori del mondo”; naturalmente, – aggiunge – “non è affatto esclusa l’esistenza d’innumerevoli azioni umane che cadono solo sotto” la necessità naturale. “L’uomo, in quanto è un essere naturale, è anche da comprendersi secondo le leggi che valgono per l’azione naturale. Ma leggi puramente naturali non varranno mai a spiegarlo quale essere conoscente e veramente morale. Qui egli esce dalla sfera delle realtà naturali; e per questa potenza suprema, più ideale che reale, della sua esistenza, vale quanto abbiamo qui stabilito. La vita dell’uomo consiste appunto nell’evolversi dallo stato di un essere puramente naturale a quello che qui abbiamo indicato: egli deve liberarsi da tutte le leggi naturali e arrivare fino a darsi da sé le proprie leggi. Ma noi dobbiamo respingere anche l’influsso da parte di una guida dei destini umani sita fuori del mondo. Anche in questo caso non si potrebbe parlare di vera libertà, poiché essa guida determinerebbe la direzione dell’azione umana e l’uomo non avrebbe che da eseguire i suoi comandi. Egli non sentirebbe l’impulso all’azione come un ideale che da sé si propone, ma come comando della guida. Quindi anche qui il suo agire sarebbe condizionato, non incondizionato. Egli non si sentirebbe libero alle spalle, ma dipendente; un semplice mezzo d’esecuzione per gli intenti d’un potere superiore” (p. 141).
L’uomo è un essere libero, ma non esiste ancora come tale, poiché è chiamato appunto a farsi libero o a divenire ciò che è.
Cominciamo perciò a realizzare la nostra libertà muovendo da uno stato di non libertà. Tuttavia, il riconoscere quanto, derivando dalla natura o dalla cultura, è necessità, è già una manifestazione di libertà. L’Io che ci consente, sul piano noetico, di riconoscere la necessità è infatti lo stesso Io che ci consente, su quello etico, di realizzare la libertà.
L’uomo, dice Steiner, deve arrivare “a darsi da sé le proprie leggi”. Spero sia chiaro che questo non è un obiettivo che possa essere raggiunto in un giorno, in un mese, in un anno e neppure in una vita, ma una meta cui dovremmo incessantemente mirare, poiché ne va del nostro divenire o meno ciò che siamo: vale a dire, degli spiriti liberi. Superfluo aggiungere che la realizzazione (seppur lontana) di tale ideale dovrebbe costituire la più viva e profonda delle nostre aspirazioni. Quale più alto ideale potrebbe infatti avere un uomo, se non quello di divenire appunto tale?
Scrive Steiner: “Chi immagina un fondamento del mondo fuori del nostro mondo di idee, pensa che la ragione ideale per cui una cosa viene da noi riconosciuta per vera, sia un’altra da quella che la fa essere obiettivamente vera. Così la verità è intesa come dogma. E ciò che nella scienza è il dogma, nel campo dell’etica è il comandamento. L’uomo quando cerca nel comandamento gli stimoli al suo agire, opera secondo leggi il cui fondamento non dipende da lui; egli pensa una regola prescritta alla sua azione da fuori: agisce per dovere. Parlare di dovere ha un senso solo per questa concezione. Agire per dovere, significa sentire la spinta da fuori, e riconoscere la necessità di seguirla” (pp.141-142).
Che cos’è un dogma? E’ un pensiero che l’uomo deve credere, perché non lo può liberamente pensare. E che cos’è un comandamento? E’ una volontà che l’uomo deve osservare, perché non la può liberamente volere.
Quindi, in un caso, dovremmo aver fede nel pensiero altrui, mentre, nell’altro, dovremmo seguire la volontà altrui. Cos’altro è infatti il dovere, se non appunto il volere di un non-Io?
In entrambi i casi, dovremmo dunque seguire, di fatto, l’esempio degli animali. Non sono infatti l’intelligenza e la volontà della specie a imporsi (“da fuori”, e quale Io collettivo) al singolo esemplare?
Ma per quale ragione ciò che l’animale fa spontaneamente, all’uomo deve invece essere “imposto”? Proprio perché l’uomo è libero, – si risponderà – mentre l’animale non lo è.
D’accordo, ma se è libero, per quale ragione, allora, non potrebbe arrivare a pensare da sé la verità e a volere da sé il bene? Per quale ragione, ossia, dovrebbe scegliere (come gli animali) di dover-essere, e non di voler-essere? (Dice Goethe: “Qual è il miglior governo? Quello che ci insegna a governarci da noi” – Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 92).
So bene ch’è consuetudine parlare della natura come del regno dell’essere e della morale come del regno del dover-essere. Ma il fatto, ad esempio, che un diamante possa esistere solo come diamante, che un garofano possa esistere solo come garofano, o che un ragno possa esistere solo come ragno, mentre l’uomo può esistere come uomo o come non-uomo (come bestia, oppure, oggi, come robot), non sta appunto a indicare che l’esistere dei primi non può contraddire il loro essere, in quanto è un dover-essere, mentre l’esistere dell’uomo può contraddire il suo essere, in quanto è un voler-essere, e per ciò stesso un volere divenire o non divenire ciò che è?
Fatto si è che le Entità creatrici hanno partorito, nutrito, ed educato l’uomo fino al punto di metterlo in condizione di emanciparsi, di camminare con le proprie gambe (quelle dell’anima cosciente), e di assumersi con ciò la responsabilità della propria successiva evoluzione: fino al punto, insomma, di poter essere “causa sui”.
Ma in che cosa dovrebbe consistere questa sua successiva evoluzione? Nell’ascendere dalla coscienza rappresentativa (attraverso quella immaginativa e quella ispirativa) alla coscienza intuitiva o, il che è lo stesso, dall’ego all’Io (vale a dire, dall’ego, attraverso il “Sé spirituale” e lo “Spirito vitale”, all’”Uomo-spirito”).
Ci si compiace, oggi, di parlare di “post-modernità”. Dal momento che la “modernità” è l’ego, non si può però prendere sul serio tale espressione, se non le si dà il significato che abbiamo appena indicato.
Una sana “post-modernità” non può infatti inverarsi che in una sana “post-egoità”, e dunque in un superamento dell’egoismo del pensare (delle opinioni), che apra la strada tanto al superamento dell’egoismo del sentire (del narcisismo) quanto a quello dell’egoismo del volere (dell’utilitarismo). Che cos’è d’altronde l’ego? E’ l’Io allo stato fetale, e quindi un Io che avrebbe in primo luogo bisogno di essere amorevolmente aiutato a crescere, svilupparsi e maturare, al fine di poter arrivare ad avere in sé la moralità in modo analogo a come l’animale ha in sé l’istinto. (Un versetto del Pater Noster, nella versione data da Steiner, recita appunto: “La Tua volontà venga da noi attuata quale Tu l’hai posta nella nostra intima essenza”).
Tra l’ego e l’Io, così come appunto tra il feto e l’uomo adulto, si dà dunque una continuità di forza (di essenza) e una discontinuità di forma (di esistenza).
Ma che cosa accade quando di tutto ciò non si sa nulla? Che si attribuisce inconsciamente la continuità della forza anche alla forma, fissando così l’Io al suo stato fetale, oppure la discontinuità della forma anche alla forza, proiettando così l’Io in un lontano e immaginario al di là.
In questo secondo caso, il volere dell’Io (ossia il volere del fondamento dell’ego) si tramuta in un dovere, poiché si presenta appunto come il volere di un altro Io, trascendente e sconosciuto (come il volere – direbbe Freud – di un “Super-io”).
Scrive Steiner: “L’uomo compie un’azione solo pel fatto che la realtà di essa è per lui un bisogno. Egli agisce perché un impulso interiore (suo proprio) e non una potenza esterna lo spinge. L’oggetto del suo operare, non appena egli se ne formi un’idea, lo riempie così da spingerlo a cercare di realizzarlo. Nel bisogno di realizzare un’idea, nella spinta a svolgere un intento, deve infatti risiedere il solo stimolo al nostro operare. Nell’idea deve estrinsecarsi tutto quello che ci spinge ad agire. Allora non operiamo per dovere, né mossi da un impulso, ma operiamo per amore verso l’oggetto al quale la nostra azione deve applicarsi” (p. 142).
“Il solo stimolo al nostro operare”, dice Steiner, deve risiedere “nel bisogno di realizzare un’idea, nella spinta a svolgere un intento”; il che equivale ad affermare che tale stimolo deve risiedere in un puro volere guidato da un puro pensare e animato da un puro sentire.
Ma quand’è che il pensare, il sentire e il volere sono “puri”? Quando sono, per così dire, “oggettivi”, e quindi liberi da ogni ipoteca di carattere personale.
Solo l’amore per l’idea dovrebbe dunque spingerci a realizzarla. Ma gli odierni “intellettuali” amano forse le idee? Per lo più no, in quanto amano se stessi, e si servono delle idee per affermarsi o per soddisfare quelle infinite brame che nascono dall’“umano, troppo umano” (Nietzsche).
Bisogna operare, dice ancora Steiner, “per amore verso l’oggetto al quale la nostra azione deve applicarsi”. Ma non essendo l’oggetto – come abbiamo detto e ripetuto – che un concetto, l’amore “verso l’oggetto” dovrebbe allora trasformarsi nell’amore “verso il concetto”.
Chi non è pronto d’altro canto a dichiarare (in buona o cattiva fede) di agire “per amore verso l’oggetto”? E’ possibile però scoprire se lo ama davvero, solo verificando se l’oggetto che dichiara di amare è, per lui, un “concetto” o una “cosa”.
“L’amore – scrive Scaligero – è lo spirito che vuole lo spirito nell’altro” (Dell’amore immortale – Tilopa, Roma 1982, p. 23): “nell’altro” che può essere quindi una persona, ma anche un animale, un vegetale o un minerale, dal momento che non vi è nulla, al mondo, in cui non si manifesti, seppure a livelli diversi, la presenza dello spirito (recita appunto il Prologo di Giovanni: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta” – Gv 1,3).
Alla luce di tutto quanto abbiamo visto finora, potremmo perciò dire, parafrasando: sul piano umano, l’amore è l’Io che vuole l’”Io” nell’altro; su quello animale e su quello vegetale (organici), è l’Io che vuole il “tipo” nell’altro; su quello minerale (inorganico), è l’Io che vuole il “fenomeno puro” nell’altro.
Continua Steiner: “Mentre ce lo rappresentiamo, l’oggetto suscita in noi l’anelito verso un’azione ad esso adeguata; e solo una tale azione è libera” (p. 142).
Libera, dunque, è solo l’azione “adeguata” all’oggetto.
Ebbene, pensiamo a quanti proclamano di voler cambiare il mondo, per poterne creare uno “migliore”. Ma è forse lecito avanzare una simile pretesa se non si è affatto in grado di “adeguare” l’azione alla realtà del mondo, poiché s’ignora com’è fatto? Un conto, infatti, è cambiare il mondo conoscendolo e agendo su di esso mediante quelle che Steiner chiama (ne La filosofia della libertà) la “fantasia morale” e la “tecnica morale”, altro è cambiarlo violentandolo, per costringerlo ad andare là dove ci si è messi in testa che debba andare. (Diceva Nietzsche che non si può guarire un difetto con un vizio).
Ma che cos’è ciò che ci si è messi in testa? E’ – piaccia o meno – l’ideologia: ovvero, l’infera contro-immagine dell’idea.
L’idea nasce infatti dall’amore per l’oggetto, mentre l’ideologia nasce da quella insoddisfazione o infelicità che la nostra inferiore natura è maestra nel tramutare in risentimento, cattiveria e odio.
Scrive Steiner: “Un’azione che non si compia per amor suo non è libera. L’egoismo agisce non liberamente. E, in genere, opera non-liberamente ognuno che compia un’azione per un incentivo che non derivi dal contenuto obiettivo di essa. Eseguire un’azione per amore della stessa è agire per amore. Solo chi nell’agire è mosso dall’amore, dalla dedizione all’obiettività, agisce proprio liberamente. Chi non è capace di questa dedizione priva di egoismo non potrà mai riguardare la propria attività come libera” (p. 143).
Come si vede, tutte queste affermazioni implicano l’esercizio del pensare. Chi altri, del resto, potrebbe aprire il varco alla “obiettività”, se non appunto il pensare? E chi altri, se non un pensare libero, potrebbe generare un agire libero?
Osserva, al riguardo, Goethe: “Lessing, che sopportava mal volentieri limitazioni di vario genere, fa dire a uno dei suoi personaggi: “Nessuno deve dovere”. Un uomo pieno di spirito e di gioia di vivere disse: “Chi vuole, deve”. Un terzo, senza dubbio un uomo colto, aggiunse: “Chi comprende vuole pure”. E così si credette di aver chiuso l’intera cerchia del conoscere, volere e dovere. Però, in linea di massima, la conoscenza dell’uomo, di qualunque tipo essa sia, determina la sua condotta; per cui nulla è più terribile che vedere agire l’ignoranza” (Massime e riflessioni, pp.131-132).
Scrive Steiner: “Se l’agire dell’uomo non ha da essere altro che la realizzazione del suo proprio contenuto di idee, è naturale che un tale contenuto debba risiedere in lui. Il suo spirito deve operare produttivamente. Infatti, che cosa dovrebbe suscitare in lui l’impulso a compiere qualche cosa, se non un’idea che vada aprendosi il varco dal fondo del suo spirito?” (p. 143).
Ma perché l’idea deve aprirsi un “varco”? Perché lungo il tragitto che deve compiere per andare dallo spirito (da cui nasce) al reale (in cui vorrebbe realizzarsi), viene fatalmente a scontrarsi – per dirla con Scaligero – con “l’immane potenza del convenzionale” (Graal – Tilopa, Roma 1982, p. 60).
Osserva giusto Goethe: “ In tutti i tempi sono solo gli individui che han dato il loro contributo alla scienza, non la loro epoca. E’ stata l’epoca a far morire Socrate di veleno, l’epoca a bruciare Hus: le epoche si assomigliano tutte” (Massime e riflessioni, pp. 86-87).
Per l’idea (e per l’Io che ne è il portatore) il cammino verso il mondo è in effetti lungo e tormentato, poiché è costretta appunto a farsi largo tra un’infinita serie di ostacoli, anzitutto interiori. L’idea nasce infatti dall’Io, ma, per poter arrivare al corpo, deve prima attraversare l’anima; e questa, se più che un’anima (solare) è una psiche (lunare), finisce per lo più con l’intrappolarla, alterarla o distorcerla, per metterla al servizio di se stessa (dell’ego) e delle sue brame.
Per impedire al vero di tramutarsi in falso, e al bene di tramutarsi in male, dovremmo dunque renderci tanto puri da riuscire a consentire all’idea, così com’è nata dall’Io, di giungere, attraverso l’anima, al corpo e, attraverso il corpo, al mondo e agli altri.
Non si dimentichi, a questo proposito, che la prima tappa della moderna via d’iniziazione è rappresentata appunto dalla “catarsi” o “purificazione” del corpo astrale, conseguita mediante la concentrazione e la meditazione. Scrive infatti Steiner: “Questa catarsi o purificazione ha lo scopo di eliminare dal corpo astrale tutto quanto gli impedisce di organizzarsi in modo armonico e regolare, sì da poter sviluppare gli organi superiori, poiché il corpo astrale è predisposto a sviluppare quegli organi e basta mettere a nudo, per così dire, le forze latenti in esso”; spiegando, poi, che si potrebbe progredire molto su questa via giungendo, ad esempio, “a compenetrarsi intimamente e a vivere tutto il contenuto del mio libro La filosofia della libertà, fino a sentire di essere divenuti capaci di riprodurre da se stessi e fedelmente i pensieri che vi sono esposti” (Il Vangelo di Giovanni – Antroposofica, Milano 1995, p. 178).
Roma, 24 aprile 2001