Cari amici, vedo con piacere che siamo “sopravvissuti” alle ferie, e che siamo di nuovo tutti qui per riprendere il nostro lavoro.
Avendo finito, in giugno, il dodicesimo capitolo, affronteremo stasera il tredicesimo, Le concezioni meteorologiche di Goethe, e il quattordicesimo, Goethe e l’illusionismo scientifico.
Si tratta infatti di due brevi capitoli: il primo dei quali, brevissimo, ci consentirà di tornare a dare una rapida occhiata a ciò che dicemmo cominciando il nostro studio (il che forse non guasta, dal momento che ci stiamo appunto accingendo a ri-cominciarlo), mentre il secondo, benché breve, ci darà del filo da torcere.
Scrive Steiner: “Proprio come nella geologia, si sbaglia anche nella meteorologia, se si guarda alle scoperte effettive fatte da Goethe e si cerca in esse l’essenziale. I suoi esperimenti meteorologici infatti non sono compiuti; dovunque va guardato solo agli intenti. Il suo pensiero era sempre diretto a trovare il punto essenziale, dal quale una serie di fenomeni viene regolata dall’interno” (p. 179).
Rammentate che cosa dissi il primo giorno del corso? Che diversi sarebbero stati gli argomenti, ma uno solo, al contrario, il modo di affrontarli di Goethe; e che il “come”, ossia il modo, sarebbe stato perciò più importante del “cosa”.
Ebbene, vi sarà senz’altro capitato, a questo proposito, di sentire qualcuno dire, di un altro: “Non mi piace (o mi piace) come la pensa”; oppure: “Non mi piace (o mi piace) il suo modo di pensare”.
Nella prima affermazione è presente dunque il “come”, nella seconda il “modo”. Entrambe, a ben vedere, si riferiscono però al “cosa”, e non al “come” o al “modo”.
Ove, ad esempio, a parlare di un politico di destra, fosse uno di sinistra, risulterebbe evidente che a dispiacergli è appunto il “contenuto” (il “cosa”) del pensiero dell’altro: vale a dire, il suo pensato, e non il suo pensare.
Ma per quale ragione ci si esprime allora in quel modo? Perché neppure si sospetta, in genere, che si possa pensare altrimenti da “come” normalmente si pensa o che ci possa essere un “modo” di pensare diverso da quello ordinario.
Si è per lo più convinti, infatti, che il contenuto A può trovarsi in accordo o disaccordo col contenuto B, ma non che, oltre il pensare rappresentativo, possa magari darsene uno “immaginativo”.
Tuttavia, nel passo che abbiamo letto, le “scoperte effettive” rappresentano appunto il “cosa” (il contenuto) del pensiero di Goethe, mentre gli “intenti” (diretti “a trovare il punto essenziale”) rappresentano invece il “come” o il “modo” (la sua modalità o qualità).
Inutile dire che questo diverso tipo di pensiero non sostituisce quello ordinario, ma vi si aggiunge, così come, poniamo, la vista recuperata chirurgicamente da un cieco nato, non si sostituisce agli altri sensi, ma vi si aggiunge, arricchendo così l’esperienza (percettiva).
Conclude comunque Steiner: “Egli voleva ricondurre i fenomeni dell’atmosfera alle loro cause giacenti nella natura stessa della terra. Si trattava anzitutto di trovare il punto in cui si esprime immediatamente la legge fondamentale che condiziona tutto il resto. Un tale fenomeno era dato dallo stato barometrico; e questo, infatti, Goethe pure riguardava come il fenomeno-tipo, cercando di riconnettervi tutto il resto (…) Occorre però guardarci dall’interpretare in modo troppo estensivo questa spiegazione goethiana. Goethe è contrario al fare ipotesi. Egli non voleva fornire altro che un’espressione di un fenomeno osservabile, non una vera effettiva causa, nel senso della scienza naturale odierna (…) Più di tutto lo interessava la formazione delle nuvole, per la quale aveva trovato nella dottrina di Howard (l’inglese Luke Howard, autore di On modification of clouds – 1772-1864 – nda) un mezzo per fissare quelle formazioni continuamente cangianti, in determinate condizioni fondamentali, per “concretare in durevole forma di pensiero ciò che ondeggia in labile parvenza” (…) Il filo a cui egli salda le singole forme (stratus, cumulus, cirrus, nimbus – nda) glielo offre (…) una diversità di caratteristiche dell’atmosfera ai diversi livelli di altezza (…) Bisogna tener presente che Goethe non poteva mai sognarsi di considerare quel filo come qualcosa di reale. Egli era esattamente cosciente che solo la singola formazione è da riguardarsi come reale per i sensi nello spazio, mentre tutti gli altri principi esplicativi superiori esistono unicamente per gli occhi dello spirito” (p. 180).
Detto questo, possiamo passare all’esame del quattordicesimo capitolo, l’unico che Steiner non ha scritto per introdurre un lavoro scientifico di Goethe.
Spiega infatti: “Questa esposizione non è stata scritta perché in un’edizione goethiana dovesse essere accolta anche la Teoria dei colori corredata da un’introduzione, ma è scaturita da un profondo bisogno spirituale del redattore stesso. Questi, avendo preso le mosse dallo studio della matematica e della fisica, fu portato, per necessità interiore, dalle molte contraddizioni che pervadono il sistema della nostra concezione moderna della natura, all’indagine critica della sua base metodologica. I suoi studi iniziali lo condussero al principio del rigoroso sapere sperimentale; la visione di quelle contraddizioni, a una teoria della conoscenza severamente scientifica. Il suo punto di partenza positivistico lo preservava dal cadere in pure costruzioni concettuali hegeliane e, finalmente, con l’aiuto dei suoi studi di teoria della conoscenza, egli scoprì che molti errori della scienza naturale moderna dipendevano dalla posizione del tutto falsa da questa assegnata alla semplice sensazione” (p. 183).
Bene, apriamo allora questo Dizionario di psicologia (Arthur S.Reber – Lucarini, Roma 1990) per vedere quel che dice alla voce “sensazione”: “Sensazione viene solitamente distinta da percezione, essendo quest’ultima costituita dall’interpretazione e dall’elaborazione della sensazione”.
Si distingue dunque, giustamente, la sensazione dalla percezione, ma si sostiene, erroneamente, che la prima precede la seconda.
Spiega infatti Steiner: “Ciò che si è svolto come percezione sensoria è da distinguersi da ciò che continuate a portare più oltre nell’anima, da ciò che distaccate dal mondo esteriore. Quello che sperimentate dalle cose lo chiameremo percezione, e quello che portate più oltre nell’anima lo chiameremo sensazione” (Antroposofia, Psicosofia, Pneumatosofia – Religio, Roma 1939, p. 81).
Fatto si è che quando si parla di “sensazione” si parla di “coscienza”. Usiamo dire, infatti: “anima senziente”, “anima razionale” e “anima cosciente”, ma potremmo benissimo dire: “coscienza senziente”, “coscienza razionale” e “autocoscienza”.
Dobbiamo dunque la sensazione (Empfindung o Sinnesempfindung) all’anima o alla coscienza “senziente”, mentre dobbiamo la percezione (Wahrnehmung) al corpo fisico, al corpo eterico e al corpo senziente.
Per capire il perché Steiner dica che “molti errori della scienza naturale moderna” dipendono “dalla posizione del tutto falsa da questa assegnata alla semplice sensazione”, sarà comunque meglio leggere quanto dice al riguardo questo Dizionario medico (Il dizionario della medicina – Fabbri, Milano 1981, vol. V, p. 1963): “Per illustrare il concetto di percezione viene classicamente riportato il seguente esempio: vedere una qualità sensibile (la bianchezza della carta), è una sensazione, vedere invece l’oggetto (la carta bianca) è una percezione”.
Come si vede, all’autore di questo “classico” esempio (e a tutti coloro che lo riportano) sfugge interamente il fatto che l’oggetto (la carta bianca) è una “qualità sensibile” (cartacea) assolutamente pari a quella della “bianchezza”, e che si dovrebbe pertanto parlare di due percezioni o di due sensazioni, e non di una sensazione e di una percezione.
Ma perché allora lo si fa? Perché si divide il campo dell’esperienza in due parti, dichiarando (non si sa perché) l’una oggettiva (quella quantitativa) e l’altra soggettiva (quella qualitativa), servendosi poi della prima per spiegare la seconda.
La nostra scienza – osserva appunto Steiner – “pone tutte le qualità sensibili (suono, colore, calore, ecc.) nel soggetto, e ritiene che “fuori” di questo, a tali qualità corrispondano solamente dei processi di movimento della materia. Questi processi di movimento, che dovrebbero essere l’unica cosa esistente “nel regno della natura”, non possono più, naturalmente, essere percepiti, ma vengono dedotti in base alle qualità soggettive. Ma una tale deduzione deve apparire manchevole di fronte a un pensiero coerente. Il movimento non è, anzitutto, che un concetto da noi preso a prestito dal mondo dei sensi; ci si presenta dunque soltanto negli oggetti dotati di qualità sensibili. Noi non conosciamo nessun movimento all’infuori di quello che scorgiamo negli oggetti sensibili. Ora, se si applica questo predicato a esseri non-sensibili, quali dovrebbero essere gli elementi della materia discontinua (atomi), bisogna esser ben consci che con tale applicazione si viene ad ascrivere a un attributo percepito sensibilmente (al “movimento” – nda) una forma d’esistenza (“atomica” – nda) concepita tutt’altro che sensibilmente” (pp. 183-184).
E’ noto, ad esempio, che il materialismo “dialettico” (il marxismo) si distingue dal materialismo “meccanicistico” (o “dogmatico”) proprio perché si basa, non sulla semplice “materia”, ma sulla “materia in movimento”.
Chi tira in ballo il movimento, tira però in ballo una forza, un’energia o un divenire: ossia una realtà che ha a che fare direttamente col tempo, e solo indirettamente con lo spazio.
I nostri sensi, infatti, percepiscono sempre il “mosso”, e mai il “movimento”: sono cioè sempre alle prese con gli effetti, nello spazio (“negli oggetti dotati di qualità sensibili”), di una forza che opera nel tempo o che, per meglio dire, è tempo.
Appare pertanto “manchevole” (“di fronte a un pensiero coerente”) una “logica” che estrae o astrae, dagli “oggetti dotati di qualità sensibili”, una forza (o una qualità) sensibilmente impercepibile, per attribuirla poi a degli “esseri non-sensibili”, e quindi altrettanto sensibilmente impercepibili.
Osserva Steiner: “Qualcuno attribuisce all’atomo le qualità dell’impenetrabilità, dell’irradiazione di forza, altri l’estensione e simili; ma sono pur sempre qualità tolte a prestito dal mondo sensibile. Altrimenti si rimane completamente nel vuoto”. E aggiunge: “In ciò sta la manchevolezza. Si tira una linea nel bel mezzo del mondo sensibilmente percepibile e se ne dichiara una parte oggettiva, l’altra soggettiva. Ma una cosa sola è coerente; cioè che, se gli atomi esistono, essi sono semplicemente una parte della materia, dotati delle qualità della materia e impercettibili ai nostri sensi solamente a causa della loro piccolezza (…) Per me era dunque chiaro che il movimento dell’etere, la posizione degli atomi, ecc., vanno posti nella medesima categoria delle sensazioni stesse (die Sinnesempfindungen selbst – nda)” (p. 184).
Che cosa abbiamo detto infatti, poc’anzi, riguardo all’esempio della carta? Che l’oggetto (la carta bianca) è una “qualità sensibile” (cartacea) assolutamente pari a quella della “bianchezza”, e che sia l’una che l’altra dovrebbero perciò essere poste, per dirla con Steiner, “nella medesima categoria delle sensazioni stesse” (e non – come invece si fa – una nella “categoria” delle percezioni e l’altra in quella delle sensazioni).
Come non giudicare quindi “manchevole” la “logica” di chi considerasse, ad esempio, i baffi, le zampe e la coda come parti del gatto e il muso come il gatto, anziché considerare baffi, zampe, coda e muso come parti del gatto, e porle perciò tutte sullo stesso piano?
Ma da che cosa discendono tali manchevolezze? Dal semplice fatto che la realtà sovrasensibile della qualità, di cui non si è coscienti, viene fatalmente proiettata su un contenuto sensibile o sub-sensibile.
E’ proprio questo che accade, infatti, allorché si sancisce che le sensazioni quantitative (le “qualità primarie” di Locke) sono oggettive, e quindi essenziali, e che le sensazioni qualitative (le “qualità secondarie” di Locke) sono soggettive, e quindi inessenziali.
Scrive Steiner: “Tale opinione soggettivistica trova poi un secondo appoggio nelle considerazioni fisiologiche. La fisiologia dimostra che la sensazione sorge soltanto come ultimo risultato d’un processo meccanico che muove, anzi tutto, da quella parte del mondo corporeo che sta fuori della nostra sostanza corporea, si comunica agli organi terminali del nostro sistema nervoso, entro gli organi sensori, e si trasmette poi, da qui, fino al centro superiore, dove appunto suscita la sensazione. Le contraddizioni di questa teoria fisiologica si trovano esposte più avanti, nel capitolo Goethe contro l’atomismo. Ma solo la forma del movimento della sostanza cerebrale si può indicare qui come soggettiva” (p. 185).
Secondo la fisiologia, la sensazione si suscita dunque nel cervello (nel “centro superiore”) allorché questo viene raggiunto (per via afferente) da quello stimolo fisico o ambientale (da “quella parte del mondo corporeo che sta fuori della nostra sostanza corporea”) che i recettori (le terminazioni nervose degli organi di senso) hanno provveduto nel frattempo a trasformare in un impulso nervoso. D’accordo, ma in qual modo si suscita?
Ce lo spiega Edoardo Boncinelli: “L’eccitazione di ciascun recettore dà origine a un segnale nervoso che risale verso un piccolo centro del tronco cerebrale, detto nucleo solitario. Qui passa a un altro neurone che raggiunge uno specifico centro del talamo, che si trova nel diencefalo e dal quale parte un terzo neurone che manda il suo assone direttamente verso un paio di regioni della corteccia cerebrale. Sono queste che integrano i vari segnali e ci danno il sapore della pesca, dell’albicocca o di qualsiasi altra cosa si stia mangiando o assaggiando. Qui si passa da una serie di eccitazioni nervose, che possiamo chiamare collettivamente un neurostato, a una sensazione di origine centrale, che possiamo chiamare uno psicostato. Per essere più precisi abbiamo un primo neurostato a livello del nucleo solitario, un secondo neurostato a livello del nucleo talamico e un terzo neurostato a livello della corteccia. In quest’ultima sede, magicamente, al neurostato corticale viene associato uno psicostato. Non siamo in grado per il momento di comprendere quello che succede nell’ultimo passaggio, che per altro non potrà essere di natura puramente biologica, ma possiamo rivolgere la nostra attenzione alle relazioni fra i tre neurostati che lo precedono e che lo hanno causato” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 112).
Nel cervello, dunque, non si suscita direttamente la sensazione, bensì si attiva un “neurostato” cui viene ad associarsi, “magicamente” (sic!), uno “psicostato”, ossia appunto una “sensazione” (“il sapore della pesca, dell’albicocca”).
In cos’altro può dunque consistere (“magia” a parte) “l’ultimo passaggio” dal neurostato allo psicostato (che “non potrà essere – precisa oltretutto Boncinelli – di natura puramente biologica”), se non appunto nel passaggio – come abbiamo detto – dal corpo (fisico, eterico, senziente) all’anima (senziente)?
Ove non si fosse gravati da pregiudizi materialistici, non sarebbe quindi difficile riconoscere che il cervello è la “sede” dei neurostati, mentre l’anima è la “sede” degli psicostati: ovvero la “sede” – come pure abbiamo accennato – in cui l’implicito contenuto oggettivo della percezione (dello stimolo fisico o ambientale), dopo aver assunto le forme soggettive dell’impulso nervoso e del neurostato, prende finalmente a esplicitarsi: cioè a dire a rivelarsi per quello che è (il che avverrà però pienamente solo quando, al di là dell’anima senziente, si darà in forma di concetto: ossia in una “forma” senza forma).
Mi auguro sia chiaro, così, il perché Steiner dica che “solo la forma del movimento della sostanza cerebrale si può indicare qui come soggettiva”.
Prosegue infatti: “Che cosa è, anzi tutto, da considerarsi soggettivo? La costituzione dell’intero organismo; dunque, anche degli organi sensori del cervello, che probabilmente appariranno in ogni uomo in una modificazione alquanto diversa. Ma ciò che può venire dimostrato per questa via, è solo una determinata configurazione dell’ordinamento e della funzione delle sostanze pel cui mezzo la sensazione viene trasmessa. Soggettiva è dunque veramente soltanto la via che la sensazione ha da percorrere prima di poter essere chiamata la mia sensazione. La nostra organizzazione trasmette la sensazione, e queste vie di trasmissione sono soggettive; ma la sensazione non lo è” (pp. 185-186).
Oggettivo è dunque il contenuto della sensazione, mentre soggettive (in quanto appartenenti al soggetto) sono le vie lungo le quali si trasmette e le varie forme che assume attraversandole.
Immaginiamo, tanto per fare un banale esempio, di lanciare una pietra, e che questa, lungo il suo tragitto, prima rompa un vetro e poi ricada nell’acqua.
Ebbene, non è forse la pietra diversa dall’aria, dal vetro e dall’acqua? E la sua natura (la sua qualità) non è pure diversa dalla natura (dalla qualità o dalla forma) degli effetti che il suo passaggio produce in tali mezzi?
Conclude Steiner: “Resterebbe ora la via dell’esperienza interiore. Che cosa sperimento io nella mia interiorità quando indico che una sensazione è mia? Sperimento di compiere nel mio pensiero il riferimento alla mia individualità, di estendere la sfera del mio sapere a questa sensazione; ma non sono cosciente di generare io stesso il contenuto delle sensazioni. Io determino soltanto il riferimento a me, ma la qualità della sensazione è un fatto fondato in se stesso. Da qualsiasi parte si cominci, da dentro o da fuori, non si giunge al punto in cui si potrebbe dire: Qui è dato il carattere soggettivo della sensazione. Al contenuto della sensazione il concetto di “soggettivo” non è applicabile” (p. 186).
Il concetto di “soggettivo”, quale concetto di ciò che è presente all’interno del soggetto, e al quale questo conferisce perciò la sua forma, non è in effetti applicabile al contenuto della sensazione, così come non è applicabile al contenuto delle immagini percettive (al percetto), a quello delle immagini mnemoniche (al ricordo in sé, all’engramma o alla traccia mnestica), a quello delle immagini oniriche (allo junghiano archetipo in sé) e a quello delle rappresentazioni (al concetto). E perché? Perché tutti questi contenuti hanno la medesima natura o qualità del concetto: e questo – come abbiamo ricordato poco fa – è forma (potenziale), ma non ha forma (attuale).
Roma 4 settembre 2001