La settimana scorsa, abbiamo concluso l’esame del primo paragrafo del quindicesimo capitolo. Stasera, cominceremo perciò a occuparci del secondo, intitolato: Il “fenomeno primordiale” .
Scrive Steiner: “Se potessimo seguire tutta la serie dei processi che si compiono durante qualsiasi percezione sensoria, dal termine periferico del nervo nell’organo sensorio, fino al cervello, non giungeremmo tuttavia mai fino a quel punto in cui cessano i processi meccanici, chimici ed organici, insomma i processi spaziali-temporali, e sorge ciò che chiamiamo percezione sensoria, cioè la sensazione del colore, della luce, del suono, ecc.. Non è rintracciabile il punto in cui il moto causale passa al suo effetto, la percezione. Ma visto e considerato questo fatto, possiamo ancora dire che le due cose stiano tra loro nel rapporto di causa ed effetto?” (p. 193).
Seguendo l’intero processo che va dallo stimolo (ambientale), attraverso l’impulso (nervoso), al cervello, mai si arriva a quella che Steiner chiama qui “percezione sensoria” o “sensazione”. Afferma infatti John Eccles (1903-1997): “Finora, è stato impossibile sviluppare qualsiasi teoria neurofisiologica che spieghi il modo in cui si possa raggiungere la sintesi di una diversità di eventi cerebrali, affinché vi sia un’esperienza cosciente unificata di carattere globale o di Gestalt. Gli eventi cerebrali rimangono disparati, poiché essi sono essenzialmente i singoli effetti di innumerevoli neuroni che sono organizzati in moduli ed entrano così a far parte degli schemi spazio-temporali di attività. Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento”; e ancora: “Non esiste alcuna spiegazione per il tremendo enigma dell’unificazione delle nostre esperienze percettive” (Come l’io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994, pp. 49-50 e 140).
Continua Steiner: “Investighiamo una volta i fatti del tutto obiettivamente”, supponendo che, nella nostra coscienza, appaia la sensazione del colore rosso. “Una volta che ho la sensazione del rosso, insieme con l’indicazione di un determinato luogo, vengo anzi tutto condotto a qualche oggetto del mondo esterno quale portatore di tale sensazione. Ora posso certamente chiedermi quali processi spaziali-temporali si svolgano in quell’oggetto mentre esso mi appare dotato del colore rosso; e allora, come risposta alla mia domanda, mi si offriranno processi meccanici, chimici ed altri. Proseguirò quindi nell’indagine, e cercherò quali processi si siano svolti lungo la via da quell’oggetto fino al mio organo sensorio per trasmettermi la sensazione del rosso. Anche qui non potranno presentarmisi quali intermediari se non processi di moto, o correnti elettriche, o mutamenti chimici. Il medesimo risultato dovrei ottenere anche se potessi andar oltre e indagare l’ulteriore trasmissione dall’organo sensorio fino al centro cerebrale. Il quid che viene trasmesso lungo tutta questa via, è la percezione del rosso in questione. Ma il come quella percezione si presenti in un determinato oggetto giacente sulla via che va dallo stimolo fino alla percezione, dipende unicamente dalla natura di quell’oggetto. La sensazione è presente in ogni luogo, dallo stimolo fino al cervello, ma non come tale, non esplicita, bensì quale corrisponde alla natura dell’oggetto esistente in quel luogo” (pp. 193-194).
Dal momento, però, che abbiamo imparato a distinguere tra l’atto percettivo, che (facendosi incontro allo stimolo) avvia il processo della percezione, l’immagine percettiva, che lo conclude, il percetto, quale contenuto della percezione, e la sensazione, quale esperienza animico-senziente del percetto (ne abbiamo parlato un paio di volte fa), ci converrà rileggere questo passo nel modo seguente: “Una volta che ho la sensazione del rosso, insieme con l’indicazione di un determinato luogo, vengo anzi tutto condotto a qualche oggetto del mondo esterno quale portatore del contenuto di tale sensazione. Ora posso certamente chiedermi quali processi spaziali-temporali si svolgano in quell’oggetto mentre esso mi appare dotato del colore rosso; e allora, come risposta alla mia domanda, mi si offriranno processi meccanici, chimici ed altri. Proseguirò quindi nell’indagine, e cercherò quali processi si siano svolti lungo la via da quell’oggetto fino al mio organo sensorio per trasmettermi il contenuto della sensazione del rosso. Anche qui non potranno presentarmisi quali intermediari se non processi di moto, o correnti elettriche, o mutamenti chimici. Il medesimo risultato dovrei ottenere anche se potessi andar oltre e indagare l’ulteriore trasmissione dall’organo sensorio fino al centro cerebrale. Il percetto che viene trasmesso lungo tutta questa via, è il contenuto della percezione e della sensazione del rosso in questione. Ma il come quel contenuto si presenti in un determinato mezzo giacente sulla via che va dallo stimolo fino alla immagine percettiva (quale esito del processo percettivo), dipende unicamente dalla natura di quel mezzo. Il contenuto della sensazione è presente in ogni luogo, dallo stimolo fino al cervello, ma non come sensazione, non esplicito, bensì quale corrisponde alla natura del mezzo esistente in quel luogo”.
Queste modifiche mirano ovviamente a rendere le cose più chiare, e non a correggere Steiner. Del resto, ciò che dice nell’ultima frase, “la sensazione è presente in ogni luogo, dallo stimolo fino al cervello, ma non come tale, non esplicita…”, potrebbe già bastare a capire che quel che “è presente in ogni luogo, dallo stimolo fino al cervello” (il percetto) non è ancora la sensazione, in quanto questa si darà, “come tale”, solo quando il percetto arriverà a esplicitarsi nell’anima senziente.
Per andare dal corpo allo spirito o, il che è lo stesso, dal sonno alla veglia (all’anima cosciente o alla rappresentazione), il percetto deve dunque compiere un viaggio, le cui tappe non modificano la sua intrinseca natura (che resta sempre quella che è), bensì solo la forma delle sue varie manifestazioni (per noi, incoscienti o coscienti).
Osserva infatti Steiner: “Da ciò risulta però una verità ch’è atta a illuminare tutto il fondamento teorico della fisica e della fisiologia. Che cosa apprendo io investigando un oggetto (Ding – nda) tratto da un processo che nella mia coscienza si presenta quale sensazione? Nulla più che il modo in cui quell’oggetto (Ding – nda) risponde all’azione che parte dalla sensazione; in altre parole: il modo in cui una sensazione si estrinseca in un qualsiasi oggetto (Gegenstand – nda) del mondo spaziale-temporale. Lungi dall’essere la causa che suscita in me la sensazione, quel processo spaziale-temporale è l’effetto della sensazione in un oggetto (Ding – nda) esteso nello spazio e nel tempo” (p. 194).
Bene, riprendiamo allora quanto dice del suono Boncinelli (ch’è ”costituito da una vibrazione delle molecole dell’aria che si propaga con una certa velocità, come un’onda di pressione” – Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 16), e proviamo a rileggere, in questa chiave, anche questo passo (tanto più che la traduzione non è qui delle migliori): “Che cosa apprendiamo investigando la vibrazione delle molecole dell’aria, tratta da un processo che nella mia coscienza si presenta quale suono? Nulla più che il modo in cui quelle molecole dell’aria rispondono all’azione che parte dal suono; in altre parole: il modo in cui il suono si estrinseca nell’aria (nell’acqua, o in un qualunque altro mezzo, si estrinsecherebbe in modo diverso). Lungi dall’essere la causa che suscita in me il suono, quella vibrazione delle molecole è l’effetto del suono nell’aria”.
Risposta a una domanda
Il suono è in sé una qualità, e per ciò stesso un’essenza che appare in modo diverso a seconda dell’ambito in cui si presenta. Grazie a Steiner sappiamo, ad esempio, che una stessa qualità “solare” si presenta, nell’ambito delle note musicali, come la, nell’ambito dei metalli, come oro e, in quello anatomo-fisiologico, come cuore. La tradizione usa parlare, a questo proposito, di “analogie”, ma queste si fondano appunto sul fatto che l’essenza è una, mentre le sue manifestazioni possono essere molteplici. Ricordi, inoltre, che la qualità o l’essenza ci si dà come concetto (A), e che è questo – come sappiamo – a essere presente, fin dall’inizio (del processo percettivo), in veste di percetto (X). Abbiamo detto, infatti, che il percetto è il concetto sconosciuto, mentre il concetto è il percetto conosciuto.
“Ora vediamo – scrive Steiner – di che genere siano quei processi trasmettitori. Li investighiamo forse altrimenti che per mezzo dei nostri sensi? Forse ch’io posso esaminare i miei sensi stessi con altri mezzi che non siano appunto questi sensi medesimi? I termini periferici dei nervi, le circonvoluzioni del cervello, non sono forse dati appunto attraverso la percezione sensoria? (…) Seguendo la percezione dal punto in cui viene eccitata, fino all’organo di percezione, noi non investighiamo null’altro che il continuo trapasso da una percezione all’altra. Davanti a noi sta il “rosso”, come quello per ragion del quale intraprendiamo, in genere, tutta la nostra indagine. Il color rosso ci riporta al suo stimolo. In questo osserviamo altre sensazioni connesse col color rosso. Sono processi di moto. Gli stessi si mostrano poi, come ulteriori processi di moto, tra lo stimolo e l’organo sensorio, e così via. Ma tutte queste sono anch’esse, a loro volta, sensazioni percepite; e non rappresentano che una metamorfosi di processi i quali, in quanto cadono sotto l’osservazione dei sensi, si dissolvono totalmente in percezioni. Dunque il mondo percepito non è altro che una somma di percezioni metamorfosate” (p. 195).
In effetti, osserviamo lo stimolo ambientale metamorfosarsi nell’impulso nervoso, osserviamo questo risalire, lungo le vie nervose, al cervello (metamorfosandosi, nell’intervallo sinaptico, in impulso bio-chimico), e metamorfosarsi a sua volta, nel cervello (nella neocorteccia), in un “neurostato” (Boncinelli) o in una “esocitosi dai reticoli vescicolari presinaptici delle cellule piramidali dei dendroni” (Eccles – Op. cit. p. 140).
Come si vede, si tratta sempre di percezioni sensibili (oggi supportate da strumenti sempre più raffinati). Qual è allora il problema? E’ che il pensiero dovrebbe scoprire il nesso che lega tra loro tutte queste percezioni, anzichè arrogarsi arbitrariamente il diritto di elevarne alcune al rango oggettivo di “cause” e abbassarne altre al rango soggettivo di “effetti”.
Scrive Steiner: “Abbiamo dovuto, per comodità, servirci di un’espressione che non si può mettere interamente d’accordo col presente risultato. Abbiamo detto che ogni oggetto inserito nello spazio intermedio fra lo stimolo e l’organo di percezione porta ad espressione una sensazione nel modo che è conforme alla sua natura. Prendendo la cosa rigorosamente, l’oggetto stesso non è altro che la somma di quei processi in cui si manifesta” (p. 195).
Ma è proprio per prendere “la cosa rigorosamente”, che abbiamo prima operato delle distinzioni e riletto, modificandoli, un paio di passi. Cosa vuol dire infatti Steiner? Che “ogni oggetto inserito nello spazio intermedio fra lo stimolo e l’organo di percezione” (nel caso del suono, l’aria, le orecchie, il sistema nervoso o il cervello) “non è altro” che un ulteriore insieme di percezioni (“la somma di quei processi in cui si manifesta”).
Ma attraverso tutti questi mutamenti che cos’è allora a “durare”?
Scrive al riguardo Steiner: “Si pretende che alla sensazione passeggera stia di fronte un processo durevole obiettivo che, come tale, sia a sua volta obiettivamente delimitato nel tempo, abbia, cioè, principio, durata e fine. Tale processo dovrebbe svolgersi in una materia senza principio né fine, vale a dire indistruttibile, eterna. Questa si dice essere l’elemento durevole nel mutare dei processi. Ma non dobbiamo forse rigorosamente distinguere tra il contenuto della sensazione e il manifestarsi della medesima? (…) Per questo contenuto, preso puramente come tale, non è forse affatto indifferente che, proprio in questo momento esso entri nella mia coscienza, e dopo un certo numero di minuti secondi ne esca? Ciò che costituisce il contenuto della sensazione, vale a dire, quella cosa che sola entra obiettivamente in considerazione, ne è del tutto indipendente. Ora non si può riguardare come condizione essenziale della sussistenza di una cosa ciò che per il suo contenuto è affatto indifferente” (p. 196).
Che cos’è infatti il percetto se non appunto quel contenuto della percezione che comincia a rivelarsi (nella sua qualità) nella sensazione? In quanto qualità, essenza o concetto, tale contenuto è indipendente dal tempo e dallo spazio, ma ci si fa incontro nel tempo e nello spazio.
Penso ricorderete, a questo proposito, lo schema che ci fu di aiuto nello studio de La filosofia della libertà. Mi riferisco a quello schema in cui, accanto ai concetti di “corpo fisico”, “corpo eterico”, “corpo astrale” e “Io”, ponemmo quelli, nell’ordine, di “spazio”, “tempo”, “qualità” ed “essere”, notando inoltre che la “soglia” che divide la sfera dell’esistere (del corpo fisico e del corpo eterico) da quella dell’essere (del corpo astrale e dell’Io) divide anche la sfera dello spazio e del tempo da quella della qualità e dell’essere.
Ebbene, Steiner, nel passo testé citato, sottolinea appunto il fatto che il tempo non ha a che fare con l’essenza del fenomeno, bensì soltanto con la sua manifestazione. Il tempo – spiega infatti Hegel – “è il puro essere in sé in quanto è semplicemente un venir fuori di sé”, mentre lo spazio è “la giustapposizione del tutto ideale, perché è l’esser fuori di sé stesso…” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 234 e 229).
Il tempo è dunque il venir fuori di sé della qualità (un processo), mentre lo spazio è il suo essere fuori di sé (uno stato).
Scrive Steiner: “Se in un dato giorno emerge una nuova qualità che si conserva durante qualche tempo in diversi stati di evoluzione e poi nuovamente scompare, dobbiamo anche qui riguardare come essenziale il contenuto di tale qualità; e questo, come tale, non ha assolutamente nulla a che fare coi concetti di principio, durata e fine. Per “essenziale” intendiamo qui quello per cui una cosa è appunto quale si presenta. Quel che importa non è che qualcosa emerga in un determinato momento, ma che cosa emerga. La somma di tutte queste determinazioni espresse col “che cosa” forma il contenuto del mondo. Senonché, questo “che cosa” si estrinseca nelle più svariate determinazioni e nelle più diverse forme; forme che stanno in reciproci rapporti e si determinano vicendevolmente. Con ciò entrano nel rapporto di derivazione secondo spazio e tempo” (pp. 196-197).
Il contenuto del mondo è formato dunque dalla “somma” (dall’insieme) dei qualia, e non solo dei quanti. Per comprenderlo davvero, occorrerebbe pertanto disporre, sia di una scienza delle quantità, sia di una scienza delle qualità (di una scienza dello spirito). Se è un limite, infatti, conoscere unicamente la quantità, è invece un vero e proprio male ridurre – come in genere si fa – la qualità (che non si conosce) alla quantità (che si conosce).
Continua Steiner: “Solo da un’interpretazione affatto errata del concetto di tempo è stato generato il concetto di materia. Si crede di volatilizzare il mondo in un’apparenza priva di sostanza, se a tutta la somma mutevole degli avvenimenti non si pensa sottoposto qualcosa di immutabile che perduri nel tempo e rimanga tal quale, mentre le sue determinazioni cambiano. Ma il tempo non è un recipiente entro il quale si svolgono i mutamenti; esso non esiste prima e fuori delle cose. Il tempo è l’espressione sensibile della circostanza che i fatti, secondo il loro contenuto, dipendono successivamente l’uno dall’altro (…) Il tempo comincia ad apparire soltanto là dove l’essenza di una cosa si manifesta. Il tempo appartiene al mondo dei fenomeni manifesti. Esso non ha ancor nulla a che fare con l’essenza stessa. Questa è afferrabile solo idealmente. Solo chi non è in grado di compiere nel suo pensiero questa riascesa dalla manifestazione all’essenza, ipostatizza il tempo come qualcosa che precede i fatti. Allora però gli occorre un’esistenza che sopravviva ai mutamenti. Come tale, assume la materia indistruttibile” (p. 197).
Osserva appunto Hegel: “Tutto si dice, nasce e muore nel tempo; se si astrae da tutto, vale a dire dal riempimento del tempo, ed anche dal riempimento dello spazio, restano il tempo vuoto e lo spazio vuoto, – cioè si pongono e rappresentano allora codeste astrazioni dell’esteriorità come se esse fossero per sé. Ma non è già nel tempo che tutto nasce e muore: il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire” (Op. cit. p. 234).
Ciò sta dunque a significare che il nostro corpo (fisico) è il nostro spazio, e che il nostro corpo eterico è il nostro tempo. Ma che cos’è il nostro tempo? E’ la durata della nostra vita terrena o, per meglio dire, della nostra manifestazione terrena.
Il tempo è quindi un fatto, e non altro dai fatti, è il vivere stesso quale forza, movimento o divenire, e non, per dirla con Steiner, un “recipiente” in cui si svolge la vita.
Dice sempre Steiner che “solo chi non è in grado di compiere nel suo pensiero questa riascesa dalla manifestazione all’essenza, ipostatizza il tempo come qualcosa che precede i fatti”. Perché “riascesa”? Perché l’attività conoscitiva (umana) è chiamata a ripercorrere all’inverso, e perciò appunto a “riascendere”, quel cammino dell’attività creatrice (cosmica) le cui tappe principali – come abbiamo già avuto modo di ricordare – vengono da Steiner indicate (nelle Massime antroposofiche) come quelle della “Entità divino-spirituale” (Io), della Sua “manifestazione” (mondo astrale), del Suo “effetto operante” (mondo eterico), e della Sua “opera compiuta” (mondo fisico).
Risposta a una domanda
Potremmo anche dire, volendo, che “solo chi non è in grado di compiere nel suo pensiero questa riascesa” dallo spazio al tempo e, soprattutto, dal tempo alla qualità (non avendo realizzato come la qualità fluisca dapprima come tempo e precipiti poi come spazio) sente il bisogno di ricercare qualcosa di “durevole” che stia, non al di là, bensì al di qua del tempo e dello spazio.
Per compiere tale riascesa, è infatti necessario un pensare in grado di muoversi tra questi livelli, e di sperimentare la loro realtà metamorfosando se stesso. Cos’altro sono infatti il pensare immaginativo e quello ispirativo se non delle metamorfosi ascendenti di quello rappresentativo (ordinario)? Abbiamo a suo tempo paragonato tali livelli ai piani di una casa, e il pensare alla scala che li congiunge. Come, senza la scala, non ci sarebbe dato salire e scendere da un piano all’altro, così, senza il pensiero, non ci sarebbe dato salire (noeticamente) e scendere (eticamente) da un livello di manifestazione all’altro. Se non si scopre e sperimenta l’essenziale continuità del pensare, non si può dunque scoprire la realtà dei diversi livelli di coscienza.
In quanto atto dell’Io, o Io in atto, il pensare rappresenta infatti la “quintessenza”: ovvero, l’essenza unica e durevole delle molteplici e mutevoli manifestazioni.
Roma, 18 settembre 2001