Stasera, prima di continuare la lettura del secondo paragrafo del quindicesimo capitolo, vorrei fare qualche altra considerazione sul problema del tempo.
Nel nostro schema, che rappresenta una gerarchia – come direbbe René Guenon – degli “stati dell’essere” (R.Guenon: Gli stati molteplici dell’essere – Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965), abbiamo collocato il “tempo” tra lo “spazio” e la “qualità”, caratterizzandolo come “un fatto, e non altro dai fatti”, come “il vivere stesso quale forza, movimento o divenire”.
Se Goethe lo ritiene una realtà “sensibile-sovrasensibile”, ed Hegel una realtà “sensibile-insensibile”, lo si deve al fatto che il tempo è deputato appunto a mediare tra la sfera “sensibile” dello spazio e quella “sovrasensibile” o “insensibile” della qualità.
In quanto mediatore tra ciò che si presenta agli occhi del corpo fisico e ciò che si presenta a quelli dello spirito, il tempo ha carattere fluido e sfuggente: “Il tempo – osserva infatti Hegel – è l’essere che, mentre è, non è, e mentre non è, è; il divenire intuito” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 233). (Dichiara Faust a Mefistofele: “Se mai dirò all’attimo fuggente: Arrestati! Sei bello! Tu potrai mettermi in ceppi…” – Faust – Einaudi, Torino 1967, p. 47).
Questo suo carattere dinamico dovrebbe aiutarci a concepire nello stesso modo il nostro schema. Se è importante, infatti, riuscire a cogliere lo spirito nell’essere (gerarchico) dei suoi “stati”, altrettanto importante è riuscire a coglierlo nel loro divenire l’uno dall’altro: nel divenire dell’essenza o della qualità dall’Io sono (dall’”Entità divino-spirituale”); nel divenire del tempo dall’essenza o dalla qualità; nel divenire dello spazio dal tempo.
Sul piano conoscitivo, occorre però procedere – lo abbiamo detto – all’inverso: occorre cioè partire dalla coscienza dello spazio (rappresentativa) per farla divenire coscienza del tempo (immaginativa); partire da quella del tempo per farla divenire coscienza dell’essenza o della qualità (ispirativa); partire dalla coscienza dell’essenza o della qualità per farla divenire coscienza dello spirito o dell’Io sono (intuitiva).
Che cosa accade, infatti, quando non si è in grado di farlo? Accade che si studia l’esistere, senza mai riuscire a risalire all’essere, oppure si studia l’essere, senza mai riuscire a discendere all’esistere.
Ricordate il sogno di Giacobbe? “Ed ecco una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala” (Gn 28,12). Ebbene, non dovremmo imparare anche noi, come gli angeli, a salire e scendere per la scala dello spirito?
Ma riprendiamo adesso il testo, cominciando a leggere poco prima del punto in cui ci eravamo interrotti.
Scrive Steiner: “Solo chi non è in grado di compiere nel suo pensiero questa riascesa dalla manifestazione all’essenza, ipostatizza il tempo come qualcosa che precede i fatti. Allora però gli occorre un’esistenza che sopravviva ai mutamenti. Come tale, assume la materia indistruttibile. Con ciò avrebbe creato qualcosa su cui il tempo nulla può, che perdurerebbe in mezzo a ogni mutamento. In realtà però non ha fatto altro che mostrare la propria incapacità a penetrare dalla manifestazione temporale dei fatti alla loro essenza che col tempo non ha nulla a che fare (…) L’essenza di una cosa non può subire distruzione, poiché è fuori del tempo e determina essa stessa quest’ultimo” (pp. 197-198).
Vedete: “determina essa stessa quest’ultimo”. Come abbiamo detto, è infatti l’essenza, “venendo fuori di sé”, svolgendosi o manifestandosi, a determinare il tempo (a farsi tempo).
Continua Steiner: “Con ciò abbiamo gettato luce su due concetti pei quali oggi si trova ancora ben scarsa comprensione: i concetti di essenza e di manifestazione. Chi intende la cosa giustamente, nel modo suesposto, non può andare in cerca di una dimostrazione dell’indistruttibilità dell’essenza d’una cosa, perché la distruzione implica in sé il concetto di tempo, che con l’essenza non ha nulla a che fare. Dopo queste considerazioni possiamo dire che l’immagine sensibile del mondo è la somma dei contenuti delle percezioni in continua metamorfosi, senza una materia che ne sia alla base” (p. 198).
Dicendo “senza una materia che ne sia alla base”, non si nega ovviamente la materia quale realtà manifesta, bensì quella “materia indistruttibile” che si vorrebbe far valere come un’essenza: ossia, come una qualità, priva però di qualità, e quindi – secondo quanto abbiamo visto a suo tempo – come una quantità (rammentate quel che dice Hegel? “La quantità è il puro essere, in cui la determinazione è posta non più come una con l’essere stesso [com’è per la qualità – nda], ma come superata o indifferente”).
Ciò vuol dire, in altre parole, che la materia è vera, mentre il materialismo è falso. Una concezione che pone a proprio fondamento una realtà che non è spirituale perché è materiale e non è materiale perché è impercepibile (dai sensi) è infatti “metafisica”, e tutt’altro dunque che “scientifica” (come usa invece presentarsi).
Risposta a una domanda
E’ vero – come dice – che quando muore una persona che ci è cara soffriamo proprio perché ci viene a mancare la sua manifestazione. Ma tanto più soffriamo nel non percepirne più la manifestazione quanto meno abbiamo percepito, durante la sua vita, la sua essenza. Muore infatti il corpo fisico (ed è ciò che vediamo), muore il corpo eterico, muore il corpo astrale, ma non muore l’Io: muoiono cioè le manifestazioni dell’Io, ma non la loro essenza.
Il rappresentare ci dà però l’apparenza, non l’essenza. Il dolore che proviamo per la morte di coloro che amiamo è dunque una riprova della nostra dipendenza da quella coscienza rappresentativa ch’è fermamente vincolata alla percezione sensibile, e che, quando una persona cara scompare, ci consente di custodire nella memoria la sua sola apparenza fisica.
Abbiamo detto, una sera, che l’odierno materialismo non è tanto un fatto filosofico o ideologico, quanto piuttosto uno “stato esistenziale”; al punto che, parafrasando il titolo di un famoso articolo di Benedetto Croce (1866-1952), Perché non possiamo non dirci cristiani (La Critica, 20 novembre 1942), potremmo benissimo affermare: Perché non possiamo non dirci materialisti.
Non possiamo infatti non dirci tali, perché il nostro ordinario pensiero, in quanto riflesso, astratto, “debole” (Vattimo) o – come ama dire Scaligero – “dialettico”, è davvero “terra-terra”, e il nostro ordinario livello di coscienza non si solleva mai, per conseguenza, dal sensibile.
Si potrà anche essere convinti di aver superato il materialismo, e di parlare quindi in nome di uno dei tanti altri “ismi” che “passa – come si suol dire – il convento” (moderno e post-moderno), ma non si sarà, di fatto, che dei materialisti.
Osserva appunto Steiner (e siamo nel 1918!): “Spesso si sente ora dire che il materialismo del secolo decimonono è scientificamente superato. Ma in verità non lo è affatto. Soltanto al giorno d’oggi, assai spesso non ci si accorge che non abbiamo altre idee all’infuori di quelle con le quali ci si può accostare soltanto a quanto è materiale. Così si occulta attualmente il materialismo, mentre nella seconda metà del secolo decimonono si palesava apertamente. Ma, verso una concezione che comprenda il mondo spiritualmente, il celato materialismo contemporaneo non è meno intollerante di quello, confessato, del secolo scorso. Solamente, esso inganna molti uomini, i quali credono di dover respingere una concezione del mondo che tende alla spiritualità, per il fatto che la concezione delle scienze naturali ha “ormai da lungo tempo abbandonato il materialismo”” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 154).
Bando dunque alle ciance: o ci si decide a sviluppare un grado di coscienza superiore a quello ordinario (a quello dell’ego), o ci si troverà sempre meno in grado di affrontare e superare le prove che il destino ci riserva sul piano individuale e collettivo.
Quello stato patologico dell’intelletto (e dell’ego) che risponde al nome di “intellettualismo” crede, nella sua superbia e presunzione, di poter prendere sul serio tutto ciò che gli passa per la testa, e di potersela pertanto “cantare e suonare” in barba alla realtà. Ma la metafisica materialistica o scientistica che viene in tal modo arrangiando non è alimentata e sorretta dal pensiero, bensì (più o meno inconsciamente) dalla paura.
Lo sostiene Steiner, ma lo riconosce anche John Eccles (Nobel per la neurofisiologia, nel 1963), che scrive: “Se si dovesse descrivere la motivazione più profonda del materialismo, si potrebbe affermare che essa è semplicemente un terrore della coscienza (…) La ragione più profonda della paura della coscienza sta nel fatto che la coscienza possiede il carattere sostanzialmente terrificante della soggettività”: ovvero – potremmo aggiungere noi – dell’Io o dello spirito (Come l’io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994, p. 74).
Per vincere l’intellettualismo materialistico o scientistico, è dunque necessario vincere la paura, e quindi la resistenza (prevalentemente arimanica) a trasformare, per mezzo del pensare, il proprio sentire e il proprio volere (celebri, al riguardo, i seguenti versi di Goethe: “Finché non lo fai tuo, / questo “muori e diventa”, / non sei che uno straniero ottenebrato / sopra la terra scura” – Beato struggimento in Il Divano occidentale-orientale – Rizzoli, Milano 1997, p. 97 – trad. di Ludovica Koch).
Ma torniamo a noi.
Scrive Steiner: “L’esposizione fatta non colpisce, naturalmente, se non quel concetto della materia che la fisica pone alla base delle sue considerazioni, identificandola col vecchio, altrettanto errato, concetto di sostanza della metafisica. Altro è la materia pensata come la vera realtà posta alla base dei fenomeni, altro è la materia come fenomeno, come manifestazione. Le nostre considerazioni riguardano unicamente il primo di questi due concetti. Il secondo non ne viene toccato” (p.198).
E’ quello che dicevamo poc’anzi: un conto è la materia come “fenomeno”, altro la materia come “noumeno”. La prima è infatti una realtà fisica, mentre la seconda è un’illusione metafisica.
Continua Steiner: ”Il mondo di ciò che ci si presenta come percezione, vale a dire: estensione, moto, riposo, forza, luce, calore, suono, elettricità, ecc., è l’oggetto di tutta la scienza. Ora, (…) se tutto quanto si manifesta fosse un’espressione perfetta, per nulla turbata, dell’essenza interiore delle cose, allora la scienza sarebbe la cosa più inutile del mondo. Poiché il compito della conoscenza sarebbe già pienamente e totalmente adempiuto nella percezione. Anzi, non potremmo nemmeno distinguere tra essenza e manifestazione; entrambe, come identiche, coinciderebbero pienamente. Ma non è così. Supponiamo che l’elemento A, contenuto nel mondo dei fatti, stia in un certo rapporto con l’elemento B. Entrambi, secondo la nostra esposizione, non sono naturalmente altro che fenomeni. La connessione tra i due si manifesta a sua volta come fenomeno, e questo fenomeno vogliamo chiamarlo C. Ciò che possiamo ora stabilire, entro il mondo dei fatti, è il rapporto di A, B e C. Ma accanto ad A, B e C, esistono nel mondo sensibile ancora infiniti altri elementi simili. Prendiamone uno qualunque, D; non appena esso vi si aggiunga, tutto si presenterà modificato. Invece di avere C quale conseguenza di A più B, con l’intervento di D sorgerà un fenomeno essenzialmente diverso: E” (pp. 198-199).
Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che i fenomeni A, B, C e D sono tutti partecipi del fenomeno complesso E. Ma quali sono essenziali e quali accidentali? Quali costituiscono, cioè, una conditio, sine qua non per il darsi di E, e quali no? Questo è ancora da scoprire.
Scrive infatti Steiner: “La causa per cui ci si fa incontro il fenomeno E, sono altri fenomeni, in rapporti ora più vicini ora più lontani. Alcuni sono assolutamente indispensabili affinché un tale fenomeno possa prodursi, altri, anche mancando, non ne impedirebbero l’esistenza, epperò determinano ch’esso avvenga proprio così. Da ciò si vede che dobbiamo distinguere tra condizioni necessarie e condizioni accidentali di un fenomeno. Ora, i fenomeni che sorgono sotto la sola azione di condizioni indispensabili, possiamo chiamarli originari, gli altri derivati. Se comprendiamo i fenomeni originari partendo dalle loro premesse, possiamo, aggiungendo nuove premesse, comprendere altrettanto quelli derivati. Qui ci diventa chiaro il compito della scienza. Essa ha da penetrare nel mondo dei fenomeni tanto addentro, da trovarvi quelli dipendenti solo da condizioni necessarie. E l’espressione concettuale per tali connessioni necessarie è: leggi di natura (pp. 199-200).
Nella “legge di natura” si esprime dunque, concettualmente, l’Urphänomen di Goethe. La legge, in quanto condizione necessaria per il darsi del fenomeno, è sempre uguale a se stessa, mentre i fenomeni “derivati” possono variare, e far sì quindi che il fenomeno “originario” si presenti ora in un modo, ora in un altro.
Sarà bene comunque sottolineare che lo sceverare l’essenziale dall’inessenziale, se già non è facile nell’ambito dei fenomeni naturali, lo è ancor meno in quello delle vicende umane. E’ soprattutto in questo campo, infatti, che, in funzione delle simpatie e antipatie personali, delle brame o dei pregiudizi (tanto più condizionanti quanto meno consapevoli), si può essere indotti a spacciare l’inessenziale per essenziale, e viceversa.
Supponiamo, tanto per fare un banalissimo esempio, che uno straniero mi rubi il portafoglio, che io, accorgendomene, lo accusi del furto, e che qualcuno, sentendomi accusare uno straniero, mi dia dello “xenòfobo”. Io sto però incolpandolo non già perché è straniero, bensì perché è ladro. In rapporto all’accaduto, è infatti essenziale che mi abbia rubato il portafoglio, e non che sia straniero. Non sono dunque io a essere affetto da xenòfobia, ma è colui che mi giudica tale a essere semmai affetto da xenòfilia.
Risposta a una domanda
Dal nostro punto di vista, potremmo considerare la fisica “classica” come la fisica dell’ego, della coscienza rappresentativa e dell’”opera compiuta”.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, quando si è cominciato a porre il problema di superare (evolutivamente) questo livello di autocoscienza, di coscienza e di realtà, i fisici hanno però preso ad orientarsi, anziché verso il sovrasensibile, verso il subsensibile, finendo così col togliere via via all’ego gran parte delle sue certezze, senza fornirgliene altre di ordine superiore. La teoria della relatività, ad esempio, ha riunito lo spazio e il tempo in una ipotetica e astratta “quadridimensionalità”, e non – come sarebbe stato auspicabile – nella qualità o nell’essenza, così come la fisica quantistica non ci ha dato, con i quanti (subsensibili), che una contro-immagine dei qualia (sovrasensibili).
Ove si consideri, poi, che le certezze tolte all’ego dalla fisica “moderna” sono andate ad aggiungersi a quelle già sottrattegli da Marx, Nietzsche e Freud (dalla cosiddetta “scuola del sospetto” – cfr. P.Ricoeur: Dell’interpretazione – Saggio su Freud – Il Saggiatore, Milano 1967), non desterà più meraviglia l’assistere oggi a una inquietante involuzione e disgregazione (in primo luogo morale) dell’ego, piuttosto che a una sua positiva evoluzione.
Fatto si è che tali certezze (proprie della prima fase evolutiva dell’anima cosciente), appunto in ragione della loro base sensibile, avrebbero dovuto costituire un trampolino di lancio per lo sviluppo dell’ego nella direzione del Sé spirituale (dell’Io sociale o morale), e non mutarsi in una definitiva e dogmatica acquisizione, destinata, in quanto tale, a prestare prima o poi il fianco all’assalto di forze disgreganti o dissolvitrici (ancor più temibili di quelle luciferiche e arimaniche).
Si legge infatti nel Vangelo: “Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché parli loro in parabole?”. Egli rispose: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 10-12).
Roma, 25 settembre 2001