Le opere scientifiche di Goethe (44)

L

Finiremo stasera il secondo paragrafo del quindicesimo capitolo e ci occuperemo del terzo, intitolato: Il sistema della scienza naturale.
Abbiamo visto, la volta scorsa, che le “leggi di natura” sono “l’espressione concettuale” delle “connessioni” o delle relazioni “necessarie” tra i fenomeni.
Dal momento, tuttavia, che una determinata connessione o relazione, ossia un pensato (un concetto), presuppone l’indeterminata attività del connettere o del relazionare, ossia del pensare, dobbiamo vedere in essa il risultato di un pensare cosmico che il pensare umano è chiamato unicamente a scoprire.

Scrive infatti Steiner: “Il sistema della scienza si distingue da quello della natura pel fatto che, nel primo, il nesso tra i fenomeni viene stabilito dall’intelletto e con ciò reso comprensibile. La scienza non deve assolutamente mai aggiungere alcunché al mondo dei fenomeni, ma soltanto scoprirne i nessi occulti. L’uso dell’intelletto deve limitarsi unicamente a questo lavoro. Col ricorrere a qualcosa che non appare, per spiegare ciò che appare, l’intelletto e tutto il lavoro scientifico eccedono i limiti della propria competenza” (p. 200).

Che cosa dovrebbe fare perciò lo scienziato? Osservare il mondo, sia mediante i sensi fisici, sia mediante il pensare. Come capita quando si volge lo sguardo d’intorno nella speranza di vedere quello che si cerca, così si dovrebbe “volgere il pensare d’intorno” nella speranza di scoprire quello che si cerca. Ma è appunto quando si volge (attivamente) il pensare d’intorno che davvero si pensa.
Non si tratta quindi di aspettare che piova la manna dal cielo, ma di creare le condizioni atte a farla piovere. Ove non sia preparato da un serio e profondo impegno di pensiero, ciò che si crede scendere dall’alto (come capita, per lo più, ai tipi sedicenti “intuitivi”), risale invece dal basso, dando voce, non alla realtà dei fenomeni, bensì a quella della nostra inferiore natura.
Dice Steiner che “col ricorrere a qualcosa che non appare, per spiegare ciò che appare, l’intelletto e tutto il lavoro scientifico eccedono i limiti della propria competenza”. Ebbene, non è forse Kant a spiegare il “fenomeno” che appare con il “noumeno” che non appare?
Non è questo, comunque, il punto in cui egli “eccede i limiti della propria competenza”; li eccede, infatti, quando non si accontenta di osservare che il noumeno “non appare” (ai sensi fisici), ma arriva a sentenziare che è assolutamente impossibile che appaia (eppure, dice Goethe: ““La natura nasconde Dio!” Ma non a tutti!” – Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 177).
Ma che c’entra Kant – si potrebbe obiettare – col “lavoro scientifico”? Ce lo spiega ancora una volta il “biologo-molecolare” Boncinelli: “Personalmente sono molto interessato al problema della conoscenza. Già Kant lo espresse in maniera geniale: l’uomo conosce il mondo imprimendogli una serie di scaffalature o di forme a priori. Questo intervento attivo si sovrappone agli stimoli chimici e fisici provenienti dall’esterno. Quando si sale nella scala gerarchica si arriva a quella realtà mentale precostituita che è l’intelligenza, la categorizzazione, ovvero l’attribuzione dei nomi alle cose (sic! – nda). Le generazioni future assisteranno al trionfo dell’impresa intellettuale kantiana, che risponderà alle domande più interessanti su come conosciamo, sul perché ci comportiamo in un determinato modo e, in definitiva, su chi siamo” (E ora? – Einaudi, Torino 2000, p. 40).
In realtà, tutto appare, ma, in ragione della nostra organizzazione conoscitiva, il fenomeno appare ai sensi fisici, mentre il noumeno appare al pensare. Chiunque non riesca a vederlo non dovrebbe prendersela perciò col noumeno, bensì col suo pensare, e dunque con se stesso.

Continua Steiner: “Solo chi vede l’assoluta giustezza delle nostre deduzioni, può comprendere la teoria goethiana dei colori (…) Egli conosceva le attribuzioni del pensiero intellettuale; per lui la luce era data come sensazione, e quando voleva spiegare il nesso tra luce e colore, non poteva farlo per mezzo d’una speculazione, ma solo per mezzo di un fenomeno-tipo, in quanto ricercava la condizione necessaria che deve aggiungersi alla luce affinché il colore possa generarsi. Anche Newton vedeva il colore sorgere in connessione con la luce, ma si limitava a speculare: Come nasce il colore dalla luce? Ciò era insito nel suo modo speculativo di pensare, mentre non era insito in quello goethiano oggettivo e capace di comprendere giustamente se stesso. Perciò la supposizione newtoniana: “La luce è composta di luci colorate”, a Goethe doveva apparire il risultato di una speculazione errata; egli si sentiva autorizzato solamente ad asserire qualcosa sopra il nesso tra luce e colore, quando vi si aggiungesse una data condizione, ma non ad asserire alcunché sopra la luce stessa, con l’ausilio di un concetto speculativo” (pp. 200-201).

Notiamo bene la differenza: una cosa è spremersi le meningi per rispondere alla domanda: “Come nasce il colore dalla luce?”, altra impegnarsi a creare le condizioni necessarie a far sì che, alla domanda, rispondano il colore e la luce stessi.
Si osservi oltretutto che Newton (1642-1727), come peraltro tutti i cosiddetti “atomisti”, mostra di non avere alcun sentore della realtà essenziale o qualitativa di un “insieme”. La luce non è infatti, per lui, che un “aggregato corpuscolare”, e quindi una realtà fisica (quantitativa), risultante dall’unione degli elementi (detti oggi “fotoni”) che la compongono.

Scrive Steiner: “Con ciò è messa a nudo la ragione più profonda perché Goethe, quando guardava attraverso il prisma, non poteva aderire alla teoria di Newton. Secondo questi, il prisma sarebbe dovuto essere la prima condizione del nascere del colore. Ma un’altra condizione, cioè la presenza di un elemento oscuro, gli si manifestò come ancora più originaria per il sorgere del colore. Il prisma veniva solo come seconda condizione” (p. 201).

E’ in virtù del prisma di vetro (del suo “angolo di rifrangenza”) che si ottiene infatti il cosiddetto “spettro” della luce: ovvero, la supposta “scomposizione” di un raggio di luce solare (bianca) in quelli che si crede siano i suoi “singoli colori componenti”.
Per Newton, questo fenomeno era “originario”; per Goethe, era invece “derivato”, poiché considerava originario quello determinato dall’incontro (o scontro) della luce con un “elemento oscuro”: cioè a dire, con un mezzo torbido.
Come vedete, si ripropone qui il problema di distinguere (ne abbiamo parlato la settimana scorsa) l’essenziale dall’inessenziale. Perché si generi il colore è infatti essenziale che la luce s’incontri (o scontri) con un mezzo torbido (con l’oscurità o con la tenebra), mentre è inessenziale che tale mezzo torbido sia costituito dal prisma utilizzato da Newton, in condizioni del tutto particolari. Nota infatti Goethe: “L’esperimento di Newton, su cui poggia la tradizionale teoria dei colori, è d’una estrema complessità: combina infatti tutte queste condizioni. Perché appaia lo spettro della luce sono necessari: 1) un prisma di vetro; 2) che sia a tre facce; 3) e piccolo; 4) un’imposta; 5) con un’apertura; 6) che sia piccolissima; 7) un lembo di Sole che vi passi attraverso; 8) a una certa distanza, in una 9) certa direzione sul prisma; 10) che si proietti su una tavola, 11) posta dietro al prisma a una certa distanza. Si scartino le condizioni 3, 6 e 11; si faccia l’apertura grande, si ponga la tavola vicina ad esso, e il caro spettro non può comparire e non comparirà” – Massime e riflessioni, p. 242).

Conclude comunque Steiner: “Naturalmente non mi sogno di voler difendere tutti i singoli particolari della teoria goethiana dei colori. Quello che vorrei vederne mantenuto è solamente il principio. Qui il mio compito non può nemmeno essere quello di derivare dal suo principio tutti i fenomeni della teoria dei colori ancora ignoti ai tempi di Goethe. Se, un giorno, dovessi avere la fortuna di possedere tempo e mezzi per scrivere una teoria dei colori nel senso goethiano, completamente all’altezza delle conquiste moderne della scienza, potrei assolvere quel compito soltanto in tale opera” (pp. 201-202).

Abbiamo così finito il secondo paragrafo; passiamo dunque al terzo: Il sistema della scienza naturale.

Scrive Steiner: “Consideriamo due percezioni: A e B. Queste ci sono date da prima quali entità prive di concetti. Nessuna riflessione concettuale può farmi mutare in qualche altra cosa le qualità date alla mia percezione sensoria. Né posso trovare alcuna qualità di pensiero per mezzo della quale poter costruire ciò che mi è dato nella realtà sensibile, qualora mi manchi la percezione. Non posso mai procurare a un daltonico una rappresentazione della qualità “rosso”, per quanto gliela descriva concettualmente con tutti i mezzi possibili. La percezione dei sensi ha dunque un quid che non penetra mai nel concetto, che deve venir percepito se, in genere, ha da diventare oggetto della nostra conoscenza” (p. 202).

A e B, in quanto “percezioni” ed “entità prive di concetti”, sono dunque due percetti: ovvero, due entità che si presentano (al pari della volontà) come “forza”, e non (al pari del pensiero) come “forma”. Qual è infatti la prima caratteristica dell’esperienza percettiva? Quella di essere, in quanto risultato dell’incontro (o dello scontro) dell’essere o dell’essenza del soggetto con l’essere o l’essenza dell’oggetto, l’esperienza immediata di un quid che è ed esiste. La viva percezione o sensazione di una qualsiasi realtà è cosa quindi ben diversa dall’idea astratta che successivamente ce ne facciamo. Siamo infatti avidi, in genere, di percezioni e sensazioni proprio perché queste, al contrario del pensiero ordinario, ci fanno sentire in contatto con la realtà (di noi stessi e del mondo).
La percezione è dunque il punto di partenza del viaggio del conoscere: un viaggio che dovrebbe essere però di “andata e ritorno”, e non di “sola andata”, com’è quello dell’intellettualismo. Questo, infatti, non parte dalla percezione per arrivare al concetto, così da poter poi tornare (con il concetto) alla percezione, bensì parte dalla percezione per andare pian piano a smarrirsi lungo le intricate e tortuose vie dell’astrazione, che lo allontanano sempre più dalla realtà.

Continua Steiner: “Quale funzione ha dunque il concetto che noi congiungiamo con una qualsiasi percezione dei sensi? Esso deve evidentemente essere un elemento affatto autonomo, ed apportare qualcosa di nuovo che appartiene alla percezione sensibile, ma che in essa non appare. Certo però che questo nuovo quid, che il concetto viene ad aggiungere alla percezione sensibile, è quello che per primo esprime ciò che viene incontro al nostro bisogno di spiegazione. Solo quando ne abbiamo un concetto siamo in grado di comprendere un qualsiasi elemento del mondo dei sensi (…) Per mezzo del concetto siamo in grado di dire, sul mondo dei sensi, qualcosa che non può essere percepito. Da ciò appare immediatamente che, se l’essenza della percezione sensibile si esaurisse nella qualità sensibile, non potrebbe aggiungervisi alcunché di totalmente nuovo, nella forma del concetto. La percezione sensibile non è dunque affatto una totalità, ma è solo un aspetto della totalità, e precisamente quella parte che può essere solo guardata. Unicamente per mezzo del concetto ci diviene chiaro che cosa guardiamo” (pp. 202-203).

Vedete, il concetto “deve apportare qualcosa di nuovo che appartiene alla percezione sensibile, ma che in essa non appare”. Il concetto “appare” infatti dentro di noi, mentre il percetto “appare” fuori di noi: grazie a questo siamo in grado di esperire una forza che non potrebbe essere pensata; grazie a quello siamo in grado di pensare una forma che non potrebbe essere percepita (dai sensi fisici).
Ciò dipende però da noi e non dalla realtà dell’oggetto o del fenomeno con il quale siamo alle prese. Questo è infatti uno, ma noi siamo organizzati in modo tale da sperimentare, a un livello (volitivo), la sua forza (quale percetto) e da apprendere, a un altro livello (pensante), la sua forma (quale concetto). Solo ri-unendo il percetto al concetto e il concetto al percetto otteniamo quindi l’entelechia: vale a dire, l’essenza dell’oggetto o del fenomeno.
E’ fondamentale pertanto distinguere l’essenza tanto dal percetto, che rappresenta unicamente il modo in cui l’essenza si dà al percepire, quanto dal concetto, che rappresenta unicamente il modo in cui l’essenza si dà al pensare.

Scrive infatti Steiner: “Ora possiamo esprimere l’importanza sostanziale di ciò che nel capitolo (nel paragrafo – nda) precedente abbiamo svolto come metodo. Con l’afferrare concettualmente un dato del mondo dei sensi, si manifesta il quid contenuto nel dato della percezione” (p. 203).

Il concetto illumina dunque l’essenza del percetto. Immaginiamo, ad esempio (repetita iuvant), di muoverci in una stanza tenendo gli occhi chiusi e le braccia protese, e di arrivare così a toccare qualcosa. Da questa percezione scaturirà subito il seguente giudizio: “Qui c’è qualcosa!”. Espresso in termini più dotti, lo stesso giudizio suonerebbe così: “Ora e qui, qualcosa è” (oppure: “Ora e qui, un ente è”). Grazie a questo, sappiamo dunque che qualcosa è, ma non sappiamo ancora quale è la cosa che è: sappiamo cioè del concetto come percetto, ma non ancora del percetto come concetto. Solo dopo aver aperto gli occhi e riconosciuto il percetto nel concetto e il concetto nel percetto, potremo quindi dire di aver conosciuto “quale è la cosa che è”, e di averne fatto quindi davvero “esperienza”.
Una cosa è infatti l’esperienza, quale sintesi di percetto e concetto, altra la percezione, quale suo iniziale e singolare momento (sensibile).

Continua Steiner: “Solo nel concetto, dunque, il mondo riceve il suo pieno contenuto. Abbiamo visto però come il concetto ci indichi, al di là del singolo fenomeno, il nesso tra le cose. Perciò dunque, quel che nel mondo dei sensi si presenta separato, isolato, appare per il concetto un tutto unitario. Così, mediante il nostro metodo scientifico, nasce come meta finale la scienza naturale monistica; ma non un monismo astratto che presuppone l’unità, e poi forzatamente inserisce in essa i singoli fatti della vita concreta, bensì un monismo concreto che mostra, passo per passo, come l’apparente molteplicità dell’esistenza sensibile si dimostri alla fine un’unità ideale” (p. 203).

Percepiamo, ad esempio, qui il fenomeno A e lì il fenomeno B e, per il fatto stesso di percepirli, li sperimentiamo separati e isolati. Nel momento in cui il percetto A si riunisce al concetto A e il percetto B si riunisce al concetto B, ci accorgiamo però che tra il concetto A e quello B sussiste una relazione, e che è proprio questa relazione (concettuale) a liberare i due fenomeni (sensibili) dal loro apparente isolamento. (Rammentate quanto ha detto Steiner? “Ciò che costituisce la singolarità di un oggetto, non si può comprendere, ma solo percepire”).
Gioverà dunque ricordare, ancora una volta, che se non ci fosse data la possibilità di sperimentare, mediante la percezione sensibile, la separazione e l’isolamento, mai ci sarebbe data quella di sperimentarci come degli individui; mai saremmo infatti giunti a sperimentarci come degli Io se non ci fossimo isolati, separandoci da tutto il resto e sperimentandolo appunto come un non-Io.

Scrive Steiner: “Ora il modo in cui il concetto (l’idea) si estrinseca nel mondo dei sensi costituisce la differenza tra i diversi regni della natura. Se l’essenza reale del sensibile arriva solo fino a un’esistenza che lo colloca completamente fuori del concetto, sì che nei propri mutamenti ne venga dominato come da una legge, noi chiamiamo quell’essere inorganico (…) In questa sfera abbiamo a che fare con fenomeni e leggi che, quando sono originari, possono chiamarsi fenomeni tipici. Qui, dunque, l’elemento concettuale percepibile sta fuori della molteplicità percepita” (p. 204).

Ma qual è propriamente “questa sfera”? Quella dello spazio. Ricordate quanto afferma Hegel? “Lo spazio è la giustapposizione del tutto ideale, perché è l’esser fuori di sé stesso”. E’ nello spazio, infatti, che le cose esistono “giustapposte”, e quindi separate (“giustapporre” vuol dire “porre accanto senza connettere”) non solo tra di loro, ma anche dalla loro essenza (in quanto – come dice sempre Hegel – sono fuori di se stesse o – come dice Steiner – fuori del concetto).

Continua Steiner: “Ma la stessa unità percepibile ai sensi può già indicare qualcosa che la trascende; può costringersi, quando vogliamo comprenderla, a procedere ad altre determinazioni oltre quelle a noi percepibili. Allora ciò che è afferrabile concettualmente appare come unità sensibile. Le due cose, concetto e percezione, non sono identiche, ma il concetto non appare come una legge fuori della pluralità sensibile, bensì dentro di questa come principio. Sta alla sua base, come l’elemento non più sensibilmente percepibile che la compenetra, e che chiamiamo tipo. Con questo ha a che fare la scienza naturale organica” (p. 204).

L’essenza si manifesta come “legge” nel mondo inorganico e come “tipo” in quello organico; tanto nel primo (minerale) quanto nel secondo (vegetale e animale) non si presenta pertanto come concetto (o idea). L’uomo è dunque il solo essere in grado di sperimentare la propria e l’altrui essenza come concetto: in grado, cioè, di avere coscienza della propria e dell’altrui essenza, nella forma del concetto (o dell’idea).
Vorrei tornare a raccomandarvi, a questo proposito, di riflettere sulla tripartizione della logica hegeliana in logica dell’essere, logica dell’essenza e logica del concetto. Che cosa rappresenta infatti la logica del concetto? Nient’altro che il modo (o la forma) in cui la logica dell’essenza, operante nel mondo, si manifesta nel pensare, operante nell’anima umana.

Conclude Steiner: “Ma anche qui (nel mondo organico – nda) il concetto non appare ancora nella forma sua propria di concetto, bensì come tipo. Dove poi questo non compare più solo come tale, cioè come principio compenetrante, bensì nella stessa sua forma di concetto, ivi esso appare come coscienza; e qui finalmente si manifesta ciò che ai gradini inferiori esisteva soltanto nella sua essenza. Il concetto stesso diviene percezione; qui si ha a che fare con l’uomo autocosciente. Legge di natura, tipo, concetto sono le tre forme in cui l’elemento ideale si estrinseca. La legge naturale è astratta e sta al di sopra della molteplicità sensibile; essa domina la scienza inorganica. Qui idea e realtà sono completamente scisse. Il tipo già unisce le due in un essere solo. Lo spirituale diventa essenza operante; però non esiste e agisce ancora come tale, ma deve, se vuole essere osservato nella sua esistenza, venir guardato sensibilmente. Ciò avviene nel regno della natura organica. Il concetto esiste in modo percepibile. Nella coscienza umana il concetto stesso è l’elemento percepibile. Percezione e idea coincidono. Ciò che si contempla è appunto l’elemento ideale. Perciò, a questo gradino, possono manifestarsi anche i nuclei vitali dei gradini naturali inferiori. Col sorgere della coscienza umana è data la possibilità che quel che ai gradini inferiori della vita esiste ma non appare, diventi ora anche realtà apparente” (pp. 204-205).

Che cosa rappresenta, in definitiva, l’insieme del regno umano e dei tre regni naturali inferiori? Rappresenta una gerarchia di gradi di coscienza (veglia, sogno, sonno e morte). Quando parliamo di anima, parliamo infatti di pensare, sentire e volere, mentre quando parliamo di spirito, parliamo appunto di gradi o livelli di coscienza (di Gerarchie spirituali).
Abbiamo così finito anche il terzo paragrafo; la prossima volta ci occuperemo quindi del quarto.

Roma, 2 ottobre 2001

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Di Lucio Russo
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