Spero non vi dispiaccia se stasera, approfittando del fatto che affronteremo il quarto paragrafo, intitolato: Il sistema della teoria dei colori, vi proporrò, a titolo introduttivo, alcune considerazioni di carattere generale.
Abbiamo visto, la volta scorsa, che una cosa è la teoria dei colori di Goethe, altra quella di Newton, e abbiamo anche ascoltato quest’affermazione di Steiner: “Naturalmente non mi sogno di voler difendere tutti i singoli particolari della teoria goethiana dei colori. Quello che vorrei vederne mantenuto è solamente il principio”.
Non si tratta quindi di prendere partito per l’una o per l’altra, bensì di mettere in luce quale sia il “principio” che le distingue: quale sia cioè lo spirito che anima l’una, e quale quello che anima l’altra.
Newton – osserva al riguardo Hegel – “non seppe mai di pensare e d’aver a che fare con concetti; credeva di aver a che fare soltanto con cose fisiche (…) Newton trattò i concetti come cose sensibili, e li prese alla stessa maniera con cui si suole stringere in mano una pietra o del legno” (Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. 3,II, p. 180).
Qual è dunque lo spirito che anima la sua teoria? Quello del realismo delle cose. E qual è invece lo spirito che anima la teoria di Goethe? Quello del realismo delle idee.
Appare quindi legittimo considerare ispiratore della prima l’ego (quale soggetto della coscienza rappresentativa), e ispiratore della seconda il Sè spirituale (quale soggetto della coscienza immaginativa).
Ove dunque si fosse affermata la teoria di Goethe, e non quella di Newton (o, in senso lato, il goetheanismo, e non l’utilitarismo di stampo anglosassone), la cultura europea avrebbe fatto, spiritualmente, un salto di qualità.
Così però non è stato, e questo ha fatto sì che contro l’individualismo moderno, anacronisticamente ed egoisticamente fissatosi al grado della coscienza rappresentativa (quantitativa), abbiano preso a levarsi, in forma più o meno violenta, varie forze anti-moderne (politiche e religiose) di carattere anti-individualistico o collettivistico.
Che cos’è infatti l’ego? Lo abbiamo detto: è l’Io allo stato embrionale o fetale, e per ciò stesso un Io che dovrebbe essere aiutato a crescere, e non abortito o eliminato.
Perchè dico queste cose? Perchè vorrei fosse chiaro che la scienza dello spirito (orientata antroposoficamente) è l’unica via in grado di ricondurci alla spiritualità o alla religiosità, senza per questo costringerci a rinunciare alla modernità (all’individualità).
Oggi, infatti, chi cerca l’anima cosciente (la modernità) trova il materialismo, e non la spiritualità o la religiosità, e chi cerca la spiritualità o la religiosità trova quel che sopravvive dell’anima razionale o affettiva (se non dell’anima senziente), e non l’anima cosciente.
Si finisce così col convincersi che non possa esistere una spiritualità o una religiosità che sia all’altezza della modernità, in quanto frutto di quella libertà di pensiero e di coscienza che la modernità stessa, seppure entro determinati limiti, ha avuto il merito di affermare.
In questa luce, il passaggio dall’ego al Sè spirituale potrebbe essere anche visto come il passaggio dall’individualismo “giuridico” (quello “liberale”, basato sulle varie “Carte dei diritti”) all’individualismo “etico” (quello de La filosofia della libertà, basato sullo spirito). (Il che implica che si potrebbe individuare nell’individualismo “economico” – quello “liberista” – una sorta di contro-immagine dell’individualismo “etico”, frutto di uno spostamento dell’individualismo “giuridico” dell’anima nella direzione materiale del corpo, anziché in quella dello spirito).
Ma veniamo a noi.
Scrive Steiner: “Goethe non si può pensare senza Kant, Fichte, Schelling e Hegel. Se questi spiriti miravano sopra tutto a guardare nelle profondità e nelle somme altezze, la contemplazione di Goethe si posava sugli oggetti della realtà immediata. Ma in questa contemplazione c’era qualcosa di quella medesima profondità. Goethe esercitò questa visione nell’osservazione della natura. Lo spirito di quell’epoca è effuso come un fluido sulle sue osservazioni naturali; da ciò la loro potenza che, anche nell’osservazione dei particolari, conserva sempre il suo tratto grandioso. La scienza di Goethe mira sempre al centro” (p. 205).
Ma qual è “lo spirito di quell’epoca” se non quello del “goetheanismo”: ovvero, uno spirito che, in Goethe, si è per la prima volta spogliato del suo abito filosofico, per indossare quello scientifico-spirituale o (ante litteram) antroposofico?
Dice Steiner che “anche nell’osservazione dei particolari”, tale spirito “conserva sempre il suo tratto grandioso”. Dunque un tratto ch’è andato purtroppo scomparendo – possiamo dirlo – dalla scienza contemporanea, via via che questa si è resa schiava del materialismo. Se la scienza di Goethe mirava sempre al centro, quella attuale si muove sempre invece in periferia, pretendendo tuttavia che quanto è periferico e infinitamente piccolo valga come centrale e grandioso.
Rendersi schiavi del materialismo, vuol però dire rendersi schiavi di Arimane: proprio di quello spirito, cioè, che lo scrittore russo Fëdor Sologub (1863-1927) ha non a caso chiamato, intitolando il suo più noto romanzo (del 1905), Il demone meschino.
Continua Steiner: “Più che altrove possiamo scorgere ciò nella sua teoria dei colori, la quale, insieme al saggio sulla metamorfosi delle piante, è la sola che sia giunta a perfezione. E come è rigorosamente conchiuso secondo le esigenze insite nella cosa stessa il sistema ch’essa ci presenta! Vogliamo considerare una volta questo edificio nella sua struttura interiore. Affinché possa giungere a manifestazione qualcosa che sia fondato nell’essere della natura, occorre una causa occasionale, un organo in cui “qualcosa” possa presentarsi. Le eterne bronzee leggi della natura regnerebbero, sì, anche se non si presentassero mai in uno spirito umano, ma la loro manifestazione come tale non sarebbe possibile. Esse esisterebbero solo secondo la loro essenza, non secondo la loro apparenza” (pp. 205-206).
Esisterebbe cioè la natura, ma non la coscienza della natura, ci sarebbe l’idea, ma non la coscienza dell’idea, o ci sarebbe l’Io, ma non la coscienza dell’Io (l’autocoscienza). L’uomo è dunque una creatura del mondo come gli animali, i vegetali e i minerali, ma una creatura che, a differenza delle altre, può permettere al mondo di prendere coscienza di sé.
Continua Steiner: “Lo stesso avverrebbe del mondo della luce e del colore, se non gli si contrapponesse un occhio capace di percepirlo. Il colore, nella sua essenza, non deve venir derivato dall’occhio, come lo fa derivare Schopenhauer, bensì nell’occhio deve venir mostrata la possibilità che il colore si manifesti. L’occhio non è la causa del colore, ma è la causa del suo manifestarsi” (p. 206).
Scrive infatti Goethe: “L’occhio deve la sua esistenza alla luce. Da organi animali sussidiari indifferenti, la luce chiama in vita un organo che le diventi affine; l’occhio si forma alla luce per la luce, affinché la luce interna muova incontro all’esterna. E qui ci risovviene dell’antica scuola ionica, la quale non si stancò di ripetere con grande saggezza che il simile è conosciuto soltanto dal simile, l’affine dall’affine, e delle parole del mistico antico (Plotino, 205-270 – nda) che ameremmo tradurre così: Potremmo guardare la luce, / Se l’occhio non fosse solare? / Potremmo di Dio inebriarci / Se in noi la sua forza non fosse?” (La teoria dei colori in Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol. V, pp. 298-299).
Prosegue Steiner: “Da qui deve prendere le mosse la teoria dei colori. Essa deve investigare l’occhio, metterne a nudo la natura. Perciò Goethe comincia dalla teoria fisiologica del colore (…) Che cosa si produce quando la luce e l’oscurità agiscono sull’occhio? Che cosa avviene quando immagini delimitate entrano in rapporto con esso? Egli non chiede, da principio, quali processi si svolgano nell’occhio quando si produce questa o quella percezione, ma cerca di appurare che cosa possa prodursi per mezzo dell’occhio nell’atto visivo vivente (…) Goethe vuole prendere in considerazione l’occhio soltanto in quanto vede, e non spiegare il vedere partendo dalle osservazioni che si possono fare sull’occhio morto (…) Da qui egli passa poi ai processi obiettivi che producono i fenomeni del colore. E qui è importante tener presente che, quando parla di tali processi obiettivi, Goethe non intende affatto i non più percepibili ipotetici processi materiali o di movimento; egli vuole assolutamente restare nel campo del mondo percettibile. La sua teoria fisica dei colori, che forma la seconda parte dell’opera, cerca le condizioni che sono indipendenti dall’occhio ma connesse col sorgere dei colori (…) Solo in un altro capitolo separato, quello della teoria chimica dei colori, egli passa a quelli attaccati, fissati ai corpi. Se nella teoria fisiologica dei colori egli risponde alla domanda: Come possono, in genere, apparire i colori?, se, in quella fisica, risponde alla domanda: Come sorgono i colori in date condizioni esterne?, qui egli risponde al problema: Come mai il mondo dei corpi appare dotato di colore? (…) Ma qui non si ferma, bensì, alla fine, considera il rapporto superiore che il mondo colorato dei corpi ha con l’anima, nel capitolo: Effetti sensibili-morali del colore” (pp. 206-207).
Abbiamo finito il quarto paragrafo. Prima di passare al quinto, vorrei però dire qualcosa sul rapporto che “il mondo colorato dei corpi ha con l’anima”.
Vedete, la psicologia sottrae il colore al mondo e lo reclude, come qualità soggettiva, nell’uomo, mentre la fisica sottrae il colore all’uomo e lo reclude, come quantità oggettiva, nel mondo. “Un fascio di luce bianca – scrive appunto Boncinelli – contiene in sé un’infinità di raggi luminosi di lunghezza d’onda diversa, come si può facilmente osservare facendolo passare ad esempio attraverso un prisma di vetro. Ma non contiene né trasporta “colori”. E’ il nostro occhio, collegato con il nostro cervello, che vi individua, vi identifica e vi discerne i vari colori. Il mondo di per sé non è popolato né di sensazioni né di stimoli” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 118).
Studiando il colore, la psicologia ritiene dunque di poter conoscere qualcosa dell’uomo, ma non del mondo, mentre la fisica ritiene di poter conoscere qualcosa del mondo, ma non dell’uomo.
Ecco in che cosa differisce la scienza goethiana! In essa, si conosce l’uomo studiando i colori e si conoscono i colori studiando l’uomo. Non già – si badi – perché si parta con l’intenzione di voler conoscere l’uomo attraverso i colori e i colori attraverso l’uomo, ma perché è proprio studiando i colori come “colori” e l’uomo come “uomo”, che si perviene a un tale risultato. Nel momento stesso in cui si afferra davvero la realtà dei colori, si afferra infatti quella dell’uomo, e nel momento stesso in cui si afferra davvero la realtà dell’uomo, si afferra quella dei colori.
E qual è la realtà dei colori? Quella dei sentimenti, vista dall’esterno. E qual è la realtà dei sentimenti? Quella dei colori, vista dall’interno. E qual è la realtà di quell’interazione tra la luce e la tenebra dalla quale nasce – secondo Goethe – il colore? Quella dell’interazione tra il pensare e il volere dalla quale nasce – secondo la scienza dello spirito – il sentire.
Detto questo, passiamo al quinto paragrafo, intitolato: Il concetto dello spazio secondo Goethe.
Scrive Steiner: “Poiché una piena comprensione dei lavori di Goethe sulla fisica è possibile solo in base a una concezione dello spazio identica alla sua, cerchiamo d’illustrarla. Ma prima occorre che, dalle nostre considerazioni precedenti, abbiamo acquistato le seguenti convinzioni: 1°) gli oggetti che nell’esperienza ci appaiono isolatamente hanno tra loro un reciproco rapporto interiore; in realtà sono tenuti insieme da un unitario legame cosmico; vive in essi un unico principio, comune a tutti; 2°) quando il nostro spirito si accosta agli oggetti isolati cercando di abbracciarli per mezzo di un nesso spirituale, l’unità concettuale ch’esso stabilisce non è estrinseca agli oggetti, ma ricavata dall’essere intimo della natura stessa. La conoscenza umana non è un processo che si svolga fuori delle cose, scaturendo da un mero arbitrio soggettivo; no, ciò che si presenta al nostro spirito come legge di natura, e che si estrinseca nella nostra anima, è la pulsazione del cuore stesso dell’universo” (pp. 207-208).
Sulla base di queste convinzioni, affrontiamo dunque la questione dello spazio, tenendo però ben presente quanto abbiamo già detto in proposito.
Presupponiamo soltanto – scrive Steiner – “due fattori di cui ciascuno è atto a produrre un’impressione sui nostri sensi (…) Inoltre vogliamo supporre che l’esistenza di uno di questi fattori non escluda quella dell’altro. Un solo organo di percezione può percepirli entrambi. Se invece si assumesse che l’esistenza di uno dei due elementi fosse in qualche modo dipendente da quella dell’altro, il problema sarebbe tutt’altro. Se l’esistenza di B fosse tale da escludere l’esistenza di A, pure essendone dipendente secondo il proprio essere, allora A e B starebbero tra loro in un rapporto di tempo. Poiché la dipendenza di B da A esige, se al tempo stesso si suppone che l’esistenza di B escluda quella di A, che quest’ultimo preceda il primo” (p. 208).
Per porre, tra A e B, una pura relazione spaziale, occorre dunque supporli semplicemente coesistenti, giustapposti, e quindi reciprocamente esteriori: occorre cioè prescindere toto coelo dalle loro qualità.
“Lo spazio – dice Hegel – è pura quantità” (Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 230). E che cos’è la quantità? Lo abbiamo detto: una qualità priva di qualità.
Osserva infatti Steiner: “Per nessuno può sussistere un dubbio sul genere di rapporto ch’io stabilisco tra le cose quando non entri nel merito della loro particolare costituzione, della loro essenza. Chi si chiede quale trapasso si possa trovare da una cosa all’altra, quando la cosa stessa resti indifferente, dovrà senz’altro darsi per risposta: lo spazio. Qualunque altro rapporto deve fondarsi sulla costituzione qualitativa di ciò che nel mondo appare isolato. Soltanto lo spazio non tiene in considerazione null’altro che il fatto che le cose siano appunto separate tra loro” (p. 209).
Dice Scaligero: “L’amore è l’essere dello spirito”; e spiega: “Nel donarsi, l’Io attua la sua infinità: riempie di suo movimento lo spazio che lo separa dall’altro e per cui l’altro è altro” (Dell’amore immortale – Tilopa, Roma 1982, pp. 11 e 16).
Lo spirito o l’Io, attuando “la sua infinità”, tende dunque a sanare il dolore della separazione collocando e abbracciando ogni cosa (ogni “altro”) nella dimensione unificante dello spazio. Grazie a quest’idea, riesce infatti a rendere uno il molteplice.
Scrive appunto Steiner: “Quello che il nostro spirito vuole, quando si avvicina all’esperienza, è superare la separazione, mostrare che nel singolo è da vedersi la forza del tutto. Nella percezione spaziale esso non vuol superare altro che la separazione come tale; cioè stabilire il rapporto più generale di tutti. Che A e B non siano ciascuno un mondo per sé, ma appartengano a un insieme comune, ecco quel che dice l’osservazione spaziale. Questo è il senso dell’esser vicini nello spazio. Se ogni cosa fosse un essere per sé, ciò non sarebbe possibile; non si potrebbe stabilire in genere nessun riferimento degli esseri fra loro” (p. 209).
Ma perché l’Io avverte dolorosamente la separazione? E’ presto detto: perchè la separazione dal mondo lo separa in realtà da se stesso, e viene pertanto vissuta come una lacerazione animica o una “frattura ontologica” (l’espressione è del noto psichiatra e psicoanalista inglese Ronald Laing [1927-1989], autore de L’io diviso – Einaudi, Torino 1969).
A e B non sono dunque ciascuno un mondo per sé, ma appartengono a un insieme comune, in quanto l’Io trova l’uno e l’altro dentro di sé, e può quindi riunirli nel suo “spazio” interiore.
Continua Steiner: “Io penso A accanto a B. Lo stesso posso fare anche con altri due elementi del mondo sensibile: C e D. Ora voglio prescindere totalmente dagli elementi A, B, C e D e mettere solo in rapporto, a loro volta, i due rapporti concreti. E’ chiaro ch’io posso mettere in rapporto l’uno con l’altro anche questi due, quali entità separate, proprio come ho fatto con A e B. Qui metto in rapporto rapporti concreti che posso chiamare a e b. Se ora procedo di un altro passo, posso a sua volta mettere in rapporto a con b. Ma in tal caso ho già perduto ogni separazione (…) Più in là non posso andare. Ho raggiunto ciò che prima avevo cercato: lo spazio stesso sta dinanzi alla mia anima” (pp. 209-210).
Immaginiamo, dunque, che un melo (A) stia vicino a una pero (B) e che un pesco (C) stia lontano da un castagno (D). Cosa vorrebbe dire, in questo caso, “prescindere totalmente dagli elementi A, B, C e D e mettere solo in rapporto, a loro volta, i due rapporti concreti”? Vorrebbe dire prescindere totalmente dal pero, dal melo, dal pesco e dal castagno, e mettere in rapporto il rapporto concreto “vicino” (a) col rapporto concreto “lontano” (b). Ma questi due rapporti hanno forse qualcosa in comune? Certo: si tratta infatti di due rapporti determinati che hanno appunto in comune quel quid che, in un caso, si determina come “vicino” e, nell’altro, come “lontano” o, in altre parole, quel quid che, in un caso, assume la forma a e, nell’altro, la forma b.
Ebbene, cos’altro potrebbe essere quel quid, se non la pura “sostanza” ideale dello spazio? Ora, dice giusto Steiner, “lo spazio stesso sta dinanzi alla mia anima”.
Ma non è tutto.
Scrive infatti: “In ciò giace il segreto delle tre dimensioni (…) Le tre dimensioni vi hanno la parte seguente: La prima dimensione stabilisce una relazione tra due percezioni sensibili; è dunque una rappresentazione concreta. La seconda dimensione mette in relazione tra loro due rappresentazioni concrete, e con ciò passa nel campo dell’astrazione. Finalmente la terza dimensione non stabilisce più altro che l’unità ideale tra le astrazioni” (pp. 210 e 211).
Si potrebbe anche aggiungere, volendo, che la prima dimensione (tridimensionale) è quella della coscienza rappresentativa (legata al corpo fisico), che la seconda (bidimensionale) è quella della coscienza immaginativa (legata al corpo eterico), e che la terza (unidimensionale) è quella della coscienza ispirativa (legata al corpo astrale). Oggetto della prima è infatti la relazione tra le cose, oggetto della seconda è invece la relazione tra le relazioni, e oggetto della terza è infine l’essenza della relazione (la relazione in sé) quale concetto: ossia, appunto, quale “spazio”. (L’Io quale soggetto-oggetto della coscienza intuitiva è “adimensionale”).
Conclude Steiner: “Finora abbiamo parlato dello spazio come di un rapporto, di una relazione. Ora si può chiedere: Esiste soltanto questo rapporto di vicinanza in genere? Oppure esiste per ogni oggetto una determinazione di luogo assoluta? Quest’ultimo caso non è naturalmente toccato dalle nostre spiegazioni precedenti. Ma cerchiamo ora se esista o no un tale rapporto di luogo, un ben determinato “qui”. Che cosa indico in realtà quando parlo di un “qui”? Null’altro che un oggetto, in immediata vicinanza del quale è situato l’oggetto in questione. “Qui” significa: in vicinanza di un oggetto da me indicato. Ma con ciò l’indicazione assoluta di luogo è ricondotta a un rapporto di spazio, e l’indagine accennata cade da sé. Solleviamo ancora in modo ben determinato la domanda: Che cosa è, secondo le indagini precedenti, lo spazio? Dovremo rispondere: Null’altro che una necessità, insita nelle cose, di superare la loro separazione in maniera affatto esteriore, senza entrare nel merito della loro essenza, e di riunirle in un’unità, già nella maniera esteriore che si è detta. Lo spazio è dunque un modo di afferrare il mondo come un’unità. Lo spazio è un’idea (pp. 211-212).
Abbiamo fatto un po’ tardi, ma in compenso abbiamo finito anche il quinto paragrafo; la prossima volta ci occuperemo del sesto.
Roma, 9 ottobre2001