Dell'”inconscio spirituale”

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Nel suo L’inconscio spiritualeMalattie psichiche e malattie spirituali, il patrologo e teologo ortodosso Jean-Claude Larchet scrive: “Nel mondo cristiano, diverse psicoterapie vennero adottate come metodi già bell’e fatti e completi, “pronti per l’uso”. E tutte ebbero i loro sostenitori e i loro detrattori; ma poi non si fece mai nessuno sforzo – come sarebbe stato nella logica delle cose – per sviluppare una psicoterapia cristiana, o come minimo una psicoterapia i cui fondamenti antropologici e le cui prassi terapeutiche si ponessero in maniera chiara e incontestabile, in linea di continuità con quelli del cristianesimo” (1).
Tra le terapie adottate, spiccano la psicoanalisi di Freud e la psicologia analitica di Jung: ovvero, due psicoterapie i cui fondamenti antropologici (più che le “prassi terapeutiche”) sono effettivamente incompatibili – come dimostra Larchet – con quelli del Cristianesimo.
Tanto i fondamenti antropologici della psicoanalisi, quanto quelli della psicologia analitica sono infatti materialistici; con la differenza che i primi lo sono apertamente, mentre i secondi lo sono velatamente (Jung parla di “anima” e di “archetipi”, ma al tempo stesso scrive: “L’uniformità universale dei cervelli determina la possibilità universale d’un modo di funzionare mentale analogo. Questo modo di funzionare è appunto la psiche collettiva”) (2).
Quale proposta avanza allora Larchet? Quella di sviluppare una psicoterapia cristiana, derivandola dall’antropologia cristiana (dai “grandi principi dell’antropologia cristiana”) (3), derivando questa, a sua volta, dalla teologia cristiana: ovvero, dalla Bibbia (4), dalla “più antica letteratura patristica” (5) e dalla “tradizione ascetica” (6) e “terapeutica dell’Oriente cristiano” (7).
Propone dunque di procedere, non in modo scientifico e induttivo, come fa la moderna anima cosciente, bensì in modo dottrinario e deduttivo, come usava e usa ancora fare la vecchia anima razionale e affettiva.
Un conto, infatti, è un’antropologia che discenda dalla teologia, e per ciò stesso una conoscenza sorretta dalla fede, altro un’antropologia che scaturisca da un’attenta, profonda e meditata osservazione della realtà dell’essere umano, e per ciò stesso una fede o una persuasione sorretta dalla conoscenza (dice il Cristo alla Samaritana: “Voi adorate quello che non conoscete; noi adoriamo quello che conosciamo” – Gv 4,22) (8).
Certo, una psicoterapia cristiana deve essere compatibile con una psicologia cristiana, così come una psicologia cristiana deve essere a sua volta compatibile con un’antropologia cristiana; ma un’antropologia, per essere davvero cristiana, non può limitarsi a sostituire ai principi non cristiani quelli cristiani, bensì deve avere la forza e il coraggio di basarsi esclusivamente sull’osservazione e sul pensiero, prescindendo (galileianamente) da qualsiasi principio o presupposto, quantunque veritiero, saggio o “tradizionale”. (“Se il Divino è alla base del mondo, – osserva Scaligero – esso sarà ritrovato”) (9).
Il che vuol dire, in breve, che un’antropologia è cristiana quando è davvero antropologia o antroposofia, e non “zoologia” (come quella odierna, cosiddetta “scientifica”).
Se l’antropologia di Larchet è ancilla della teologia, l’antropologia odierna è infatti ancilla delle scienze naturali: ossia delle scienze del non-umano o del sub-umano.
Osserva in proposito Steiner: “Se una volta l’antroposofia sarà giustamente compresa, apparirà chiaro che essa è bensì il più saldo, il più sicuro sostegno della vita religiosa, ma non è affatto essa stessa una religione, e per conseguenza non potrà mai contraddire a nessuna religione come tale. Essa, per così dire, può essere lo strumento, il mezzo per spiegare e far comprendere la saggezza, la verità più profonda, i misteri più seri e più vitali delle diverse religioni” (10).

Larchet distingue le “malattie spirituali”, vale a dire le “passioni”, sia dalle “malattie psichiche”, sia da quelle “corporali”.
Tanto nettamente le distingue, da arrivare a mettere in guardia, vuoi dal rischio di ridurre lo psichico allo spirituale, come di frequente avviene nel “mondo ortodosso”, vuoi dal rischio di confondere fra loro psichico e spirituale, come di frequente avviene nel “mondo cattolico” (11).
Che cosa ci sarebbe dunque da aspettarsi? E’ovvio: che distinguesse pure lo “spirito” dall’”anima”, considerando perciò l’uomo un essere costituito di spirito, anima e corpo.
Ma non è così.
Scrive infatti: “E’vero, spesso si dice, nel quadro dell’antropologia cristiana, sulla scorta d’un passo della prima lettera di san Paolo ai Tessalonicesi (5,23), che l’essere umano è “tripartito”, composto com’è di tre elementi: il corpo, l’anima e lo spirito. Ed è vero che lo spirito (dai Padri greci chiamato per lo più noûs, che abitualmente ma impropriamente si traduce con “intelletto”) è la facoltà più alta dell’uomo, la prima a entrare in relazione con Dio nella contemplazione e nella “visione di Dio”, la facoltà mediante la quale noi conosciamo, di norma, le realtà spirituali. Eppure, non possiamo dire che lo spirituale costituisca nell’uomo una sfera, un campo o un livello sovrapposto a quello corporale e dello psichico. Per questo, un certo numero di Padri si ferma a una concezione bipartita dell’essere umano e dice che esso è composto di un’anima e d’un corpo e che lo spirito (o intelletto) non è che la facoltà più alta dell’anima o la sua “fine punta”” (12).
Ancorché lo spirituale sia “d’una natura completamente diversa da quella del corporale e dello psichico”, al punto che “bisogna ben guardarsi dal confonderlo con quest’ultimo”, non si può dunque “dire che lo spirituale costituisca nell’uomo una sfera, un campo o un livello sovrapposto a quello corporale e dello psichico”.
E perché mai? Per quale ragione, ossia, si dovrebbe ridurre la “tricotomia”, che si osserva nella realtà, a una “dicotomia”? Chi lo impone?
Larchet non lo dice. Noi sappiamo, però, ch’è stato il Concilio di Costantinopoli dell’869 d.C. a imporre (dogmaticamente) tale “dicotomia” (13).
Ma che valore può allora avere un’antropologia costretta a barcamenarsi – come quella di Larchet – tra l’osservazione della realtà e l’osservanza dei dettami conciliari?

Da un’antropologia che presuppone l’esistenza di una fede deve ovviamente discendere una prassi terapeutica che non si adatta a tutti.
“Siccome la terapeutica spirituale – riconosce Larchet – suppone come sua condizione minima la fede e, in più, l’attiva partecipazione del paziente alla cura – il paziente infatti deve condurre un modo di vita spirituale adeguato -, questo trattamento non è applicabile, immediatamente e de facto: a) ai malati non cristiani, b) ai malati con turbe psichiche tanto gravi da impedir loro il controllo dei propri comportamenti” (14).
Ma quanti – domandiamoci – potrebbero oggi riscoprire, ritrovare e rinnovare la fede (ovvero, “la facoltà che ha l’Io di trascendere se stesso” o “un convincimento attivo e operante in grado di produrre degli effetti”) (15), se questa rappresentasse, non la condizione iniziale, bensì la conquista finale della scienza antropologica e della prassi psicoterapeutica?
A due parroci che, dopo aver ascoltato una sua conferenza, gli mossero delle obiezioni, Steiner così rispose: “Io parlo per chi non viene più in chiesa da voi, ma che tuttavia vuol sapere qualcosa del Cristo, ed è un fatto oggettivo. Soggettivamente possiamo pur credere, voi o io, di parlare per tutti: questo non ha importanza, importa piuttosto che sappiamo far nostro il senso di imparare dai fatti come dobbiamo farlo” (16).
Per quale ragione, dunque, abbandonare a se stessi tutti quegli individui (più o meno nevrotici) che hanno perso la fede (e, insieme a questa, il Cristo), e che non hanno certo speranza di riscoprirla, ritrovarla e rinnovarla con gli strumenti conoscitivi messi a loro disposizione dalla psicoanalisi di Freud e dalla psicologia analitica di Jung?
Si usa dire – giustamente – che non bisogna porre dei limiti alla provvidenza: e perché porli allora alla carità?
“La strada che porta a Dio – diceva Elizaveta Jur’evna – passa attraverso l’amore per l’uomo, non c’è altra via…” (17).

Le “malattie spirituali” in realtà non esistono. Può ammalarsi infatti l’anima (oltreché, ovviamente, il corpo), ma non lo spirito: possono cioè ammalarsi il pensare, il sentire e il volere, ma non l’Io.
Che cosa sono infatti le “passioni” (la “voracità, o gola”; la “lussuria”; l’”attaccamento al denaro”; la “tristezza”; l’”accidia”; la “collera, o ira”; il “timore”; la “vanagloria, o vanità”; l’”orgoglio”) (18) se non appunto delle malattie dell’anima (del corpo astrale) che arrivano a coinvolgere o a trascinare lo spirito (l’Io)?

Larchet distingue non solo le “malattie spirituali” dalle “malattie psichiche”, ma anche, all’interno dell’”inconscio spirituale”, un inconscio “teòfilo” da un inconscio “deìfugo”.
Il primo – spiega – rappresenta “la dimensione positiva dell’inconscio spirituale”, costituita in ogni uomo “dal lógos della sua natura” (19): vale a dire, da quell’insieme di facoltà “dinamicamente orientate verso Dio” (20); il secondo è invece quello dell’uomo che, “decaduto (a causa del peccato “ancestrale” od originale – nda), nella misura in cui non ha coscienza del suo stato di malattia, trascura di lasciarsi curare e pretende di non aver bisogno della guarigione che gli propongono“ (21).
Come si vede, Larchet vorrebbe prendere le distanze, sia dalla concezione dell’inconscio di Freud, sia da quella di Jung, ma finisce poi col mutuare il carattere ingenuamente realistico di entrambe.
Come Freud era infatti convinto che la coscienza potesse indagare l’”inconscio” alla stessa stregua di un qualsiasi altro ”oggetto” (Henri Ellemberger, ad esempio, parla della “scoperta dell’inconscio” come si parla della “scoperta dell’America”) (22), e come Jung era convinto che si potessero indagare allo stesso modo l’inconscio “personale” e quello “collettivo”, così Larchet è convinto di poter indagare in modo analogo l’inconscio “spirituale” e, all’interno di questo, l’inconscio “teòfilo” e quello “deìfugo”.
Neanche lo sfiora dunque il sospetto che l’inconscio “spirituale” altro non sia, in realtà, che lo spirituale di cui siamo ordinariamente inconsci, e quindi lo spirituale che sta, non “davanti” alla nostra coscienza (come un qualsiasi altro pensato), bensì “dietro” la nostra coscienza (come un pensare).
Chiunque conosca e comprenda La filosofia della libertà (23) sa infatti che siamo normalmente coscienti della spenta rappresentazione, ma non dell’attività (subcosciente) del giudicare e della realtà (incosciente) del concetto che la precedono e le consentono di prendere (in modo riflesso) forma (24).
Il solo inconscio “spirituale” di cui si possa legittimamente parlare è pertanto rappresentato da quei gradi superiori di coscienza (25) dei quali non hanno avuto il benché minimo sentore non solo Freud e Jung, ma anche la “psicanalisi esistenziale” (di Igor Caruso, Wilfried Daim e Viktor Frankl) ricordata da Larchet (26).

Note:

01) J-C.Larchet: L’inconscio spirituale. Malattie psichiche e malattie spirituali – San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, p. 6;
02) cit. in ibid., p. 80;
03) ibid., p. 19;
04) ibid., p. 19;
05) ibid., p. 8;
06) ibid., p. 23;
07) ibid., p. 7;
08) scrive Nikolaj Berdjajev: “Dostojevskij è tormentato dal mistero dello spirito umano. Preoccupa il suo pensiero l’antropologia, non la teologia. Non come pagano, non come uomo naturale risolve il problema di Dio, ma come cristiano, come uomo spirituale risolve il problema dell’uomo. In verità, il problema di Dio è un problema umano. Il problema dell’uomo è un problema divino, e, forse, il mistero divino meglio si rivela attraverso il mistero umano che con una ricerca di Dio attraverso la natura e fuori dell’uomo. Dostojevskij non è un teologo, ma più di Tolstòj è vicino al Dio vivente, Dio gli si rivela nel destino umano. Forse converrebbe essere meno teologi e più antropologi” (N.Berdjajev: La concezione di Dostojevskij – Einaudi, Torino 1977, pp. 25-26);
09) M.Scaligero: Graal – Tilopa, Roma 1982, p. 12; scrive sempre Scaligero: “Il cercatore di questo tempo trova dinnanzi a sé una serie di “tradizioni”, eco della conoscenza propria ad un’umanità remota nel tempo e costituzionalmente diversa. Se, dedicandosi allo studio di quelle, riesce a comprendere che quanto egli giunge a far rivivere in sé di quei contenuti è attività interiore sua, moto ideativo nascente in lui, egli può rendersi conto come l’essenza della ricerca consista non tanto nell’oggetto di essa, quanto nell’atto meditativo, producentesi per il fatto che l’oggetto venga conosciuto. Ciò che importa è la forza di questo conoscere, non il conosciuto, o contenuto, che è pretesto alla sua manifestazione. Percepire tale forza è l’inizio della conoscenza liberatrice” (M.Scaligero: La Via della Volontà Solare – Tilopa, Roma 1986, p. 46);
10) R.Steiner: L’Apocalisse – Antroposofica, Milano 1963, p. 10;
11) J-C.Larchet: op. cit., p. 7;
12) ibid., p. 94;
13) cfr. W.Schwarz: La natura ternaria dell’uomo e l’ottavo Concilio ecumenico dell’anno 869 in Studi su Dante e spunti di storia del Cristianesimo – Antroposofica, Milano 1982;
14) J-C.Larchet: op. cit., p. 228;
15) cfr., alla voce « Foi », il Dictionnaire de ChristologieTextes de Rudolf Steiner recuillis à l’intention des Etudiant en Science spirituelle par Maurice Nouvel – Editions anthroposophiques Romandes, 1999;
16) R.Steiner: Come si opera per la triarticolazione dell’organismo sociale – Antroposofica, Milano 1988, p. 85;
17) S.Hackel: Elizaveta Jur’evna. Rivoluzionaria, monaca, martire – Paoline, Milano 1988, p. 64;
18) J-C.Larchet: op. cit., p. 23;
19) ibid., p. 99;
20) ibid., p. 101;
21) ibid., p. 126;
22) cfr. H.F.Ellemberger: La scoperta dell’inconscio – Boringhieri, Torino 1980;
23) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
24) afferma Steiner: “Ogni vita cosciente ha radice in una vita animica subcosciente. In ultima analisi l’intera evoluzione dell’umanità si può comprendere soltanto ammettendo una tale vita animica subcosciente, perché tutti i progressi della vita dello spirito altro non significano se non che, dal subcosciente della vita animica, ciò che già da lungo tempo viveva sotto la superficie, è stato tratto sopra di essa, e così soltanto ha preso forma. Così succede per esempio quando un’idea creativa assume forma di impulso verso una scoperta” (R.Steiner: Da Gesù a Cristo – Antroposofica, Milano 1972, p. 39);
25) cfr., R.Steiner: I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977;
26) J-C.Larchet: op. cit., p. 95. Scrive Scaligero: “Si può parlare di inconscio solo a condizione che esso sia l’atto della coscienza, come garanzia della presenza del Principio cosciente nell’esperienza, non della sua eliminazione. La possibilità dell’esperienza dell’”inconscio”, in quanto momento d’indagine dell’autocoscienza, deve essere garantita da una esperienza superiore della coscienza, o dalla Scienza dello Spirito” (M.Scaligero: Psicoterapia. Fondamenti esoterici – Perseo, Roma 1974, p. 17).

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Di Lucio Russo
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