Edoardo Boncinelli (un fisico passato alla biologia) e Giulio Giorello (un matematico che insegna filosofia) hanno dato alle stampe un loro dialogo, intitolato: Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà (1).
Non lo abbiamo trovato granché stimolante, vuoi perché Boncinelli ripete molte delle cose già dette ne Il cervello, la mente e l’anima, di cui ci siamo a suo tempo occupati (2), vuoi perché si tratta di uno pseudo-confronto tra due materialisti (3) che si differenziano solamente per il fatto che l’uno, Boncinelli, opta per un moderato riduzionismo di carattere biologico o neurobiologico (4), mentre l’altro, Giorello, opta per un radicale riduzionismo di carattere meccanicistico (sulla scia di quello dell’Homme machine di J. O. de La Mettrie).
Proveremo comunque a fare alcune osservazioni, riportandone qualche stralcio ed evitando di soffermarci su quelle affermazioni che si presterebbero, loro malgrado, a una facile ironia.
Come questa, ad esempio, di Boncinelli: “Noi nasciamo con un cervellino che pesa un quarto di quello adulto, mentre uno scimpanzé, per esempio, nasce con un cervello che è già il 70% di quello adulto. Questo nostro rallentamento nello sviluppo prende appunto il nome di neotenia o fetalizzazione, ed è uno dei capisaldi della nostra identità. In particolare, della nostra capacità di sviluppare una cultura e di aver avuto un’evoluzione culturale. Naturalmente, lo paghiamo – tutto si paga in natura – con un periodo particolarmente lungo di “inettitudine” dei nostri “cuccioli”: mesi e anni, contro i pochi giorni o le poche ore di altri animali. Siamo insomma lenti, lentissimi, a iniziare, ma così andiamo molto lontano! Allora, posso immaginare in questa ottica che uno “scimmione” e una “scimmiona” fanno uno “scimmiottino”, il quale nei mesi e anni dello sviluppo si dimostra sempre meno scimmia, e via via sempre più umano. Chissà che shock per i suoi esterefatti genitori!” (5).
Ma veniamo al sodo.
Dice Boncinelli: “Gli animali fanno ben poco di gratuito; qualcosa, forse, soltanto quando sono cuccioli. Per il resto della loro vita non si possono concedere troppi lussi: devono fare ciò che è essenziale, e basta! Noi, al contrario, ci possiamo prendere molte licenze e fare cose biologicamente inutili come andare a teatro, costruire palazzi o scrivere libri. Per tale motivo questo libro si sarebbe potuto anche intitolare La scimmia giocherellona” (6).
Ma chiunque non fosse oberato dal “bagaglio” dei pregiudizi materialistici (7), non potrebbe più semplicemente pensare che quanto risulta “biologicamente inutile” possa essere animicamente e spiritualmente utile? O è forse più saggio ritenere che Aristotele o Hegel, Dante o Goethe, Michelangelo o Raffaello, Beethoven o Wagner non fossero che delle “scimmie giocherellone”? Certo, per non cadere nel grottesco, bisognerebbe riconoscere che esiste, oltre quella corporea, un’evoluzione animico-spirituale, e che questa non può essere ridotta a quella, come cercano invece di fare Boncinelli e Giorello.
A Giorello, ad esempio, che parla (citando Mill) della “natura umana” come di un qualcosa “che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che la rendono una creatura vivente”, Boncinelli così replica: “Ma cosa sono queste “tendenze delle forze interiori”? Risponderei: non tanto i geni quanto le condizioni del mio milieu interno. Oserei dire che qui c’è la radice di quella che tradizionalmente si è chiamata anima”; al che, Giorello ribatte: “Ci ritroviamo con il termine più ambiguo e polisemico fra tutti. E lo impieghi proprio tu, che diffidi dell’ambiguità di non pochi filosofi…”; e Boncinelli: “Lo so, anima è una parola magica, direi un tipico termine interruttore (chiamo così quelle parole che appena proferite in un dialogo, accendono o meglio spengono immediatamente…i lumi della ragione)…” (8).
Giorello si dice inoltre convinto che “l’evoluzione culturale è in notevole misura evoluzione della tecnologia” (9), mentre Boncinelli osserva che “la storia ci dimostra che mentre progredire tecnicamente e materialmente è stato facile e anche abbastanza spedito, progredire moralmente e spiritualmente è molto difficile, se non impossibile” (10).
Ma tanto più lo sarà, – ci sentiamo di aggiungere – quanto più si continueranno a spegnere materialisticamente “i lumi della ragione” e a riporre fede nel cefalocentrismo delle odierne neuroscienze.
Ecco, in proposito, alcune loro battute.
B: “Le equazioni “mente = software” e “cervello = hardware” appariranno sempre più delle ipersemplificazioni fuorvianti, anche se hanno avuto in passato una loro utilità. Comunque, siamo noi che mettiamo il software nei computer; ma il software nel nostro cervello chi mai lo ha messo?”
G: “Non rispondermi che è stato Dio!”
B: “Sarebbe stata una buona scappatoia per Cartesio. Io penso, piuttosto, all’evoluzione darwiniana e alla stessa storia dell’uomo” (11).
Dunque Giorello, come non vuol sentire parlare di “anima”, così non vuol sentir parlare di “Dio” (12). Tanto a lui, infatti, quanto a Boncinelli (13), non solo non “piace molto l’idea del sacro” (14), ma neppure quella dello “psichismo”, cara agli psicoanalisti.
“Ah, lo “psichismo!””, lamenta Boncinelli;
“Una di quelle parole tanto ambigue…”, aggiunge Giorello (15);
“…e vuote di significato”, conclude Boncinelli (16).
Non bastasse, a Giorello non “piace troppo” neanche “il termine soggetto”, perché lo trova (manco a dirlo) “fondamentalmente ambiguo” (17).
Crede infatti in un’“invenzione dell’Io (il soggetto)” (18), mentre Boncinelli sostiene che il nostro “Io non è un’entità primaria, ma il risultato di una serie di processi, magari piuttosto banali” (19).
Sfugge dunque, a entrambi, che una cosa è l’Io (quale “entità primaria”), altra la coscienza dell’Io (ovvero la “scoperta”, e non l’”invenzione” dell’Io), quale “risultato di una serie di processi” evolutivi di carattere corporeo, animico e spirituale (tutt’altro che “banali”).
Dice Giorello: “Per me la mente non è una sostanza, è un processo. Anzi, chiamo mente l’insieme di quei processi che, come conquista direi preliminare, portano all’individuazione e allo studio di invarianti. Sotto questo profilo la mente non è altro che l’attività del cervello che è in grado di costruire mappe e modelli dell’ambiente circostante. Quest’attività, beninteso, è ancora più sofisticata e complessa di così, ma quel che ne abbiamo detto ci fa già capire come essa possa consentirci di salire al livello intersoggettivo. E’ affascinante, ma cosa c’è di immateriale in tutto questo? Che bisogno c’è di aggiungere l’aggettivo immateriale alla parola Io, o se per questo alla parola Collettivo (20), per descrivere quello che già fa il mio Io materiale (il mio corpo) e il Collettivo materiale (cioè i corpi coordinati insieme, il mio e quello degli altri)?” (21).
Alla domanda: “Cosa c’è di immateriale in tutto questo?”, possiamo subito rispondere: il processo. Che senso ha infatti distinguere – come fa Giorello – il “processo” dalla “sostanza”, se ci si figura poi la qualità del primo alla stessa stregua di quella della seconda? Se ci s’immagina, cioè, una realtà, per così dire, “liquida” alla stessa stregua di una realtà “solida”, o una realtà “circolare” alla stessa stregua di una “quadrata”?
E’ questa, in effetti, la grande contraddizione di coloro che abbiamo altrove definito “neomaterialisti” (22), ma che potremmo anche definire “criptomaterialisti”: vorrebbero staccarsi dalla realtà morta della materia e spiccare il volo verso quella viva dei processi o delle attività, ma finiscono sempre col ricadere a terra perchè non hanno messo al loro pensiero le “ali” (23). Come si fa infatti a pensare o immaginare il non-sostanziale (o il “transmateriale” come preferisce chiamarlo Boncinelli) (24) se ci si è educati e abituati a pensare (rappresentativamente) sempre e soltanto il sostanziale?
E perché dunque escludere che, mettendo le “ali” al pensiero o imparando a “camminare sulle acque”, apprendendo cioè a pensare o immaginare, per così dire, “processualmente i processi” o “attivamente le attività”, si possa arrivare a scoprire che questi si svolgono nel cervello, ma non sono svolti dal cervello, essendo piuttosto espressione dinamica o vivente di quell’Io (spirituale) che Boncinelli non sa “che cosa voglia dire” (25) o dove collocare (quale “coscienza fenomenica istantanea”) (26), e che Giorello, non riuscendo a immaginarlo che come un “Leviatano”, identifica ingenuamente (proiettivamente) col corpo (27)?
Quanto vale per il processo o l’attività vale pure, ovviamente, per la “relazione”.
Lo ricordiamo, perché Giorello, sorpreso del fatto che il suo interlocutore abbia tirato in ballo “la percezione della mia coscienza fenomenica” e “il Collettivo umano”, ossia “due realtà transmateriali” (28), e preoccupato di dare a queste – come dice – “una maggiore base materiale” (29), afferma: “Ciò che controlliamo empiricamente (cioè con gli strumenti dell’impresa tecnico-scientifica) è sempre la relazione, mai la sostanza. Collettivo o Supermente o Spirito (hegeliano?), esso si manifesta a noi solo nel modo della relazione – guai a farne un Ente a sé stante, un metafisico Leviatano” (30).
Siamo – come si vede – daccapo: la “relazione”, non essendo “sostanziale” (non essendo cioè una “cosa”), può essere afferrata dal pensiero, ma non dai sensi (o dagli “strumenti dell’impresa tecnico-scientifica”).
E come è possibile pertanto risalire, facendo un primo salto di qualità, dalla sostanza alla relazione, così sarebbe possibile risalire, facendone un secondo, dalla relazione a quel quid o a quell’”Ente” (Collettivo, Supermente, Spirito o Io) che “si manifesta a noi – come dice Giorello – solo nel modo della relazione”.
Non è però tale quid a manifestarsi “a noi solo nel modo della relazione”, ma siamo noi a saper cogliere solo questo livello della sua manifestazione; il che poi non è nemmeno esatto, in quanto, di tale quid (o di tale essenza), sappiamo normalmente cogliere (percepire) la sola manifestazione sensibile o sostanziale.
Abbiamo detto, all’inizio, che quello tra Boncinelli e Giorello è un dialogo tra materialisti. Ci auguriamo sia chiaro, a questo punto, che si è “materialisti” non solo quando si crede che tutto quanto esiste è “materia”, ma anche quando si pensa tutto ciò che è ”extrasensibile” o “transmateriale” (come, magari, l’energia o l’informazione) (31) come se fosse “materiale” o allo stesso modo di ciò che è “materiale” (è quanto accade, ad esempio, allorché si pensa l’energia come una “grandezza fisica”).
Ma veniamo alla libertà.
B: “Tutto sommato, potremmo concludere, paradossalmente, che la libertà non c’è, come non c’è la salute perfetta, ma è utile comportarsi come se ci fosse, e che tutta la nostra vita è tesa a stabilire non tanto il kantiano regno dei fini, ma il regno della libertà, la quale non è immediatamente data, ma può essere costruita vivendo”.
G: “Sono d’accordo. Anche se non amo, per gusto personale, la parola regno: la libertà è per me una repubblica!” (32).
Questo loro accordo finale è curioso se si tiene conto di quanto hanno sostenuto, al riguardo, in precedenza.
Eccone qualche esempio.
B: “E perché non dovrebbe esserci un po’ di libero arbitrio?…”
G: “Io, invece, lo vorrei proprio contestare – o almeno vorrei provarci. Per amore di discussione, mi dichiaro contrario a qualunque dottrina del libero arbitrio…” (33).
………………
G: ”Non c’è libertà senza responsabilità. Lo possiamo assodare – lo abbiamo fatto – senza invocare il libero arbitrio. Ma alcuni ne propongono una concezione performativa: se noi crediamo nel libero arbitrio, allora ci comportiamo da persone libere” (34).
……………..
B: “Mi sembra un discorso troppo radicale. Se io pensassi che in larga parte non sono libero, avrei l’impressione che ogni fondamento del comportamento e quindi della morale finisca col perdere senso. Solo una mente malata può pensare a un determinismo assoluto. Viceversa non posso nemmeno concepire un indeterminismo altrettanto assoluto…”
G: “Volevo solo mostrare che, anche se assumi il determinismo più radicale, puoi ancora parlare di responsabilità. Avrò magari una “mente malata”, ma per amore di discussione muovo dalla premessa che il determinismo conseguente abbia ragione. Secondo te, in questa eventualità sfuma davvero ogni responsabilità? Secondo me, no. Supponiamo di vivere in un mondo totalmente deterministico; ebbene, se fa parte della natura di un delinquente uccidere degli innocenti, non fa parte della nostra natura ritenerlo comunque responsabile e condannarlo a quelle pene che siamo determinati a ritenere più utili per…il Collettivo?”
B: “Mi pare una concezione terribilmente rigoristica” (35).
“In un mondo totalmente deterministico” risulterebbero però determinati, tanto i sostenitori del determinismo, quanto quelli del libero arbitrio, e sarebbe perciò inutile ogni confronto.
Ma che dire, se, in virtù del confronto, il sostenitore del determinismo si mutasse in un sostenitore del libero arbitrio, o viceversa?
Fatto si è – per riprendere l’esempio di Giorello – che il determinismo può forse spiegare (ricorrendo magari al genoma) il comportamento del delinquente e quello dell’uomo onesto, ma non quello del delinquente che diviene un uomo onesto, o quello dell’uomo onesto che diviene un delinquente.
Il vero problema è comunque un altro: chi è responsabile? E se è vero, com’è vero, che non c’è libertà senza responsabilità (come non c’è responsabilità senza libertà), chi è allora libero? Forse l’”animale” o il “Collettivo” di Boncinelli o l’individuo, quale “congegno meccanico che pensa”, di Giorello (36)?
Un fatto è certo: solo chi non si è conquistato una corretta idea o un corretto concetto della libertà (37) può asserire, come fa Boncinelli, che “siamo più liberi di un cane, il quale lo è più di un topo, il quale lo è più di una mosca, la quale è più libera di un’ameba” (38), o confessare, come fa Giorello: “Non ho difficoltà a parlare – a questo livello “basso” – di libertà anche per una macchina” (39).
Tiriamo dunque le somme.
Il grande scrittore tedesco Ernst Wiechert (1887-1950) così pregava: “Signore concedimi, prima di morire, di diventare un uomo”.
Ciascuno di noi è in effetti un “Pinocchio”: vale a dire, un essere chiamato a farsi, da burattino nelle mani delle forze fisiche, biologiche e psichiche, uomo o spirito libero.
Come insegna Collodi, mai però Pinocchio sarebbe diventato un essere umano se, invece di fidarsi della “Fata dai capelli turchini”, avesse dato retta al Gatto e alla Volpe.
Note:
01) E.Boncinelli-G.Giorello: Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà – Rizzoli, Milano 2009;
02) cfr. Il cervello, la mente e l’anima, 12 dicembre 2001;
03) scrive, in proposito, Stefano Zecchi: “Giorello ha un curioso concetto di democrazia: lui e Boncinelli, che parlano dello scimmione intelligente, cioè di loro, sono giocatori della stessa squadra, così vincono sempre e, a scanso di rischi democratici, dicono le stesse cose” (il Giornale, 13 giugno 2009);
04) ciò non gli impedisce comunque di affermare che tutti gli organismi viventi “sono sì macchine, ma infinitamente più complesse di quanto Cartesio ai suoi tempi potesse immaginare. Gli esseri viventi sono macchine intrinsecamente molecolari” (p. 16);
05) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 32;
06) ibid., p. 46;
07) nella premessa, così scrivono i due autori: “Diversi per formazione e per sensibilità, e dotati di un differente bagaglio di pregiudizi, abbiamo pensato che, per liberarci di questi, la cosa migliore fosse mantenere la forma del dialogo” (p. 10);
08) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., pp. 77/78;
09) ibid., p. 45;
10) ibid., pp. 50/51;
11) ibid., p. 56;
12) asserisce Giorello: “L’aritmetica – più in generale la matematica – è anche la mia religio” (p. 12);
13) Boncinelli si dichiara “un cartesiano seriamente asimmetrico” (p. 169): più sensibile, cioè, alla res extensa che alla res cogitans;
14) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 197;
15) secondo Giorello, “il nostro corpo o la sua proiezione che chiamiamo “psiche”, determinano (così nel testo – nda) tutte le nostre azioni” (p. 93);
16) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 165;
17) ibid., p. 133;
18) ibid., p. 183;
19) ibid., p. 173;
20) parola usata da Boncinelli in luogo della parola “anima” e in contrapposizione alla parola “individuale” (p. 174). “Una mia tesi prediletta – spiega infatti – è che “l’uomo è eminentemente collettivo”” (p. 70);
21) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 185;
22) cfr. Neomaterialismo, 20 gennaio 2004;
23) si consideri che, per Boncinelli, “il pensiero è tutto quello che succede fra uno stimolo e una risposta” (p. 34), e la coscienza “è un gigantesco “imbuto” che costringe un certo numero, un “mazzetto” di processi paralleli a divenire seriali per un certo lasso di tempo” (p. 166);
24) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 174;
25) ibid., p. 113;
26) ibid., p. 169;
27) si ricordi che, per Freud, l’”identificazione” e la “proiezione” sono “meccanismi di difesa”;
28) “le uniche due – tiene a sottolineare Boncinelli – che traspaiono dal mio discorso” (p. 174);
29) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 175;
30) ibid., pp. 187/188;
31) ibid., p. 25;
32) ibid., pp. 201/202;
33) ibid., p. 98;
34) ibid., p. 122;
35) ibid.,123/124;
36) ibid., p. 15. Allorché Boncinelli fa presente a Giorello che Benjamin Libet (1916-2007), nel suo Mind Time (2004), “insiste che nel corpo c’è qualcosa di non materiale che decide”, Giorello insorge, dicendo: “Ma cosa vuol mai dire che nel mio corpo c’è qualcosa di non materiale? Mi pare un vero e proprio ritorno a Cartesio” (p. 84). Per Boncinelli, invece, l’idea che nel corpo ci sia qualcosa di non materiale sarebbe da imputare a quella “grande imbrogliona” della corteccia cerebrale, “perché qualunque sia il meccanismo della nostra decisione, ci racconta inesorabilmente che siamo noi a decidere”, creando “la grande illusione del libero arbitrio, se non più in generale dell’esistenza di un Io che percepisce e decide” (p. 87);
37) pensandola, ad esempio, “come assenza di un qualche vincolo esterno” (p. 114);
38) E.Boncinelli-G.Giorello: op. cit., p. 91;
39) ibid., p. 163.