Al lettore
Dal dicembre 2007 al febbraio 2009, Lucio Russo ha letto e commentato, per un piccolo gruppo di amici, le Massime antroposofiche di Rudolf Steiner (Antroposofica, Milano 1969). Il lavoro è stato registrato, ed è tuttora in corso di trascrizione (da parte di Carin Just e Roberto Marcelli) e di rielaborazione (da parte dell’autore).
Il libro si compone di due parti: la prima, La via conoscitiva dell’antroposofia, comprende 78 massime e 4 lettere; la seconda, Il mistero di Michele, 107 massime e 30 lettere.
D’accordo con l’autore, abbiamo deciso di pubblicare questo lavoro seguendo il succedersi delle massime e delle lettere, e non, come abbiamo fatto finora, quello degli “incontri”, cercando inoltre di conservargli, quanto più possibile, il carattere dell’esposizione verbale.
A beneficio del lettore, ogni gruppo di massime sarà corredato delle indicazioni bibliografiche che ci è stato possibile ritrovare.
Consigliamo di completare lo studio del presente lavoro con quello del libro di Rudolf Steiner: Lettere ai soci. 1924 – Antroposofica, Milano 1989.
A Claudia, che mi ha dato il cuore, e non soltanto una mano.
Massime antroposofiche
Prima parte: La via conoscitiva dell’antroposofia
Massime 1/2/3 – 1°
Sapete che mi sento particolarmente legato a questo libro, giacché lo considero una sorta di “testamento spirituale”, essendo Steiner morto il 30 marzo del 1925 ed essendo state queste massime e lettere pubblicate tra il febbraio del 1924 e l’aprile del 1925 (sul Notiziario per i soci della Società Antroposofica).
Ce ne siamo già occupati qualche anno fa; torniamo adesso a occuparcene, sperando nel frattempo di essere un tantino cresciuti e di poterlo così approfondire un po’ meglio.
1) “L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo. Sorge nell’uomo come un bisogno del cuore e del sentimento. Deve trovare la sua giustificazione nel fatto che essa è in grado di offrire a questo bisogno un soddisfacimento. Può riconoscere l’antroposofia solo chi trova in essa quel che deve cercare per una sua esigenza interiore. Possono perciò essere antroposofi soltanto quegli uomini che sentono certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sente fame e sete”.
Troviamo qui, in apparenza, una definizione dell’antroposofia. Perché dico “in apparenza”? Perché parlare di una “definizione” dell’antroposofia è improprio, dal momento che il “vivente” – e tale è l’essere dell’antroposofia – si presta a essere “caratterizzato” (dai più svariati punti di vista), ma non “de-finito”.
Ciò che conta, piuttosto, è che l’antroposofia viene detta una “via”, e non quindi una “teoria”, una “dottrina” o un “sistema”. E che cos’è una “via”? E’ presto detto: un metodo.
Tra la scienza della natura (galileiana) e la scienza dello spirito c’è infatti continuità di spirito, ma discontinuità di metodo (poiché sono diverse le realtà che indagano); e come si è posto un problema di metodo (sintetico o analitico, deduttivo o induttivo) quando è nata la scienza naturale (basti pensare al Discorso sul metodo di Cartesio), così si è posto un problema di metodo quando è nata la scienza dello spirito.
Che cos’è, ad esempio, L’iniziazione di Steiner (sottotitolato: Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?) (1) se non un “discorso sul metodo”? E che cos’è tale metodo se non un pragma (2): vale a dire, un procedimento che supera l’ordinaria dicotomia tra il pensare e il fare, inverandosi, per così dire, in una teoria pratica o in una pratica teorica? (In una felice sintesi, cioè, di cultura e vita che risolve il contrasto tra una cultura senza vita e una vita senza cultura o, per dirla con Schiller, tra la cultura “barbara” e la vita “selvaggia”) (3).
In questo senso, lo studio può essere considerato già un esercizio; a patto, ovviamente, che si tratti davvero di “studio”, e non di una semplice lettura, come quella che si fa quando si è mossi dalla curiosità o da un tiepido interesse, e non da una insopprimibile esigenza dell’anima. “Possono perciò essere antroposofi – dice appunto Steiner – soltanto quegli uomini che sentono certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sente fame e sete”.
In ogni caso, per poter “condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”, occorre anzitutto domandarsi se c’è uno spirituale nell’uomo.
Stando, ad esempio, al dettato dell’ottavo Concilio ecumenico, tenuto a Costantinopoli nell’869 d.C., uno spirituale nell’uomo non c’è. In quella sede, si stabilì infatti che l’uomo è composto solo di anima e corpo, e ch’è l’anima a disporre di alcune facoltà spirituali. Sostenere che l’uomo (in quanto fatto a immagine e somiglianza del Dio Uno e Trino) è costituito di spirito, anima e corpo (come si legge, ad esempio, in Origene o in Paolo) fu considerato da allora in poi un’eresia.
Noi invece sappiamo che uno spirituale nell’uomo c’è: occorre solo scoprirlo; per far questo, non basta però la testa, servono anche l’anima e il cuore.
E’ vero che “la via del cuore passa per la testa”: ma per l’appunto vi passa, e non vi si arresta. Un conto, infatti, è restare chiusi (arimanicamente) nella testa, altro è portarsi (con Michele) al di là della testa; così come una cosa è portarsi al di là della testa, altra restarne (lucifericamente) al di qua.
Sappiamo anche che per “condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” basta semplicemente andare a dormire. Ma che cosa si deve fare se ve lo si vuole condurre coscientemente? Che cosa si deve fare, cioè, per portare la coscienza e lo spirito umani incontro alla coscienza e allo spirito cosmici?
Si deve in primo luogo conoscere e sperimentare il pensiero come una realtà viva: ossia come una forza ordinariamente sconosciuta.
Per Freud, ad esempio, la forza (la libido) non è quella spirituale del pensiero, bensì la forza biochimica della “psicosessualità”, mentre, per Jung, è la forza affettiva o emotiva della “psiche”. Entrambi si figurano dunque la libido come una forza o un’energia altra da quella del pensiero con cui la pensano. Ma perché mai, quella della libido, dovrebbe essere solo la forza della volontà istintiva o del sentimento, e non anche del pensiero?
Fatto sta – come dice Scaligero – che “l’uomo conosce e in qualche modo domina il mondo, mediante il pensiero. La contraddizione è che egli non conosce né domina il pensiero. Il pensiero permane un mistero a se stesso” (4).
Lo “spirituale che è nell’uomo” va portato dunque alla coscienza.
“Sorge nell’uomo – dice Steiner – come un bisogno del cuore e del sentimento”. Ricordate che cosa si raccomanda in Matteo? Si raccomanda di “non dare le perle ai porci”: di non dare, ossia, all’anima senziente quel ch’è destinato all’anima cosciente. Non perché – sia chiaro – si debbano disprezzare coloro che non sentono, spiritualmente, “fame e sete”, ma perché, non essendo arrivato il loro momento, non sarebbero in grado di apprezzare le “perle”.
“Dare le perle ai porci” significa pertanto non rispettare né le perle né i porci; significa non saper attendere il momento giusto (il kairos), perché si soggiace alla tentazione (narcisistica) di mostrare agli altri quanto si è bravi, belli e buoni (se non addirittura “illuminati”), dimenticando, così, che siamo tutti dei principianti: vale a dire, degli “inizianti”, e non degli “iniziati”.
Se volete un esempio di che cosa voglia dire “sentire certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sente fame e sete”, leggete allora Le confessioni di Tolstoj.
Ve ne do solo un assaggio: “Se non oggi, domani verranno le malattie, la morte per le persone amate, per me, e non rimarrà nulla se non la putredine e i vermi. Le cose che ho fatto, quali che siano state verranno dimenticate; prima o poi neanche io ci sarò più. E allora perché mai darsi da fare? Come può un uomo non vedere ciò e vivere; ecco quel che è sorprendente. Si può vivere soltanto fino a che si è ubriachi di vita; ma appena passata l’ubriacatura non si può non vedere che tutto questo è soltanto un inganno e uno stupido inganno!” (5).
Morale della favola: cercare di portare tutti all’antroposofia è cosa ben diversa dal cercare di portare l’antroposofia a tutti, correndo così il rischio d’infirmarne il nerbo o lo spirito (pensate che Steiner non solo dichiara che “la scienza dello spirito va comunicata all’umanità odierna con la massima serietà e con scientifica precisione” (6), ma parla anche – non ricordo dove – della necessità di “un virile ingresso nel severo mondo dello spirito”).
Come potrebbe d’altro canto “riconoscere l’antroposofia“ chi non la ricercasse “per una sua esigenza interiore”, chi non fosse cioè in grado, non avendo sentito “un bisogno del cuore e del sentimento”, di sperimentare che essa può “offrire a questo bisogno un soddisfacimento”?
“A me non importa veramente molto – dichiara Steiner – che i miei libri principali vadano per il mondo in migliaia di esemplari; mi interessa invece assai di più che essi siano capiti, che sia afferrato il loro vero intimo impulso” (7).
Conta dunque la qualità, e non la quantità. (“La radice di ogni vera cultura” – dice Nietzsche – sta nell’”anelito degli uomini a rigenerarsi come santi e come geni”) (8).
L’antroposofia è perciò per tutti, ma non tutti sono (pronti) per l’antroposofia.
Sapete, a questo preciso proposito, che cosa disse Eduard von Hartmann, durante un colloquio con Steiner, riguardo alla gnoseologia? Ve lo leggo: “Su questi argomenti non si dovrebbero mai pubblicare libri, ma solo ciclostilati in pochi esemplari, forse una sessantina, perché in Germania, su sessanta milioni di abitanti, non sono di più le persone che hanno interesse per queste cose” (9).
Bando dunque a ogni promozione o divulgazione che faccia, volente o nolente, il gioco della pigrizia. So che non è semplice. (“Capita sempre – osserva Steiner – che i seguaci di una concezione del mondo guastino grandemente quel che i fondatori di essa hanno esposto in modo perfettamente giusto”) (10).
Potreste pensare, ad esempio, che io sia qui per facilitare le cose. Ma non è così: non sono qui per facilitarle né per complicarle, ma per cercare di testimoniare, per quel poco che posso, che l’antroposofia – come afferma Steiner – è un'”alta scuola di pensiero” (“Spero che si comprenda – afferma inoltre – quanto sia benefico che in seno alla Società antroposofica emergano delle attività intese alla elaborazione gnoseologica più rigorosa”) (11).
Non è la pigrizia, d’altronde, a far preferire a molti tutte quelle vie, sedicenti “spirituali”, che promettono sensazioni ed emozioni, ma non chiedono (in quanto – direbbe Hegel – “misologiche”) di “rompersi la testa”? Fatto sta, invece, che la testa, se vogliamo trovare lo spirito vivente, ce la dobbiamo proprio “rompere”. Nel giorno di Pasqua, non rompiamo forse l’uovo, per scoprire il regalo che contiene? E non rompiamo il salvadanaio, per prendere le monete che racchiude?
In ogni modo, giacché so che quello della divulgazione è un argomento assai “delicato”, vorrei leggervi questo altro passo di Steiner: “Quanto spesso viene sempre di nuovo posta la domanda: perché i libri sono scritti in modo tanto incomprensibile? Non sarebbe possibile scriverli in un modo più piano? Qualcuno suggerisce anche che cosa occorrerebbe fare per scriverli in un modo molto più semplice. E’ necessario difendersi dal raggiungere troppa semplicità, perché essa eleva solo l’egoismo. Se fosse così facile arrivare alla scienza dello spirito, chiunque potrebbe arrivarvi senza superare il proprio egoismo. Nel lavoro spirituale che occorre svolgere quando ci si impegna, si elimina già una parte del proprio egoismo, si perviene così in modo meno egoistico a quel che si intende raggiungere con la scienza dello spirito, quando ci si debba applicare un po’ rispetto a un’esposizione troppo piana. Abbiamo incontrato qualcuno che diceva: molti lavorano tutto il giorno, e quando alla sera si apprestano a leggere libri difficili non ne vengono a capo. Occorrerebbero libri leggibili con facilità. Abbiamo risposto: perché si dovrebbe impedir loro di impiegare il poco tempo di cui dispongono per leggere quei libri che sono stati scritti appunto con piena intenzione secondo le esigenze del mondo spirituale? Perché devono usare il tempo per leggere libri che sono sì più semplici ma che banalizzano le cose anche se magari a parole danno lo stesso contenuto? Così non si porrebbero le anime nella medesima condizione, ma piuttosto si trascinerebbe nella vita banale proprio ciò che dovrebbe allontanare dalla banalità, anche riguardo al modo in cui si vive in un’altra sfera” (12).
Come vedete, è possibile banalizzare le cose anche dando “lo stesso contenuto”, ma con un diverso spirito.
Quand’è dunque che l’uomo sente “come un bisogno del cuore e del sentimento”? Quando, pur essendosi saziato – grazie alla conoscenza ordinaria – del mondo sensibile, continua a sentire fame e sete: fame e sete di “significato” o di “senso” (“Chi beve di quest’acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno” – Gv 4,13).
Molti avvertono oscuramente tale bisogno (tant’è ch’è da questo, stando a Viktor Frankl, che discenderebbero le nevrosi “noogene” o esistenziali) (13), ma pochi lo portano poi a coscienza e lottano per soddisfarlo, liberandosi dei pregiudizi del “conscio collettivo”: ossia di quelli della cultura materialistica o spiritualistica, ispirata dagli “spiriti del tempo” irregolari.
Ho letto, ad esempio, che un’inchiesta promossa dalla Chiesa avrebbe accertato che il 35% degli italiani crede nella reincarnazione. Ma quanti di questi sarebbero disposti a trasformare la loro “credenza” in una “certezza” scientifico-spirituale, senza badare a quanto ne pensa la Chiesa o l’attuale “comunità scientifica” (quella rappresentata – per intenderci – dalla Montalcini, dalla Hack, da Dulbecco, da Veronesi, da Boncinelli, ecc.)?
Sapete, in realtà, chi siamo noi? Siamo i superstiti dei Gulag o dei Lager della “cultura” contemporanea: ovvero, di tutto quello che la scuola, la stampa, la radio, la televisione, il cinema o internet ci propinano quotidianamente.
Ascoltate quanto scriveva al riguardo Nietzsche, già nel 1876: “Non si ha più nessuna idea della distanza intercorrente fra la serietà della filosofia e la serietà di un giornale. Questa gente ha perduto anche l’ultimo resto non solo di un sentire filosofico, ma anche di un sentire religioso, e ha barattato tutto ciò non con l’ottimismo, ma con il giornalismo, con lo spirito e la mancanza di spirito del giorno e dei giornali” (14).
Eccoci dunque qui, da superstiti (e “miracolati”), a studiare l’antroposofia, nella speranza di poter dare finalmente risposta alle domande che nascono dal più profondo del cuore.
Che cos’è infatti l’antroposofia? (Permettetemi di dire per questa volta “che cos’è”, e non, come sarebbe giusto, “Chi è”). L’antroposofia è una “via della conoscenza” che vorrebbe portare alla coscienza, al fine di formarci e non d’informarci, ciò che vive e opera nell’inconscio. “L’essere umano vero e reale – afferma appunto Steiner – si preannunzia nel sentimento oscuro, nella vita inconscia dell’anima e, per mezzo della ricerca antroposofica, dev’essere tratto a galla nella coscienza”.
Dal momento che tale “essere umano vero e reale” è oggi in grave pericolo (tanto che la cosiddetta “questione sociale” si è ormai trasformata in una “questione antropologica”), permettetemi di leggervi, per concludere, queste forti parole, sempre di Nietzsche: “Chi dedicherà, in tali pericoli della nostra epoca, i suoi servigi di custode e di cavaliere all’umanità? (…) Chi terrà alta l’immagine dell’uomo, mentre tutti non sentono in sé se non il verme egoistico e una paura cagna, e sono tanto decaduti da quell’immagine da ridursi all’animalità o addirittura alla rigida meccanicità?” (15).