Massime antroposofiche
17/18/19

M

17) “L’uomo è un essere che esplica la sua vita nel mezzo tra due sfere del mondo. E’ inserito col suo sviluppo corporeo in un “mondo inferiore”; con l’entità della sua anima egli forma un “mondo intermedio”, e tende con le sue forze spirituali verso un “mondo superiore”. Egli ha il suo sviluppo corporeo da quel che gli ha dato la natura; porta in sé come parte sua propria l’entità della sua anima; trova in sé le forze dello spirito come doni che lo guidano oltre se stesso a prendere parte ad un mondo divino”.

Sapete che Steiner, ne La filosofia della libertà, tratta della percezione, della rappresentazione e del concetto, spiegando che la rappresentazione si forma quando una percezione s’incontra con un concetto (ricordate? “La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione”) (1).
Bene, immaginiamo allora un bambino che dica al padre: “Oggi la maestra ci ha parlato dello gnu. Mi porti a vederlo?”. Questo bambino ha dunque il concetto dello gnu (lo gnu), ma non la sua percezione (questo gnu).
Ora, immaginiamo invece un bambino che, allo zoo, davanti al recinto dello gnu, chieda al padre: “E questo chi è?”. Questo bambino, al contrario del primo, ha dunque la percezione dello gnu, ma non il suo concetto.
Il primo non può dunque avere la rappresentazione dello gnu (uno gnu), perché gli manca la percezione dello gnu (perché non sa a quale oggetto debba collegare il concetto), e il secondo non può averla, perché gli manca il concetto dello gnu (perché non sa a quale concetto debba collegare l’oggetto).
Come vedete (l’esempio è approssimativo, ma tutto sommato calzante), per poter formare una rappresentazione, occorrono sia una percezione (di per sé “cieca”) che un concetto (di per sé “vuoto”).
Dire “concetto” significa però dire “spirito”, così come dire “rappresentazione” e “percezione” significa dire, rispettivamente, “anima” e “corpo”.
Eccoci arrivati, così, alla nostra massima. L’uomo, dice infatti Steiner, “è inserito col suo sviluppo corporeo in un “mondo inferiore” [quello singolare o individuale delle percezioni]; con l’entità della sua anima egli forma un “mondo intermedio” [quello particolare delle rappresentazioni], e tende con le sue forze spirituali verso un “mondo superiore” [quello universale dei concetti]”.
L’uomo è tuttavia cosciente della realtà (soggettiva) delle sue rappresentazioni, ma non della realtà (oggettiva) dei concetti (come dimostrano i nominalisti e i relativisti) né di quella (oggettiva) delle percezioni (delle cosiddette “cose in sé”).
Ciò significa che l’uomo può attuare se stesso (divenire ciò che è) soltanto sviluppando, a partire dalla coscienza rappresentativa (che già possiede), la coscienza immaginativa, la coscienza ispirata e quella intuitiva (è grazie a quest’ultima, che comprende le prime due, che può realizzare che il contenuto della percezione e il concetto sono due diverse manifestazioni di una stessa realtà).
E’ solo così che si può davvero (sanamente) crescere. Ricordate ciò che abbiamo detto a suo tempo? Abbiamo detto che l’esistenza dei minerali, delle piante e degli animali dipende dal loro essere, mentre quella dell’uomo dipende dalla coscienza che ha del suo essere.
La qualità della nostra vita quotidiana dipende dunque dal grado di coscienza che abbiamo del nostro essere (dell’Io).
Dice Steiner: l’uomo “trova in sé le forze dello spirito come doni che lo guidano oltre se stesso a prendere parte ad un mondo divino”.
Che cosa significa che tali forze lo guidano “oltre se stesso”? Quello che abbiamo appena detto: ossia che l’uomo non potrebbe andare “oltre” il livello di coscienza (e di autocoscienza) ordinario (oltre l’ego), se non potesse contare sulle forze dello spirito che gli sono state donate (se non potesse contare sull’Io inabitato dal Logos).
Per non restare fermi o fissati (come vorrebbe Arimane) all’ordinario stato di coscienza, e per trasformare gradualmente l’ego nel “Sé spirituale”, nello “Spirito vitale” e nell’“Uomo spirituale”, dobbiamo dunque far leva sullo spirito (tanto che potremmo dire – parafrasando Archimede – “dateci un punto d’appoggio e solleveremo noi stessi”).
Chiunque neghi la realtà dello spirito (insegnando, magari, che l’uomo è fatto soltanto di corpo e anima) toglie dunque all’uomo l’unica forza sulla quale può fare affidamento per rinnovare e nobilitare la propria anima e la propria vita.
Considerate, per di più, che un’anima che non evolve e non progredisce, non potendo conservare a lungo, al pari di ogni realtà vivente, la sua condizione, è destinata a regredire.
Ciò vuol dire che rischiamo, non portandoci liberamente al di là del cosiddetto “lume naturale”, di esserne trascinati al di qua, smarrendo così anche il “bene dell’intelletto”.
Che cosa si dice infatti in Marco? “A chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mc 4, 25).

18) “Lo spirito è attivo in queste tre sfere del mondo. La natura non è vuota di spirito. Si perde conoscitivamente anche la natura, se non vi si scorge lo spirito. Si troverà però lo spirito come sopito entro l’esistenza naturale. Come nella vita umana il sonno ha il suo compito, e l’”io” deve dormire un certo tempo per essere ben desto in un altro, così lo spirito del mondo deve dormire nel “luogo della natura”, per essere ben desto in un altro”.

Dice Schelling: “La natura è lo spirito visibile, lo spirito è la natura invisibile”; e Steiner afferma: “La natura non è vuota di spirito”.
In essa, tuttavia, lo spirito non si presenta come spirito (come Io), ma come anima (nel regno animale), come vita (nel regno vegetale) e come corpo (nel regno minerale); e laddove si presenta come anima sogna, laddove si presenta come vita dorme e laddove si presenta come corpo muore.
L’Io (collettivo) degli animali, dei vegetali e dei minerali è dunque nello spirito, mentre lo spirito (il Logos) è nell’Io (individuale) dell’uomo; potremmo perciò dire, volendo, che il fiat pronunciato umilmente e silenziosamente dalla natura è un riflesso del “Fiat mihi secundum verbum tuum” pronunciato dalla Vergine.
Si troverà lo spirito – prosegue Steiner – “come sopito entro l’esistenza naturale. Come nella vita umana il sonno ha il suo compito, e l'”io” deve dormire un certo tempo per essere ben desto in un altro, così lo spirito del mondo deve dormire nel “luogo della natura”, per essere ben desto in un altro”: cioè a dire, nel “luogo dell’uomo”, dove può finalmente vegliare e pensare (seppure in modo inizialmente freddo e riflesso).
L’uomo è infatti l’unico essere che può conoscere se stesso e gli altri esseri, in quanto gode appunto dello stato di veglia (in cui è attivo il pensare).
Nel “luogo dell’uomo”, la natura conosce quindi se stessa. Può farlo, però, solo se l’uomo glielo permette (nel suo pensare – afferma Steiner – l’uomo può “contemplare i pensieri, percepire i pensieri secondo i quali gli dei formarono il mondo”) (2).
Ma se è vero che quello di veglia rappresenta un grado di coscienza superiore a quelli del sogno animale, del sonno vegetale e della morte minerale, è anche vero che rappresenta un grado di coscienza inferiore a quello conquistato ad esempio dal Buddha.
Sapete che il Buddha è il “risvegliato”, ma risvegliato da che cosa? Forse dal sonno naturale della notte? Non credo, altrimenti saremmo tutti dei Buddha. E da quale altro “sonno” si è allora risvegliato? E’ semplice: da quello della coscienza ordinaria di veglia.
Fatto sta che lo stato di veglia ordinario (dell’intellettuale) è un “sonno” rispetto allo stato di veglia immaginativo (del veggente), che questo è a sua volta un “sonno” rispetto allo stato di veglia ispirato (dell’illuminato), e che questo è infine un “sonno” rispetto allo stato di veglia intuitivo (dell’iniziato).
Qual è dunque il dono dello spirito che, una volta ricevuto, non si perde più? Il dono della veglia: ossia il dono, seppure ordinariamente limitato, della luce (della “luce degli uomini” che “risplende fra le tenebre”).
Come ho già detto, non si tratta pertanto di attutire o spegnere questa luce (fredda e lunare), bensì di accrescerne, intensivamente ed estensivamente, la forza (calda e solare), mediante lo studio e la pratica interiore della scienza dello spirito (“Cristo sole / Luce divina / illumina le nostre menti / riscalda i nostri cuori”).
Vi leggo, per concludere, queste righe di Steiner: “La sana coscienza abituale è la premessa necessaria per la coscienza veggente. Chi crede di poter sviluppare una coscienza veggente senza la sana e attiva coscienza abituale si sbaglia davvero molto. La normale coscienza abituale deve persino accompagnare la coscienza veggente in ogni istante, perché altrimenti quest’ultima porterebbe disordine nell’autocoscienza umana, e quindi nel rapporto dell’uomo con la realtà. Nella sua conoscenza veggente l’antroposofia può avere a che fare solo con una simile coscienza, non però con una qualsiasi attenuazione della coscienza abituale” (3).

19) “Di fronte al mondo l’anima dell’uomo è un essere sognante, se non bada allo spirito che agisce in essa. Questo sveglia i sogni animici che si intessono nella propria interiorità, spronandoli a prender parte al mondo da cui proviene il vero essere dell’uomo. Come chi sogna si chiude dinanzi al circostante mondo fisico e si abbozzola nel proprio essere, così l’anima dovrebbe perdere il suo nesso con lo spirito del mondo da cui proviene, se non volesse udire entro di sé la sveglia dello spirito”.

Abbiamo detto e ripetuto che l’ordinario stato di coscienza degli animali è quello di sogno (diverso però da quello umano, poiché non ancora differenziato nettamente dalla veglia). Se fossimo solo anima, potremmo quindi fare soltanto ciò che fanno gli animali (anima-li): ossia, appunto, “sognare vegliando”, o “vegliare sognando”, il mondo e noi stessi.
C’è chi dice, è vero: “Sognare è bello!”, come c’è chi dice: “Lasciami sognare!” o “Fammi sognare!”. Ma sapete perché? Perché l’odierno vegliare è sempre più brutto, giacché è sempre più gelidamente e aridamente arimanico.
Ecco come si viene giocati dagli ostacolatori: dal momento che il vegliare arimanico è brutto, ci si rifugia allora nel sognare luciferico ch’è bello.
Non è facile, oggigiorno, che si verifichi il contrario, giacché il vegliare arimanico viene spacciato per “senso della realtà” (per quel “principio della realtà” opposto, da Freud, al “principio del piacere”).
Non a caso, la tipica accusa mossa dagli arimanici ai luciferici è quella di avere “la testa per aria”, convinti come sono di stare “con i piedi per terra”, benché stiano, in realtà, “con la testa per terra” (per non dire “sottoterra”).
Dalla loro hanno però il “conscio collettivo” che altera o falsa il senso e il valore delle cose.
Pensate ai temperamenti: l’uno vale l’altro, dal momento che l’uno non è migliore o peggiore dell’altro (al pari del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra). Eppure, dal punto di vista dell’odierno “conscio collettivo”, il temperamento collerico e quello sanguigno (caratterialmente “estroversi”) sono “vincenti” (trendy), mentre il temperamento melanconico e quello flemmatico (caratterialmente “introversi”) sono “perdenti” (no-trendy).
In ogni caso, di tutto quello che possiamo dire degli ostacolatori, l’essenziale è questo: Arimane è uno spirito senz’anima; Lucifero è un’anima senza spirito. Il primo è infatti duro, freddo, logico, e chi ha anima sente che non ha anima (non è “pazzo” – diceva Chesterton – chi ha perso la ragione, ma chi ha perso tutto tranne la ragione), così come chi ha spirito sente che il secondo, molle, caloroso, sognante (“pre-logico” direbbe Italo Calvino), non ha spirito.
Dicendo “spirito”, intendiamo naturalmente “pensiero”, mentre, dicendo “anima”, intendiamo “sentimento”.
Sappiamo già che il pensiero ordinario è potente finché è alle prese con la realtà morta (con quella, ad esempio, della tecnica), ma che è viceversa impotente quando si trova alle prese con le realtà della vita, dell’anima e dello spirito.
Il fatto (da tempo denunciato) che l’uomo possa diventare schiavo delle cose che crea (basti pensare alla televisione, ai computer o ai videogiochi), dimostra a sufficienza che in tanto non le domina, in quanto, non conoscendosi, non si domina né (come vedremo in seguito) si rinnova o si “ri-crea”.
Dice Steiner, tornando a noi, che “di fronte al mondo l’anima dell’uomo è un essere sognante, se non bada allo spirito che agisce in essa”.
Così è infatti l’anima di quell’”uomo psichico che non accetta – come dice Paolo – le cose dello spirito” (1Cor 2,14), o quella fagocitata da quel “sentire sognante” (sentimentale o istericamente romantico) di cui Goethe si liberò scrivendo I dolori del giovane Werther.
Che cosa fa dunque lo spirito? “Sveglia – dice Steiner – i sogni animici” (“State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso (…) Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!” – Mr, 13,33 e 37).
Ecco appunto la “veglia”! L’ordinario stato pensante di veglia è dunque segno della presenza dello spirito o dell’Io.
“Questo – dice Steiner – sveglia i sogni animici che si intessono nella propria interiorità, spronandoli a prender parte al mondo da cui proviene il vero essere dell’uomo. Come chi sogna si chiude dinanzi al circostante mondo fisico e si abbozzola nel proprio essere, così l’anima dovrebbe perdere il suo nesso con lo spirito del mondo da cui proviene, se non volesse udire entro di sé la sveglia dello spirito”.
Chi si chiude, durante la veglia, “dinanzi al circostante mondo fisico”, abbozzolandosi nel proprio essere, è di fatto un egocentrico, un solipsista o un narcisista (cioè un tipo, per dirla in soldoni, che “se la canta e se la suona”).
Non crediate – mi raccomando – che la cosa non ci riguardi. Proprio Steiner mette infatti in guardia da coloro che l’antroposofia vorrebbero solo “godersela”: da coloro, cioè, che sono disposti a seguirla finché li allieta o li rilassa (finché la trovano congeniale alla loro natura), ma che si arrestano (o di fatto la rinnegano) non appena presagiscono o intravvedono che la “delizia” si accompagna alla “croce”.
Sapete, un giorno, che cosa mi consigliò di leggere Scaligero? Del sentimento tragico della vita (4), un libro di Miguel de Unamuno: lo stesso autore de L’agonia del cristianesimo (5). Perché “agònia”? Perché il cristianesimo è lotta (“agòne”), lotta contro la morte (“Il cristianesimo – scrive Berdjaev – è la religione della verità crocifissa”) (6). Da qui il “sentimento tragico della vita”, inteso nel senso più classico e nobile (e non quindi pessimistico).
L’antroposofia, insomma, è una “cosa seria”, e non un passatempo, un trastullo o un hobby, né tantomeno un “buon affare” (s’intende, economico).
Fatto sta, che come gli psichiatri affibbiavano un tempo un ceffone a chi, in preda a una crisi isterica, doveva essere riportato alla realtà, così lo spirito ci affibbia talvolta dei ceffoni per risvegliarci dai “sogni animici” o dalle illusioni che coltiviamo, compiaciuti, nella nostra interiorità.
Dovremmo piuttosto renderci conto che il mondo ha bisogno di noi: dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e dei nostri atti di volontà. “La creazione attende con gran desiderio – dice appunto Paolo – la glorificazione dei figli di Dio” (Rm 8,19).
Vedete, allorché l’uomo raggiunge storicamente l’autocoscienza ordinaria (l’anima cosciente), nascono contemporaneamente la “modernità” e la scienza naturale (galileiana); con questa, nasce quindi il pensiero oggettivo: cioè un pensiero – come sottolinea Steiner ne La filosofia della libertà – a tal punto dedito o votato all’oggetto da dimenticare se stesso.
E’ ormai tempo, però, che il pensiero si ritrovi, ed è per questo che Steiner ci ha dato La filosofia della libertà.

Note:

1) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 89;
2) R.Steiner: Gerarchie spirituali – Antroposofica, Milano 1995, p. 9;
3) R.Steiner: Enigmi dell’anima – Antroposofica, Milano 1987, p. 109;
4) cfr. M.de Unamuno: Del sentimento tragico della vita – Rinascimento del libro, Firenze 1937;
5) cfr. M.de Unamuno: L’agonia del cristianesimo – Monanni, Milano 1926;
6) N.Berdjaev: Nuovo Medioevo – Fazi, Roma 2004, p. 150.

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Di Lucio Russo
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