44) “Un passaggio all’osservazione scientifico-spirituale del problema del destino si dovrebbe compiere, su esempi tratti dall’esperienza di singoli uomini, con l’esame dello svolgimento di ciò che è conforme al destino nel suo significato per il corso della vita; per esempio, di come un’esperienza giovanile che non fu certo procurata in piena libertà da una persona, possa in gran parte improntare tutto il resto della sua vita”.
Abbiamo detto e ripetuto che il nostro destino ha due aspetti: quello della nostra natura, intesa quale costituzione, temperamento e carattere (non quale Io), e quello dell’ambiente (in senso lato) che ci circonda.
Nella vita, come ben sappiamo, si possono verificare degli eventi in grado di segnarci profondamente. Possiamo perdere ad esempio i nostri cari, possiamo perdere il lavoro, il patrimonio o la casa, possiamo rimanere vittime di incidenti, di aggressioni o di calamità naturali, e così via.
Questi fatti di destino possono, sia peggiorarci, sia migliorarci (moralmente). Si tratta infatti di eventi che hanno sempre un fine, per così dire, “pedagogico” (mai punitivo). Non per nulla, si dice: “Dio punisce coloro che ama”, intendendo affermare, con ciò, che fa di tutto per “ricondurli sulla retta via”.
E’ questo, essenzialmente, il fine della sofferenza e del dolore.
Avrete notato, ad esempio, che ci si sente di solito più portati verso il mondo spirituale (magari attraverso la preghiera) quando si sta male o quando capita una disgrazia, che non quando si sta bene o quando capita una fortuna.
Ciò è dovuto al fatto che il dolore (al pari della morte) è una negazione della vita (psicofisica) dell’ego (in Christo morimur), e quindi, essendo l’ego una negazione dell’Io, un’affermazione della vita (spirituale) dell’Io (per Spiritum Sanctum reviviscimus): ossia, della nostra vera vita.
Se fossimo perciò capaci di sperimentare la gioia nello spirito e lo spirito nella gioia, non avremmo bisogno del soccorso del dolore (e della morte).
La gioia luminosa del Logos (dell’”Io sono”) che inabita l’Io umano è pienezza o turgore di spirito (“V’ho detto queste cose, affinché in voi dimori la mia gioia, e la gioia vostra sia piena” – Gv 15,11). E abbiamo visto, a suo tempo, che la gioia di essere è anche gioia di esistere, mentre la gioia (“troppo umana”) di esistere non è anche gioia (“umana”) di essere.
Ogni fatto di destino può portarci dunque verso il bene o verso il male. Una cosa, infatti, sono le azioni del destino (delle Norne germaniche, delle Moire greche o delle Parche latine), altra le nostre reazioni, e queste dipendono in toto dal grado o dal livello di sviluppo della nostra coscienza.
Fatto si è che ogni evento, felice o infelice che sia, è un segno (una “scrittura occulta”) che dovremmo imparare a decifrare, una richiesta che dovremmo imparare a soddisfare o un appello al quale dovremmo imparare a rispondere.
Ascoltate quanto disse Dostoevskij a Vsevolod Solov’ëv (fratello di Vladimir), degli anni in cui fu deportato e recluso in Siberia: “Oh, per me è stata una grande felicità: la Siberia, i lavori forzati! Dicono che è terribile, uno scandalo, parlano di giusta indignazione … sciocchezze! Solo là avevo cominciato a condurre una vita felice, là avevo compreso me stesso … ho avuto coscienza del Cristo … dell’uomo russo, là ho capito di essere un russo anch’io, figlio del popolo russo. In quegli anni sono nate le mie idee migliori che ora mi tornano, ma non più chiare come prima! Le auguro di essere mandato ai lavori forzati!” (1).
45) “Si dovrebbe rappresentare nella sua portata come, nel corso fisico della vita fra nascita e morte, il buono possa essere infelice nell’esistenza esteriore, il malvagio, almeno in apparenza, felice. Esempi in immagini sono per questo esame più efficaci di qualsiasi spiegazione teorica, perché preparano meglio l’osservazione scientifico-spirituale”.
Dice il Cristo-Gesù: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo: or, perché non siete del mondo, ma anzi, scegliendovi, io vi ho fatto uscire dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18); e aggiunge: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e gemerete e il mondo godrà; voi sarete nell’afflizione, ma la vostra tristezza sarà mutata in letizia” (Gv 16,20).
Come meravigliarci, dunque, che “il buono possa essere infelice nell’esistenza esteriore” e “il malvagio, almeno in apparenza, felice”?
“Il mio regno – dice ancora – non è di questo mondo”. E chi regna allora in questo mondo? Lo sappiamo: Lucifero, Arimane ed altre entità ancor più inquietanti (anche per questo Steiner ha detto che l’antroposofia non è estranea al mondo, ma ch’è piuttosto il mondo a essere estraneo all’antroposofia) (2).
Ciò non vuol dire, sia ben chiaro, che si debba evitare o fuggire questo mondo: vuol dire, invece, che ci si dovrebbe impegnare a renderlo migliore, cominciando col rendere migliori se stessi.
Facciamo un passo importante in questa direzione quando liberiamo i nostri giudizi dall’ipoteca del “conscio collettivo” (Jung): dall’ipoteca, cioè, dei media, dell’opinione pubblica o del “politicamente corretto”.
Ricordo un amico che, una volta, riferendosi a un uomo cosiddetto “di successo”, mi disse: “Quello sì che sa vivere”. “Resta da vedere – gli risposi – se sa pure morire”.
Ne ricordo un altro (perdonate questi riferimenti personali) che si riteneva un fesso perché lavorava onestamente, mentre alcuni suoi colleghi facevano i furbi. Un giorno gli dissi: “Hai ragione, sei proprio un fesso; ma lo sei solo perché ti ritieni un fesso: perché non hai cioè la forza di difendere la tua onestà, finendo così con l’invidiare quella che presumi abbiano i furbi”.
Ricordate, infatti, queste parole di Scaligero? “E’ facile essere buoni quando si è deboli; è facile essere forti quando si è cattivi; difficile è essere forti perché buoni e buoni perché forti”.
A qualcuno mi è capitato addirittura di dire: “Se ci tieni a non passare per fesso, lascia perdere l’antroposofia”.
Se il principe Myskin, infatti, non avesse voluto passare per “idiota” (agli occhi ovviamente di Arimane), non avrebbe dovuto lasciar perdere il Cristianesimo (3)?
Fatto si è che c’è una intelligenza della testa (michaelita) che riscalda e vivifica il cuore (“l’antroposofia – dice Steiner – è questione di cuore”), e ce n’è un’altra (arimanica) che al contrario lo gela e mortifica, ed è proprio a questa che quella appare “non-intelligente” (ossia, per l’appunto, “fessa” o “idiota”).
46) “Alla luce di casi del destino che si presentano nell’esistenza dell’uomo in modo che non se ne possono trovare le determinazioni in ogni singola vita terrena, si dovrebbe mostrare come, di fronte a tali casi del destino, già un esame puramente razionale della vita indirizzi ad una vita precedente sulla terra. Dal modo dell’esposizione deve naturalmente risultar ben chiaro che con essa non si vuol affermare nulla di impegnativo, bensì dire solo qualcosa che orienti i pensieri verso lo studio scientifico-spirituale del problema del destino”.
“E passando vide un uomo cieco fin dalla nascita. E i suoi discepoli gli domandarono: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, per esser nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui, né i suoi genitori hanno peccato, ma è così, perché si manifestino in lui le opere di Dio” (Gv 9,1-3): perché si manifesti cioè il karma, quale benedetta creazione delle Gerarchie.
Quando non si riesce a scoprire la causa di un fatto di destino nella presente vita terrena, né in quella pre-natale, si potrebbe ipotizzare che risieda in una vita terrena precedente.
Si potrebbe, ma non lo si fa. E per quale ragione? Per la semplice ragione che si nutrono dei pregiudizi.
Come procede un moderno scienziato? Lo sanno tutti: prima osserva il fenomeno, poi avanza un’ipotesi (formula una teoria), e infine la sottopone alla verifica sperimentale (anche se, come osserva Einstein, “non si può verificare sperimentalmente tutto”) (4).
Ma perché – ci si potrebbe allora domandare – ci sono delle ipotesi che non vengono mai avanzate? Perché quello dell’ipotesi – si deve rispondere – è un momento di puro pensiero o di pura immaginazione, e per ciò stesso un momento in cui possono più facilmente intervenire dei pregiudizi atti a limitare o restringere il campo d’indagine (scrive Heisenberg: “Si crede chissà perché che scienza voglia dire applicazione automatica della logica e di leggi prefissate. Invece, l’immaginazione ha un posto decisivo nella scienza, e soprattutto nelle scienze della natura”) (5).
Che ne consegue? Ne consegue che finiscono così con l’esistere, in barba allo spirito scientifico, delle ipotesi “materialisticamente corrette” (definite da Goethe “delle ninnenanne con cui il maestro addormenta i suoi alunni”) (6) e delle ipotesi “materialisticamente scorrette”.
Il solo torto dell’ipotesi delle ripetute vite terrene è dunque quello di essere appunto “materialisticamente scorretta”, se non (dal punto di vista cattolico) “scorrettissima”.
Note:
01) cit. in L.F.Földényi: Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere – il melangolo, Genova 2009, pp. 45-46;
02) R.Steiner: Le forze animico-spirituali alla base della pedagogia – Antroposofica, Milano 2006, p. 134;
03) cfr. F.Dostoevskij: L’idiota – Garzanti, Milano 1997;
04) cit. in W.Heisenberg: Fisica e oltre – Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 79;
05) ibid., p. 197;
06) J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 138.