Cominciamo subito a leggere questa nuova lettera, intitolata: L’avvenire dell’umanità e l’attività di Michele (2 novembre 1924).
“In quale rapporto sta oggi l’uomo, al suo grado di evoluzione, con Michele ed i suoi?
L’uomo si trova di fronte ad un mondo che una volta era interamente entità divino-spirituale; entità divino-spirituale della quale egli stesso era parte. Allora, dunque, il mondo nel quale l’uomo viveva era e n t i t à divino-spirituale. A una tappa successiva dell’evoluzione non lo fu più. Il mondo divenne m a n i f e s t a z i o n e cosmica del divino-spirituale, mentre l’entità di questa aleggiava dietro la manifestazione. Nella manifestazione, tuttavia, viveva e tramava l’entità. Già era venuto ad esistenza il mondo stellare. Nel suo risplendere e roteare, il divino-spirituale viveva e tramava come manifestazione. Si può dire: nella posizione e nelle rivoluzioni di una stella, si poteva allora vedere direttamente l’attività del divino-spirituale” (p. 85).
Dobbiamo qui ripetere (sed repetita iuvant) alcune cose dette a commento della lettera precedente.
Un tempo – afferma Steiner – “il mondo nel quale l’uomo viveva era entità divino-spirituale. A una tappa successiva dell’evoluzione non lo fu più. Il mondo divenne manifestazione cosmica del divino-spirituale, mentre l’entità di questa aleggiava dietro la manifestazione. Nella manifestazione, tuttavia, viveva e tramava l’entità”.
In una prima fase, l’uomo vive dunque in un mondo che è Entità divino-spirituale, mentre, in una seconda, vive in un mondo che è manifestazione: una manifestazione dietro la quale l’Entità divino-spirituale dapprima aleggia, vive e trama, e dalla quale poi invece si distacca.
Abbiamo perciò a che fare con due concetti: con quello di Entità divino-spirituale e con quello di manifestazione, rispettivamente corrispondenti, come abbiamo visto, al concetto di essere e al concetto di essenza della logica hegeliana.
Per Hegel, infatti, l’essere è il “puro essere” (”immediato” e “indeterminato”), mentre l’essenza è un “essere determinato”: cioè un essere che, per il fatto stesso di determinarsi come A, come B, come C, ecc., si muta appunto in un’essenza o in un “essere a sé”.
L’essenza è pertanto un essere che, rivestendo un particolare carattere, si presenta come una “qualità”, un “qualcosa” o un “alcunché: ossia come un quid – precisa Hegel – nel quale “la determinazione è una con l’essere”.
In un primo tempo, infatti, tra l’Entità e la manifestazione non c’è, come afferma la nostra lettera, una scissione.
Fate ora attenzione, invece, a ciò che dice Hegel della “quantità”: “La quantità è il puro essere, in cui la determinazione è posta non più come una con l’essere stesso, ma come superata o indifferente” (1).
Notate la differenza? Nel caso della qualità, abbiamo una manifestazione (creatrice) che “è una con l’essere”; in quello della quantità, abbiamo invece una manifestazione (conservatrice) che è “non più come una con l’essere”, e che cade, per ciò stesso, dalla sfera dell’essere (ch’è al di sopra della soglia) in quella dell’esistere (ch’è al di sotto della soglia): ossia nella sfera del tempo e dello spazio, ch’è appunto quella della quantità, e quindi della misura.
“ (…)I tempi mutarono. Il mondo stellare cessò di portare in sé, immediatamente presente, l’attività divino-spirituale. Le stelle vivevano e si muovevano, continuando per forza d’inerzia l’attività che prima era in esse. Il divino-spirituale viveva nel cosmo non più come manifestazione, ma solo ormai come e f f e t t o o p e r a n t e. Era subentrata una dualità distinta tra il divino-spirituale e il cosmico. Michele, in ragione della sua propria entità, rimase unito al divino-spirituale. Egli cercò di trattenere l’uomo quanto possibile vicino al divino-spirituale. In tale intento persistette sempre. Egli voleva preservare l’uomo dal vivere troppo in un mondo che era solo effetto operante del divino-spirituale, non entità e non manifestazione” (pp. 85-86).
Lo abbiamo appena detto: è il decadere della manifestazione (che non porta più “in sé, immediatamente presente, l’attività divino-spirituale”) a generare, nella sfera del tempo, l’effetto operante: cioè il perdurare, “per forza d’inerzia”, dell’attività che era in precedenza nella manifestazione (stellare) dell’Entità divino-spirituale (creatrice).
Abbiamo appunto parlato, commentando la lettera precedente, di una natura “conservatrice” che procede per sola “forza d’inerzia”, di ri-produzione o ripetizione.
Come il mondo, a questo livello, continua dunque a vivere in virtù di leggi (idee) e di forze che gli sono state infuse nel passato, così l’umanità continua a vivere in virtù della tradizione (prima orale e poi scritta), e quindi della memoria o, per essere più precisi, di quel che “resta” della memoria. Spiega infatti Steiner che la memoria, in una prima fase dell’evoluzione, è “esperienza del passato nel presente”, in una seconda, è “ricordo dell’anima del passato nel cosmo”, e soltanto in una terza fase diviene “tradizione” (2) (corsivi nostri).
“ (…) quando l’uomo, dopo aver compiuto la vita tra la morte e una nuova nascita, riprende la via verso una nuova esistenza terrena, nel discendervi, egli [Michele] cerca di stabilire un’armonia fra i moti delle stelle e la sua vita terrena. Anticamente questa armonia si stabiliva da sé, perché il divino-spirituale operava nelle stelle nelle quali aveva la sua sorgente anche la vita umana; ma oggi, quando nel corso delle stelle continua soltanto l’effetto operante del divino-spirituale, quell’armonia non vi sarebbe più se l’uomo non la cercasse. L’uomo mette il suo divino-spirituale, conservato da tempi anteriori, in rapporto con le stelle che hanno in sé il loro divino-spirituale soltanto come effetto di un’epoca passata. Così, nel rapporto dell’uomo col mondo, entra un elemento divino che corrisponde a epoche precedenti ma che appare in tempi successivi. Che così avvenga è opera di Michele. Quest’opera gli dà così profonda soddisfazione che in essa egli ha una parte del suo elemento vitale, della sua energia vitale, della sua solare volontà di vita” (p. 86).
Abbiamo detto che quella di Michele è la “nostalgia del futuro”: ossia la nostalgia di un passato che occorre ritrovare andando avanti, e non indietro (diceva, com’è noto, Verdi: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”; e Berdjaev scrive: “Non si può tornare, nel passato, a ciò che è troppo effimero e troppo corruttibile, ma si può tornare a ciò che, nel passato, è eterno”) (3).
Che cosa vuol dire, infatti, che, “nel rapporto dell’uomo col mondo, entra un elemento divino che corrisponde a epoche precedenti ma che appare in tempi successivi”? Vuol dire che, in grazia dell’opera di Michele, sia la manifestazione (la Vergine-Sophia), sia l’Entità divino-spirituale (il Cristo) entrano nel rapporto dell’uomo con l’effetto operante e con l’ opera compiuta.
Ricordate ciò che disse il Cristo ai giudei? “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, io sono” (Gv 8,58). E cos’è questo, se non appunto l’”elemento divino che corrisponde a epoche precedenti, ma che appare in tempi successivi”?
Per poter “stabilire un’armonia fra i moti delle stelle” (quale effetto operante) e la nostra “vita terrena” (armonia che non si darebbe, sottolinea Steiner, se non la cercassimo), dobbiamo dunque imparare a portare incontro alla nostra passata incoscienza (di morte, di sonno e di sogno), attraverso la nostra presente coscienza (rappresentativa), la nostra futura coscienza (immaginativa, ispirata e intuitiva).
Dobbiamo imparare insomma a servirci del futuro per trasformare, rinnovare e ri-creare il passato (“siamo gli schiavi del passato, – dice Steiner – ma i signori dell’avvenire”) (4).
“Oggi però, se rivolge lo sguardo spirituale alla terra, Michele vede uno stato di fatti ancora essenzialmente differente. L’uomo, durante la sua vita nel fisico tra nascita e morte, è circondato da un mondo che immediatamente non mostra più nemmeno l’effetto operante del divino-spirituale, ma solo qualcosa che è rimasto di quell’effetto operante; si può dire: la sola o p e r a c o m p i u t a del divino-spirituale” (p. 86).
Teniamo presente che, nel Prologo del Vangelo di Giovanni, l’Entità divino-spirituale è il “Verbo” o il Logos, la manifestazione è la “luce”, l’effetto operante è la “vita” e l’opera compiuta è la “tenebra”; nella scienza naturale, invece, la prima è rappresentata dall’elemento cosiddetto “olistico”, la seconda, dalla sfera delle “cause” o delle “leggi”, il terzo, dal campo delle “forze” e, la quarta, dal regno delle “sostanze” (da sub-stāre: “star sotto”) o, se pensiamo alla loro tavola periodica, degli “elementi”.
“Nelle sue forme, tale opera compiuta è assolutamente di natura divino-spirituale. Le forme, i processi naturali, rivelano alla visione umana il divino, ma non lo contengono più vivente. La natura è opera del divino, è divina elaborazione, dovunque è immagine dell’attività divina” (pp. 86-87).
Immaginate di fare una gita ad Ardea e di visitare il museo “Giacomo Manzù”. Ebbene, come tale museo raccoglie le opere di Manzù (1908/1991), così la natura raccoglie le opere di Dio. Nella natura (quale “museo di Dio”) possiamo dunque ammirare il creato o le creature (“Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta” – Gv 1,3), ma non il Creatore.
E dov’è, allora, che possiamo ammirare il Creatore? Lo abbiamo detto: nell’uomo, nell’Io dell’uomo. Chiunque voglia trovarlo, deve pertanto trovare l’Io, giacché l’”Io sono” divino (macrocosmico), da quando si è “fatto carne”, inabita l’Io umano (microcosmico).
“L’uomo – dice appunto Berdjaev – è un microcosmo e un microtheos. Dio è il macroanthropos” (5).
Non dobbiamo più aspettare, dunque, che discenda la manna (il “manas”) dal cielo; dobbiamo piuttosto far sì che risalga la manna dall’uomo: dal profondo, cioè, di ciascuno di noi (dall’Io).
Osserva Steiner (riferendosi alle condizioni sociali): “Molti si sentono oppressi dalle vicende del tempo e disperano della forza di idee creatrici. Essi “attendono” finché le “condizioni” creino una situazione più favorevole. Ma le “condizioni” non creeranno mai altro, se non ciò che sarà stato piantato in esse da idee umane” (6).
“L’uomo vive in questo mondo solarmente divino, ma non divino in modo vivo. E come risultato dell’azione esercitata su di lui da Michele, l’uomo ha conservato il collegamento con l’entità divino-spirituale. Vive come essere compenetrato da Dio in un mondo non compenetrato da Dio” (p.87).
L’uomo “vive come essere compenetrato da Dio in un mondo non compenetrato da Dio”. Quale affermazione potrebbe essere più lapidaria?
Michele ha tuttavia conservato, tramite il pensare vivente o immaginativo (eterico), il collegamento con l’Entità divino-spirituale e con la sua manifestazione.
E’ questa, di fatto, l’ultima chance offerta all’umanità, se non vuole precipitare dalla natura (dall’opera compiuta) nella “sub-natura”: vale a dire, nel mondo sub-astrale, nel sub-Devachan inferiore e nel sub-Devachan superiore (ne riparleremo quando affronteremo l’ultima lettera) (7).
Ascoltate quanto scrive Scaligero: “Sulla linea di una determinazione volitiva, il pensiero che pensa il pensiero riflesso non è riflesso, perché non ha bisogno di essere riflesso per darsi obiettivamente: tuttavia attua, grazie alla dimensione del riflesso, la sua originaria impersonalità, la sua apsichicità. E’ il potere interno del pensiero astratto, che sarebbe dovuto essere realizzato dal fisico-matematico occidentale, se questi avesse avuto consapevolezza di ciò che si svolgeva nella scena della sua coscienza come controparte interiore della sua indagine: ben più importante dell’indagine stessa. Oggi non lo scoprirebbe più, perché gli sono venuti meno i mezzi intuitivi per capirlo: del resto, nel generale pensare umano qualcosa si è sclerotizzato. Quell’elemento disindividuale è trapassato nell’automatismo dialettico, nella medianica impersonalità dello scienziato-tecnologo. Perciò l’impresa di reintegrazione, urgente all’umano, oggi è l’ideale ravvisabile da rari uomini. Per pochissimi l’accennato elemento disindividuale è ancora la possibilità del pensiero-luce che, freddamente e intensamente voluto, desta l’originaria vita della coscienza, con la sua metafisica luce. E’ la chiave ultima, la possibilità elementare, il semplice assoluto del pensiero, di cui ancora si dispone. Perduto anche questo, sarà inevitabile il caos” (8).
“In questo mondo divenuto vuoto di Dio, l’uomo porterà ciò che è in lui, ciò che in quest’epoca è divenuta la sua entità.
L’umanità, evolvendosi, penetrerà in un’evoluzione universale. Il divino-spirituale da cui l’uomo proviene, come entità umana cosmicamente espandentesi, può pervadere di luce il cosmo che oramai esiste solo nell’immagine del divino-spirituale.
Non sarà più la stessa entità che fu una volta come cosmo, quella che sorgerà così per opera dell’umanità. Attraversando il gradino dell’umanità, il divino-spirituale sperimenterà una esistenza che prima non manifestava “ (p. 87).
Il cosiddetto “ottavo” giorno della creazione è dunque il “primo” della ri-creazione dell’uomo, della natura e del cosmo.
“Attraversando il gradino dell’umanità, – dice infatti Steiner – il divino-spirituale sperimenterà una esistenza che prima non manifestava“, e non sarà più, perciò, “la stessa entità che fu una volta come cosmo”.
Sentite ciò che scrive, a questo proposito, Berdjaev: “La mia tematica della creazione era vicina nello spirito all’epoca della rinascita [quella dell’inizio del ‘900], ma era estranea alla maggior parte dei filosofi del tempo. Non si trattava infatti della creazione nell’ambito della cultura, della creatività umana “nelle scienze e nell’arte”, ma di una problematica più profonda, metafisica, quella del proseguimento della creazione del mondo da parte dell’uomo, della risposta dell’uomo a Dio, risposta che può arricchire la stessa vita divina” (9).
Che cosa significa, dunque, che il divino-spirituale “non sarà più la stessa entità che fu una volta come cosmo”? In termini astratti, significa, filosoficamente, che l’Essere diverrà Spirito o, se preferite, che l’originaria Entità incosciente diverrà autocosciente; teologicamente, significa invece che come siamo passati incoscientemente dal Padre al Figlio, e dal Figlio allo Spirito Santo, così ri-passeremo coscientemente dallo Spirito Santo al Figlio, e dal Figlio al Padre (“In verità, vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, e chi accoglie me, riceve colui che mi ha mandato” Gv – 13,20).
“Per mezzo del Cristo Dio-Uomo, – scrive ancora Berdjaev – la natura umana è resa partecipe della Santissima Trinità ed entra nelle profondità della vita divina” (10).
Ascoltate, a questo stesso proposito, i versetti del Calendario dell’anima relativi alla cinquantesima settimana (16/22 marzo), in una traduzione leggermente diversa da quella di Aldo Bargero (11):
Il gioioso divenire dell’esistenza universale,
manifestandosi con potenza
e liberando la forze del suo essere,
dice all’Io dell’uomo:
portando in te la mia vita,
sciolta dal suo incantesimo,
raggiungo la mia vera meta.
“A che l’evoluzione prenda questo corso si oppongono le potenze arimaniche. Esse non vogliono che le originarie potenze divino-spirituali illuminino l’universo nel suo progresso ulteriore; vogliono che tutto il nuovo cosmo sia irradiato dall’intellettualità cosmica che esse stesse hanno assorbita, e che l’uomo continui la sua vita in questo cosmo intellettualizzato ed arimanizzato” (p. 87).
Abbiamo già detto che un cosa è l’intelletto, altra l’intellettualismo (così come una cosa – detto fra noi – è l’antroposofia, altra l’antroposofismo), e che dovremmo imparare a distinguerli (“Nel presentimento della notte, – scrive sempre Berdjaev – bisogna armarsi spiritualmente per la lotta contro il male, aguzzare la capacità di distinguerlo, elaborare una nuova cavalleria”) (12).
L’intellettualismo è una sorta di “elefantiasi” dell’intelletto (un troppo che – come recita l’adagio – “stroppia”) generata dalle potenze arimaniche al fine di surrogare lo sviluppo qualitativo del pensiero ordinario (che lo eleverebbe al grado immaginativo) con il suo mero sviluppo quantitativo.
Vedete, il pensiero intellettuale è vincolato al sensibile, mentre tanto il pensiero immaginativo quanto quello intellettualistico ne sono svincolati; rispetto al pensiero intellettuale, il primo è però un progresso (un consapevole ascendere al sopra-sensibile), mentre il secondo è un regresso (un’inconsapevole discendere al sub-sensibile). Un regresso che mina, nel suo portatore, il sano “buon senso”: l’umano senso, cioè, della realtà materiale (sostituito, magari, da quello della realtà “virtuale”).
“Sono pochi – lamentava già Goethe – quelli che hanno il senso e il gusto del reale” (13); e Steiner spiega: “Essere improntati dall’intellettualismo significa avere un’anima con pensieri sepolti nella Terra, con pensieri, cioè, che le forze interne alla Terra privano degli impulsi celesti” (14).
Un conto, dunque, sono i pensieri terreni o sensibili dell’intelletto, altro quelli sub-terreni o sub-sensibili dell’intellettualismo. “Che cosa sia il “percepire” conoscente – osserva Steiner – può essere sperimentato solo nel conoscere il mondo dei sensi. Se là lo si è sperimentato, lo si può formare anche per il percepire spirituale. Ritraendosi da questo modo di percepire, ci si priva del tutto dell’esperienza percettiva e ci si riporta su un gradino dell’esperienza animica che è meno reale della percezione dei sensi” (15).
Guardate ad esempio i giovani: non passano più tempo a guardare i display che non la natura o il mondo che li circonda? E i cosiddetti “ricercatori”, che immagineremmo intenti a frugare nella realtà, non passano la maggior parte delle loro giornate davanti ai computer? E che dire, poi, di quanti vantano i miracoli dell’intelligenza artificiale o si compiacciono di congetturare un post-umano bio-tech o robotico?
(Ascoltate, al riguardo, questo gustoso racconto del celebre neurofisiologo John Eccles: “Ricordo un episodio durante la grande cerimonia d’inaugurazione dei grandiosi laboratori scientifici della Western Reserve University di Cleveland, nel 1962. Io ero l’ultimo a parlare e mi era stato assegnato un interessante argomento: “La mente: l’espressione finale dello stato vivente”. Nella discussione, presieduta e condotta dal professor Philip Abelson, mi trovai di fronte alla contrapposizione fra l’incredibile futuro delle macchine per l’intelligenza artificiale, e la mia conferenza sulla meraviglia dell’evoluzione cerebrale con la mente. Non si trattava solo di intelligenza artificiale, come nel gioco degli scacchi, ma di una prestazione di tipo cognitivo, creativo, sentimentale, intenzionale e mnestico che, secondo lui, avrebbe oltrepassato di gran lunga le capacità dell’uomo. Nella disperazione di questo scontro lungo e appassionato, alla fine gli gridai: “Sarebbe contento se sua figlia ne sposasse uno?”. I cinquemila studenti scoppiarono a ridere, mentre io non sono mai stato perdonato” [16].)
Per distinguere l’intellettualismo dall’intelletto, occorre naturalmente sviluppare un occhio (“clinico”) capace di cogliere non solo il carattere menzognero del primo, ma anche quelli (dis-umani) del sentire (freddo-secco) e del volere (istintivo) che lo nutrono e sottendono.
Sentite quanto dice appunto John Searle (fautore di un realismo che non ha nulla a che vedere con il “realismo delle idee” di Steiner): “La motivazione profonda per la negazione del realismo non è fornita da un particolare argomento piuttosto che da un altro, ma da una volontà di potenza, da un desiderio di controllo e da un risentimento profondo e consolidato” (17).