“Prendere questa posizione di fronte alla luce di Michele che sta sorgendo nella storia dell’umanità, vuol dire anche poter trovare la giusta via al Cristo. Michele darà il giusto orientamento quando si tratta del mondo che circonda l’uomo, quale campo per la sua conoscenza o la sua azione. La via al Cristo dovrà venir trovata nell’interiorità” (pp. 91-92).
Non so se sapete che tra i vari archetipi di cui parla la psicologia junghiana c’è quello cosiddetto del “Puer aeternus”. Un conto, tuttavia, è il Puer aeternus (quello, ad esempio, ch’è nelle braccia della Madonna Sistina), altro è l’aeternus puer, ch’è figlio di Lucifero.
Non tutti se ne rendono conto, e faticano quindi a capire il perché Steiner affermi (come vedremo) che “Michele è serio in tutto perché la serietà, come manifestazione di un essere, è il riflesso del cosmo attraverso quell’essere”, e che ciò che occorre è un “virile ingresso nel severo mondo dello spirito”.
Dice Steiner: “Prendere questa posizione di fronte alla luce di Michele che sta sorgendo nella storia dell’umanità, vuol dire anche poter trovare la giusta via al Cristo”.
Qual è questa “giusta via”? Lo sappiamo: è quella che dal Battista, in qualità di “precursore”, ossia di ego (“Io sono la voce di colui che grida nel deserto” – Gv 1,23), risale a Michele (alla coscienza immaginativa), che da Michele risale (attraversando la soglia) alla Vergine-Sophia (alla coscienza ispirata), e che dalla Vergine-Sophia risale al Cristo (alla coscienza intuitiva).
Ricordiamo che Lucifero media tra noi e la conoscenza della nostra interiorità, mentre Arimane media tra noi e la conoscenza del mondo esterno. Non vediamo perciò il mondo esterno nella sua verità, ma così come Arimane ci costringe a vederlo; se non fosse per lui, insieme al corpo delle cose vedremmo infatti l’anima e lo spirito delle cose (“In verità, in verità vi dico: voi vedrete il cielo aperto, e gli Angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo” – Gv 1,51).
Siamo chiamati dunque a porre, interiormente, il Cristo al posto di Lucifero e a raccordare o integrare, esteriormente, l’ordinaria mediazione di Arimane con quella immaginativa di Michele. Ho detto “raccordare” o “integrare” perché la mediazione di Arimane non va annullata, bensì limitata alla sfera che le compete, ch’è quella, come abbiamo detto e ripetuto, della realtà inorganica.
Questo raccordare o integrare la mediazione di Arimane con quella di Michele vuol dire ad esempio realizzare (in modo scientifico-spirituale) che la morte nasce dalla vita, e non, come oggi si vorrebbe far credere (in modo scientistico), che la vita nasce dalla morte (che la vita è una proprietà della morte o della materia).
“ (…) La natura deve venire conosciuta e sperimentata, riconoscendo che tutto vi è vuoto di divinità. Perciò, in una relazione simile col mondo, l’uomo non sperimenta più se stesso. In quanto l’uomo è un essere soprasensibile, la posizione del suo sé nei confronti della natura, una posizione adatta ai tempi, non gli dice nulla del suo proprio essere. Se considera soltanto quella posizione, l’uomo non può vivere eticamente in modo adeguato alla sua umanità” (p. 92).
Abbiamo già visto, parlando del libro dei Bastaire, che “la natura deve venire conosciuta e sperimentata, riconoscendo che tutto vi è vuoto di divinità” (vivente), dal momento che quanto conosciamo e sperimentiamo non è che opera compiuta, effetto operante e manifestazione (congelata) del passato.
Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che per trovare una forza in grado di ri-creare a nuovo il passato dobbiamo guardare non alla natura (nella quale vige, come ho già ricordato, il Principio di conservazione dell’energia), ma all’uomo, poiché lo spirito che ha creato un tempo il mondo è ora in lui, ed è da qui che vuole portare avanti la creazione.
Siamo noi, però, a doverglielo permettere divenendo ciò che siamo (degli Io) e cominciando quindi col ri-creare noi stessi.
Fatto sta che come noi guardiamo la natura, così la natura guarda noi, poiché è da noi che attende la propria liberazione o il riscatto del proprio sacrificio. Mai dovremmo perciò dimenticare la grave responsabilità che abbiamo nei confronti di tutti i suoi esseri.
Lasciate che vi legga, a questo proposito, un brano della Lettera ai Romani (8, 19-23), nella traduzione di Emil Bock: “Attorno a noi tutte le creature attendono con grande nostalgia che nell’umanità i figli di Dio inizino a rilucere. La creatura è sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha trascinata con sé in questa caducità, e così tutto in lei è ricolmo di nostalgia del futuro. Anche nei regni della creazione deve passare il respiro della libertà; la schiavitù della caducità deve cessare. Nell’illuminarsi delle sfere dello spirito la schiavitù farà posto alla libertà, alla quale sono destinati tutti gli esseri generati da Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola; ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, che ci porterà la redenzione fino nel nostro corpo” (18).
Dice Steiner: ”Perciò, in una relazione simile con il mondo, l’uomo non sperimenta più se stesso”.
Se è vero (com’è vero) che il Logos vive nell’uomo (nel suo Io), e non più nella natura, è vero allora che l’uomo, conoscendo la natura, conosce il proprio passato, la propria storia o la scia prodotta dal proprio passaggio, ma non se stesso: vale a dire, il proprio presente (inabitato dal proprio futuro).
E’ per questo che “non può vivere eticamente in modo adeguato alla sua umanità”.
Ascoltate quanto dice qui Steiner (siamo nel dicembre del 1919): “Se lasciamo che ancora per tre decenni si continui a insegnare come si fa ora nelle nostre università, che si continui a pensare sulle questioni sociali come si fa attualmente, avremo fra trent’anni un’Europa devastata. Si potranno proporre ideali in questo o quel campo, ci si potrà sgolare a parlare delle singole aspirazioni che vengono dai diversi gruppi di uomini, o a parlare della fede che qualcosa sia fatto per tali pressanti aspirazioni per il futuro dell’umanità; tutto sarà inutile se la trasformazione non avverrà partendo dalle fondamenta delle anime umane, dal pensiero dei nessi esistenti fra questo mondo e quello spirituale. Se non ci si trasformerà, se non si muterà pensiero, verrà il diluvio morale sopra l’Europa” (19).
Ci si conferma dunque, come sempre, che gli orrori della volontà discendono dagli errori del pensiero.
E quale sommo errore commette l’odierna scienza (materialistica)? Quello di voler spiegare l’uomo a partire dalla natura.
Ma com’è possibile spiegare l’uomo, cioè l’essere in cui vive Dio, a partire da una natura in cui non vive Dio?
Fatto sta che gli ostacolatori approfittano della frattura tra la noetica e l’etica per dividersi l’essere umano (divide et impera): Arimane si accaparra infatti la scienza, che naturalizza l’uomo, mentre Lucifero si accaparra la fede, che spiritualizza (come abbiamo visto fare dai Bastaire) la natura.
Sappiamo che l’antroposofia è in grado di saldare questa frattura, ma sappiamo pure che proprio per questo è invisa tanto alla cosiddetta “comunità scientifica” quanto alla Chiesa cattolica (ma non solo a questa): alla prima, perché è spirituale; alla seconda, perché è scientifica.
Dovremmo cominciare dunque a saldare tale frattura (ch’è quella tra il pensare e il volere), rivolgendoci a Michele, giacché il suo impulso immaginativo è insieme conoscitivo e artistico.
Non nel senso, badate, che Michele da un lato conosca e dall’altro magari balli, dipinga, suoni o si dedichi ad altre “attività artistiche”, ma nel senso che Michele impegna nell’attività conoscitiva le stesse forze che vengono abitualmente impegnate in tali attività.
Teniamo conto, infatti, che anche quella del pensare vivente è un’”attività artistica” capace di suscitare non meno entusiasmo di quello che in genere suscita, che so, la nona sinfonia di Beethoven o il “Va’, pensiero” di Verdi.
Rileggiamo queste parole di Steiner: “Ho conosciuto molte persone che hanno messo subito da parte proprio quell’opera di Hegel [l’Enciclopedia delle scienze filosofiche], dopo averne letto due o tre pagine. Però una cosa non si è disposti ad ammettere facilmente: che potrebbe essere colpa nostra, se quei pensieri ci lasciano freddi, se non suscitano in noi conflitti di portata vitale, capaci di sollevarci dagli abissi al cielo. Non si ammette volentieri che potrebbe dipendere da noi! Esiste infatti la possibilità di partecipare appassionatamente a quello che la gente chiama le “astrazioni” di quei tre filosofi [Fichte, Schelling ed Hegel], di sentirvi non soltanto del calore, ma addirittura l’intero trapasso dal massimo gelo al calore vitale più ardente. Si può arrivare a sentire che quelle pagine non sono scritte solo con pensieri astratti, ma direttamente col sangue” (20).
“Ciò dà l’occasione di non far penetrare quella conoscenza e quella maniera di vita in nessuna cosa relativa all’entità soprasensibile dell’uomo e, in genere, al mondo soprasensibile. Questo campo, viene separato da quello accessibile alla conoscenza umana. Di fronte al conoscibile si stabilisce un campo extrascientifico, o al di là della scienza, di rivelazioni religiose.
Ma di fronte a ciò sta l’attività puramente spirituale del Cristo. Il Cristo, dal mistero del Golgota in poi, è raggiungibile per l’anima umana. E non occorre che i rapporti dell’anima col Cristo rimangano indeterminati e oscuri sentimenti mistici; possono divenire esperienza umana pienamente concreta, chiara e profonda” (p. 92).
Ho letto da poco un libro che non è male. E’ del matematico Giorgio Israel e s’intitola: Chi sono i nemici della scienza? (21).
Vi si sostiene che la scienza non è un metodo, in quanto la scienza è una, mentre i metodi sono tanti quanti sono i campi d’indagine. D’accordo, ma se la scienza non è un metodo, che cos’è allora?
Israel fa della giusta e garbata ironia sul “metodologismo” (sull’odierna mania del metodo), ma non arriva ad affermare, chiaro e tondo, che la scienza è spirito: quello spirito che, animando il ricercatore, gli suggerisce appunto il metodo che il suo campo d’indagine richiede.
Allorché Freud, tanto per dirne una, decise di affrontare il fenomeno della psiche inconscia, trovò che il metodo richiesto da tale campo d’indagine era costituito dalle cosiddette “libere associazioni” e dalla interpretazione dei sogni; se avesse deciso di affrontare qualche altro fenomeno, avrebbe sicuramente adottato un metodo diverso.
Ma qual è il problema? E’ che, per tutti noi (coscienti o incoscienti nominalisti), lo spirito scientifico è solo una “parola”, ossia “roba – come si usa dire a Roma – che non se magna”.
Sia in questo libro di Israel, sia in quello di Sermonti, si polemizza dunque con la scienza attuale, ma non ci si rende conto che il solo torto di questa sta nel fatto di voler studiare le realtà della vita, dell’anima e dello spirito con lo stesso pensare e con gli stessi metodi con i quali è abituata ad affrontare, con indubbio successo, la realtà meccanica o inorganica del mondo: ossia con un pensare e con dei metodi che possono servire a spiegare il cadavere dell’uomo, ma non il suo essere.
Se si vuole evitare un tale riduzionismo (“Dovunque sarà il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi” – Mt, 24,28), evitando al tempo stesso che la conoscenza della vita, dell’anima e dello spirito rimanga monopolio delle dottrine religiose, è necessario allora che la scienza sviluppi e adotti nuovi livelli di pensiero e nuovi metodi.
A che ciò si verifichi si oppongono però i rappresentanti di tali dottrine, che lanciano anatemi contro qualsiasi presunta o vera forma di “gnosticismo”.
Ignorano, purtroppo, che simili anatemi vengono lanciati, di fatto, contro lo Spirito Santo: contro quello “Spirito di Verità” del quale la scienza, quando è vera, costituisce appunto il veicolo (“Non c’è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce” – Mc 4,22).
Domanda: Ma la scienza è veicolo di Michele o dello Spirito Santo?
Risposta: E’ veicolo di Michele sul piano eterico del pensare; è veicolo della Vergine-Sophia sul piano astrale della coscienza; ed è veicolo dello Spirito Santo sul piano dell’Io.
Ogni volta che si pecca contro il conoscere si pecca, essenzialmente, contro lo Spirito Santo, e quindi contro quello spirito che solo potrebbe permetterci, come titola un ciclo di conferenze di Steiner, di “ritrovare il Cristo” (22).
Vedi, nel Pater Noster formulato da Steiner a un certo punto è detto: “Poiché in te, o Padre santo, non esiste tentazione alcuna”. Sai che cosa significa? Significa che Dio è la Realtà e che la Realtà è Dio (mentre gli ostacolatori, come recita poco dopo la stessa preghiera, sono “illusione” e “inganno”).
Se potessimo conoscere e vedere il reale, conosceremmo e vedremmo dunque Dio: “Beati i puri di cuore – dice infatti il Vangelo – perché vedranno Dio” (Mt 5,8).
E chi sono i “puri di cuore”? Appunto quelli che, in grazia di Michele, della Vergine-Sophia e dello Spirito Santo, si sono conquistati l’intelletto d’amore o il pensiero del (sacro) cuore.
Dice Steiner che “il Cristo, dal mistero del Golgota in poi, è raggiungibile per l’anima umana”.
L’anima umana può raggiungere il Cristo, perché il Cristo, facendosi “carne”, ha raggiunto l’anima umana.
“E non occorre – prosegue – che i rapporti dell’anima col Cristo rimangano indeterminati e oscuri sentimenti mistici; possono divenire esperienza umana pienamente concreta, chiara e profonda”.
Grazie all’antroposofia, possiamo infatti andare incontro alle realtà della vita, dell’anima, dello spirito e del Cristo con la stessa lucidità e sicurezza con le quali la scienza ordinaria va incontro alla realtà inorganica (dice Paolo: “Tutto quello che non deriva da ferma convinzione è peccato” – Rm 14,23).
“In tal caso, da questo vivere in unione col Cristo, fluisce nell’anima umana ciò che essa deve sapere sulla sua entità soprasensibile. Allora, nella rivelazione religiosa si deve sentir continuamente fluire la vivente esperienza del Cristo. La vita potrà venir cristianizzata dal sentire nel Cristo l’essere che dà all’anima umana la veggenza della propria natura soprasensibile” (p. 92).
Sapete che Steiner chiama il Cristo il “Rappresentante dell’umanità”, e Florenskij la “Santa Entelechia dell’umanità”.
Fatto si è che se ciascuno di noi (ciascun Io) è, come afferma Steiner in Teosofia, “una specie a sé”, il Cristo è allora il “genere umano”: cioè a dire l’Essere in cui sono tutte le specie (tutte le “essenze”).
Steiner, infatti, suggerirà (tra non molto) questo pensiero: “Cristo mi dà la mia essenza umana”. Il che implica che chi non trova il Cristo non trova l’umano, e quindi il proprio vero essere.
Già Michele, comunque, comincia a dare “all’anima umana la veggenza della propria natura soprasensibile”, riportando non solo, come abbiamo detto, all’interno dell’esperienza conoscitiva (del pensare) quella artistica (del sentire), ma anche quella religiosa (del volere). Quest’ultima prende infatti a ri-vivere nella sfera immaginativa, per poi intensificarsi e approfondirsi nella sfera ispirata della Vergine-Sophia, che è in comunione con quella intuitiva del Cristo.
Ascoltate quanto scrive Scaligero: “Ogniqualvolta l’uomo veramente pensa, il Logos ravviva la forza-pensiero nell’anima e desta in essa la beatitudine della donazione di sé: opera mediante una segreta grazia, che è la Vergine. Il Christo già ha in sé la Vergine. Se l’uomo ha il Christo, ha la Vergine. Se ha la Vergine, ha il Christo: non sono separabili” (23).
Lasciate che vi legga, al riguardo, questi versi di Goethe (da Dedica) (24):
“Ed ecco che, trasportata da nuvole,
vidi librarsi una donna divina.
Immagine più bella mai m’apparve!
Sempre librata, si fermò a guardarmi.
Non mi conosci? Chiese la sua bocca
con l’accento più fido e più amorevole.
Non riconosci chi nelle ferite
della vita ti versò puro balsamo?
Sì, mi conosci, a me il tuo cuore ardente
si legò sempre più, con patto eterno:
non ti vidi, ragazzo, a me anelare
col più sofferto struggersi del cuore?
Sì, esclamai felice, prosternandomi
a lei, tu sei un antico sentimento.
Tu acquetasti le mie giovani membra
in preda alla passione furibonda;
nei giorni torridi, con penne celesti
soave rinfrescasti la mia fronte
m’hai dato i più bei doni della terra;
voglio che sia tu sola a darmi gioia.
Non pronuncio il tuo nome. Ho inteso molti
chiamarti spesso, e ognuno ti dice sua,
ogni occhio crede di mirarti, e tutti
restano vulnerati dal tuo raggio.
Quando sbagliavo eravamo in parecchi
da quando ti conobbi sono solo;
non ho con chi spartire questo bene,
schermo, nascondo in me il tuo dolce lume”.
“Potranno così stare l’una accanto all’altra l’esperienza di Michele e l’esperienza del Cristo. Per mezzo di Michele l’uomo troverà nel giusto modo la via al soprasensibile di fronte alla natura esteriore. La concezione della natura, senza venir falsificata in sé stessa, potrà collocarsi accanto ad una concezione spirituale del mondo e dell’uomo, in quanto essere cosmico” (p.93).
Dice Steiner che “per mezzo di Michele l’uomo troverà nel giusto modo la via al soprasensibile di fronte alla natura esteriore”.
Pensate, per fare un solo esempio, al cervello (ch’è “natura esteriore”), e sentite quel che dichiara Giulio Giorello: “Per me la mente non è una sostanza, è un processo. Anzi, chiamo mente l’insieme di quei processi che, come conquista direi preliminare, portano all’individuazione e allo studio di invarianti. Sotto questo profilo la mente non è altro che l’attività del cervello che è in grado di costruire mappe e modelli dell’ambiente circostante” (25).
Che dire, però, se si scoprisse che tale attività è svolta nel cervello, ma non dal cervello?
Potremmo addirittura affermare che nella differenza tra “nel cervello” e “dal cervello” sta tutta la differenza tra l’impulso (anagogico) di Michele e quello (catagogico) di Arimane.
Entrambi distinguono, infatti, la sostanza dall’attività (dal “processo”), ma Michele si serve dell’attività (eterica) per aprire l’orizzonte verso l’animico-spirituale (che è al di là della soglia), mentre Arimane lo chiude, riportando l’attività (eterica) alla sostanza (fisica): costringendoci cioè a pensarla come una sua proprietà.
Come vedete, “per mezzo di Michele”, si trova “nel giusto modo la via al soprasensibile di fronte alla natura esteriore”, mentre, per mezzo di Arimane”, “la concezione della natura” viene “falsificata in sé stessa” (“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci” – Mt 23,13).