Cominciamo subito a leggere questa nuova lettera, intitolata: La libertà dell’uomo e l’epoca di Michele (22 febbraio 1925).
“Nella facoltà umana della memoria vive l’immagine personale di una forza cosmica che lavorò attorno all’entità umana nel modo descritto nelle nostre ultime considerazioni. Questa forza cosmica è peraltro attiva ancora nel presente. Sullo sfondo della vita umana essa agisce come forza di crescenza, come impulso vivificatore. Ivi agisce per la sua massima parte. Soltanto una parte minima di essa si separa e penetra come attività nell’anima cosciente. Qui opera come forza della memoria” (p. 187).
Abbiamo già parlato della memoria (lettera 27 luglio 1924), ma sarà bene riparlarne, per cercare di capire meglio questa lettera.
Provate a ripensare a una persona che avete incontrato ieri. In che cosa consiste il vostro “ripensarla”? Innanzitutto nel “rivederla”: nell’averla, cioè, quale immagine mnemonica, dopo averla avuta, ieri (di fronte a voi), quale immagine percettiva.
Che cosa è dunque cambiato? Che l’immagine della persona cui avete ripensato è divenuta, da tridimensionale, bidimensionale: ossia, mera immagine.
Non è però – e questo è il punto – che per poterla avere così, abbiate dovuto estrarla da una sorta di archivio in cui siano raccolte e custodite le immagini mnemoniche. Un tale archivio non esiste, e proprio per questo non si è riusciti finora a scoprirlo.
Sentite che cosa scrive Boncinelli: “Purtroppo dal punto di vista scientifico c’è ben poco da dire sulla natura e le proprietà di questa facoltà [della memoria]: alcune distinzioni, una mole di aneddoti, un paio di meccanismi abbastanza ben studiati e niente più” (1).
Fatto si è che quando ricordiamo, quando cioè riportiamo il passato al presente, non ripeschiamo le vecchie immagini, bensì ne creiamo ogni volta di nuove.
Ricorderete, infatti, che distinguemmo il “ricordo in sé” (che appartiene al passato) dalla “immagine del ricordo in sé” (che appartiene al presente), spiegando che il “ricordo in sé” è un’essenza (un percetto-concetto) che non ha forma, e che la riveste soltanto nel momento in cui, riportandolo alla coscienza, lo trasformiamo in immagine.
Steiner, al riguardo, fa l’esempio dello specchio: ci mettiamo di fronte a uno specchio, e vediamo la nostra immagine; ci spostiamo, e non la vediamo più; ci torniamo davanti, e la rivediamo. Quella che rivediamo non è però l’immagine precedente, conservata (non si sa dove) dallo specchio, bensì un’immagine nuova (ri-creata).
Ascoltate, inoltre, quanto dice qui: “Nel cervello abbiamo due parti ben distinte: quella più esterna, la massa grigia [la corteccia], e sotto di essa la massa bianca. Quest’ultima penetra negli organi sensori ed è assai più sviluppata dell’altra. Ben inteso, i termini bianca e grigia sono solo approssimativi. Ma anche a un grossolano esame anatomico, le cose si presentano così: gli oggetti fanno un’impressione sopra di noi attraverso l’occhio e i processi entro la massa bianca del cervello. Organo delle rappresentazioni è invece la massa grigia che ha struttura cellulare completamente diversa (…) In un dato momento vedo una cosa, l’impressione penetra in me attraverso la massa cerebrale bianca. A questo punto la massa grigia entra a sua volta in azione sognando le impressioni, creando delle immagini. Tali immagini scompaiono. Quel che rimane non diviene rappresentazione nello stesso momento, ma discende in noi, nella nostra organizzazione [eterica], e quando ricordiamo, guardiamo in noi là ove l’impressione [il “ricordo in sé” ] è rimasta” (2).
Domanda: Si potrebbe dire che le immagini fanno rivivere i ricordi?
Risposta: A dire il vero, li fanno ri-morire, e non ri-vivere. I “ricordi in sé” sono infatti incoscienti, ma vivi, mentre le immagini mnemoniche sono coscienti, ma morte. I “ricordi in sé” vivono nella sfera (eterica) del sonno; alcuni riusciamo a “risvegliarli”, portandoli a coscienza, altri no. Questi ci appariranno subito dopo la morte, permettendoci così di realizzare che erano in noi (dormienti) anche durante la vita.
Che cos’è dunque a permetterci di dare forma al “ricordo in sé”? E’ presto detto: la forza plastica (plasmatrice) dell’immaginazione.
Vedete, sappiamo di dover sviluppare la coscienza immaginativa, ma non sappiamo di esercitare, già nella vita ordinaria, l’immaginazione: è grazie a questa, infatti, che disponiamo, allo stato normale di veglia, delle immagini percettive (legate al presente), delle immagini mnemoniche e delle rappresentazioni (legate, in misura diversa, al passato).
Ignorando che tali immagini sono frutto di una nostra attività, finiamo così col credere (da realisti ingenui) che si tratti di passive ri-produzioni, e non di attive produzioni.
Di norma, si crede infatti che le immagini percettive siano “cose” (in quanto si reificano inconsciamente le “immagini delle cose”), che le rappresentazioni siano ri-produzioni delle “cose”, e che le immagini mnemoniche siano ri-produzioni delle rappresentazioni.
Si crede, insomma, che le cose, agendo su di noi, lascino in noi un’impronta, e che questa impronta sia la nostra immagine o rappresentazione delle cose.
Già Kant si era accorto, però, che le cose non stanno così, dal momento che, sia le rappresentazioni, sia le immagini percettive sono frutto delle nostre re-azioni agli stimoli delle cose, e quindi nostre creazioni. Già si era accorto, in breve, che tutto ciò che crediamo (ingenuamente) di vedere con gli occhi lo immaginiamo, in realtà, con lo spirito.
Steiner, infatti, non solo afferma che la rappresentazione “è una risposta che proviene dall’interiorità” (3), e che “la percezione [l’immagine percettiva] è una rappresentazione trasportata [proiettata] nel mondo esterno” (4), ma precisa pure (come abbiamo visto) che sotto la “coltre dei sensi” sono celati gli Spiriti della forma, del movimento e della saggezza (ossia gli Spiriti della seconda Gerarchia), mentre al di qua del mondo sensibile, tra noi e le impressioni dei sensi, si trovano gli Angeli, gli Arcangeli e le Archài (ossia gli Spiriti della terza Gerarchia) (5).
Dice Steiner: “Nella facoltà umana della memoria vive l’’immagine personale di una forza cosmica che lavorò attorno all’entità umana nel modo descritto nelle nostre ultime considerazioni. Questa forza cosmica è peraltro attiva ancora nel presente. Sullo sfondo della vita umana essa agisce come forza di crescenza, come impulso vivificatore”.
(Vi consiglio di leggere, al riguardo: La luce. Introduzione all’immaginazione creatrice, di Scaligero [6].)
Sappiamo ch’è il corpo eterico, in quanto corpo delle “forze plasmatrici”, a creare le forme fisiche (corporee), ma sappiamo pure che, nel corso della crescita, una parte di tali forze viene distratta e messa al servizio della coscienza (per creare le forme immaginative).
Dice appunto Steiner: “Ivi agisce per la sua massima parte. Soltanto una parte minima di essa si separa e penetra come attività nell’anima cosciente. Qui opera come forza della memoria”.
Tra la memoria (personale) e l’immaginazione c’è dunque un intimo e profondo legame.
“Bisogna vedere nella giusta luce la forza della memoria. Quando l’uomo, nell’epoca attuale del divenire cosmico, percepisce con i sensi, tale percepire è un momentaneo risplendere nella coscienza di immagini universali. Il risplendere avviene quando il senso è rivolto al mondo esterno; esso illumina la coscienza; sparisce quando il senso non si rivolge più al mondo esterno. Ciò che così si accende nell’anima umana non può avere durata, perché se l’uomo non lo eliminasse in tempo dalla sua coscienza, egli smarrirebbe se stesso nel contenuto della coscienza. Non sarebbe più se stesso (…) Questo contenuto della coscienza non può neppure irrigidirsi ad “essere”; deve rimanere immagine. Può altrettanto poco diventare reale, quanto non può diventare reale l’immagine nello specchio.
Nel darsi a cosa che si estrinsecasse nella coscienza come realtà, l’uomo perderebbe altrettanto se stesso, quanto nel darsi a cosa che avesse durata di per sé. Anche in questo caso egli non potrebbe più essere se stesso” (pp. 187-188).
Immaginiamo di percepire una qualche realtà del mondo esterno. Che cosa succede? Succede, dice Steiner, che subito dopo averla percepita dobbiamo eliminarla, perché se tale esperienza acquisisse durata, noi finiremmo con l’essere quella realtà e quella realtà finirebbe con l’essere noi.
Quando ci occupammo de La filosofia della libertà, dissi, a questo proposito, che quando conosciamo in noi l’oggetto, l’oggetto si conosce in noi, giacché questo è una manifestazione dell’essere, e noi pure siamo una manifestazione dell’essere.
(L’identità – scrive Guido De Ruggiero, parlando di Fichte – “è quella che si rivela nell’autocoscienza, dove noi e gli oggetti ci riconosciamo come elementi di un’unità spirituale, e dalla reciproca antitesi svolgiamo i momenti della nostra vita con quelli della vita del mondo” [7].)
Se questa esperienza (dell’identità) perdurasse, finiremmo quindi con l’identificarci con l’oggetto, perdendo così la coscienza dell’Io (in tanto infatti l’ego sa di sé, in quanto non solo non s’identifica con l’oggetto, ma lo sperimenta addirittura come un non-ego).
Come evitare dunque questo rischio? Mobilitando, subito dopo la forza della simpatia, che ci ha permesso di accogliere l’oggetto (e di sperimentare un “momentaneo risplendere nella coscienza di immagini universali”), la forza dell’antipatia, che ne respinge o rimuove l’essenza (viva) in quella sfera eterica del sonno ch’è per l’appunto la sfera incosciente dei “ricordi in sé”.
Sono questi “ricordi in sé”, respinti o rimossi, che riportiamo poi alla coscienza nella forma delle immagini mnemoniche: ossia in una forma che, in quanto non-essere, in quanto non più essere (essenza), non mette a repentaglio la nostra coscienza dell’Io (quale ego).
(Ricordiamolo: le immagini percettive sono tridimensionali; le immagini oniriche, le immagini mnemoniche e le rappresentazioni, sono bidimensionali; i “ricordi in sé”, al pari dei percetti-concetti, sono unidimensionali; l’Io è adimensionale.)
Vedete, non sbaglieremmo granché se paragonassimo l’attuale essere umano a un bonsai, non dal punto di vista fisico, s’intende, ma da quello animico-spirituale.
Immaginate, ad esempio, una quercia-bonsai. E’ certo che, se potessimo parlarle, ci sarebbe difficile farle credere non solo che fosse destinata a essere diversa, ma anche che, partendo dal suo attuale stato, potrebbe tornare ad essere come il Creatore l’aveva ideata.
Ciò vale, in qualche modo, anche per noi: proprio della nostra memoria, ad esempio (che ha cominciato a svilupparsi nell’ultimo periodo dell’epoca lemurica), potremmo dire che si è “miniaturizzata”.
I primi Atlanti, al contrario (che cominciarono a sviluppare il linguaggio), godevano di “una memoria sviluppatissima che era una delle loro facoltà spirituali più spiccate”, mentre la nostra ci concede tutt’al più di risalire al nostro terzo o secondo anno di vita (al momento in cui abbiamo cominciato a dire “io” a noi stessi). Sappiamo, è vero, di aver vissuto anche prima, di aver sperimentato la nascita, e di essere stati per circa nove mesi nel grembo materno, ma di tutto questo non ricordiamo nulla.
Perché? Perché, spiega Steiner, “ogni qualvolta in un essere si sviluppa una nuova facoltà, un’altra perde di forza e d’acutezza (…) Oggi gli uomini pensano per concetti; gli Atlanti pensavano per immagini”: vale a dire, non riflettevano, ricordavano (8).
Vedete? La “miniaturizzazione” della memoria consegue alla “miniaturizzazione” dell’immaginazione, così come questa consegue, a sua volta, all’immergersi del corpo eterico nel corpo fisico.
Dal momento che la memoria consiste nell’immaginare il passato, è inevitabile che, al depotenziarsi dell’immaginazione, consegua quel depotenziarsi della memoria che c’impedisce, come ben sappiamo, di ricordare la nostra vita prenatale e le nostre precedenti vite terrene.
“La percezione del mondo esteriore per mezzo dei sensi è così un interiore dipingere dell’anima umana. Un dipingere senza materiali. Un dipingere nel divenire e nello svanire dello spirito. Come in natura l’arcobaleno sorge e svanisce senza lasciar traccia, così la percezione sorge e svanisce senza che essa, per sua propria natura, lasci dietro di sé alcun ricordo” (p. 188).
Questo “interiore dipingere dell’anima umana” è l’immaginare o il creare dell’Io e del corpo astrale.
L’Io e il corpo astrale incontrano la realtà, ma di questo incontro, se non intervenisse il corpo eterico, non rimarrebbe traccia. Quanto appreso momentaneamente dall’Io e dal corpo astrale, per potersi fissare nella memoria, deve perciò penetrare nel corpo eterico.
A tal fine, è talvolta necessario ricorrere all’iterazione. Quando dobbiamo imparare qualcosa “a memoria”, non passiamo infatti ore e ore a ripeterla?
Tutte le volte in cui l’esperienza percettiva (legata all’hic et nunc) lascia in noi una traccia (un “ricordo in sé”), vuol dire dunque che ha varcato la soglia che divide l’Io e il corpo astrale dal corpo eterico.
“Ma contemporaneo ad ogni percezione si svolge un altro processo fra l’anima umana e il mondo esteriore; un processo riposto in parti più recondite della vita animica, là dove operano le forze della crescita, gli impulsi della vita. In questa parte della vita animica, nel percepire si imprime non solo un’immagine passeggera, ma una riproduzione reale e duratura. Questa l’uomo può sopportarla, poiché si ricollega con l’essere dell’uomo quale contenuto universale. Nel compiersi di questo fatto, egli non può smarrire se stesso, come non si smarrisce quando cresce e si alimenta, senza averne piena coscienza.
Quando dunque l’uomo trae dalla sua interiorità i propri ricordi, abbiamo una percezione interiore di quanto è rimasto nel secondo processo che si svolge nella percezione esteriore” (p. 188).
Contemporaneo al processo mediante il quale l’Io e il corpo astrale percepiscono la realtà esterna, “in parti più recondite della vita animica”, cioè nel corpo eterico (“là dove operano le forze della crescita, gli impulsi della vita”), si svolge un secondo processo che “imprime non solo un’immagine passeggera [la cosciente immagine percettiva], ma una riproduzione reale e duratura” (l’incosciente “ricordo in sé”).
E’ proprio la natura inconscia e impersonale di questo secondo processo a far sì che l’uomo non smarrisca se stesso, “come non si smarrisce quando cresce e si alimenta, senza averne piena coscienza”.
Rileggiamo, a questo punto, ciò che si dice non del ricordo, ma della forza del ricordo (del “ricordare”) nella “Preghiera per i defunti”:
Alle origini era la forza del ricordo,
La forza del ricordo deve diventare divina,
Un essere divino.
Tale sarà la forza del ricordo.
Tutto ciò che nasce dall’Io
Deve diventare tale da generarsi con il ricordo
Trasformato dal Cristo, trasfigurato da Dio.
In Lui la luce splendente e levantesi
Dal pensiero che si ricorda
Illuminerà la tenebra del presente.
Le tenebre di oggi possano afferrare la luce
Del ricordo diventato divino!