Massime antroposofiche
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M

Salvo il fatto che l’uomo riempie la sua organizzazione sensoria col suo essere spirituale-animico, questa organizzazione è mondo esteriore come lo è il mondo vegetale che si apre di fronte all’uomo. In ultima analisi l’occhio appartiene al mondo e non all’uomo, come la rosa che l’uomo percepisce non appartiene a lui, ma al mondo.
Nell’epoca testé attraversata dall’uomo nell’evoluzione cosmica, sorsero degli studiosi che dissero: il colore, il suono, le impressioni di calore, non sono veramente nel mondo
[non sono oggettive] , ma nell’uomo. Il “colore rosso” – essi dicono – non esiste là fuori nel mondo circostante, ma è soltanto l’effetto prodotto sull’uomo da qualcosa di sconosciuto. La verità è invece precisamente il contrario di questa concezione. Non è il colore che appartiene all’essere umano assieme con l’occhio, ma è l’occhio che insieme col colore appartiene al mondo” (p. 203).

Ho già detto, una sera, che quella operata dall’ego è una sorta di “appropriazione indebita”. Anziché dire, ad esempio: “L’occhio è mondo”, l’ego dice infatti: “L’occhio è mio, così come miei sono i colori che vedo”.
Ricordate queste parole di Boncinelli (lettera 12 ottobre 1924)? “In natura l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione”.
Ma non è così. Mondo è l’occhio e mondo è il giallo paglierino, ed è proprio per questo che il primo è in grado di percepire il secondo (similia similibus).
Lasciatemi fare, in proposito, una considerazione di carattere psicologico.
Sapete per quale essenziale ragione siamo sempre inquieti e insoddisfatti? Perché, non dando al mondo quel ch’è del mondo e all’Io quel ch’è dell’Io, siamo diventati psichicamente obesi e costipati: tanto obesi e costipati, ossia pieni di noi stessi, che corriamo il rischio, continuando a gonfiare la soggettività e a sgonfiare l’oggettività, di deflagrare: di fare cioè la stessa fine della rana della celebre favola di Fedro.
Freud distingueva la “libido narcisistica” (auto-referenziale), che si consuma all’interno del soggetto (che “se la canta e se la suona”), dalla “libido oggettuale” (etero-referenziale), che invece ne fuoriesce per andare verso l’oggetto. Ma potrebbe andare verso l’oggetto, se questo non esistesse (come l’odore di violette, l’accordo in Do o il giallo paglierino di Boncinelli), oppure esistesse, ma non fosse raggiungibile (come la “cosa in sé” di Kant)?
“Chi mi rimanda a me stesso – ha detto Clemens Brentano (1778-1842) – mi uccide”. Non aveva torto, giacché l’anima può guarire solo se, restituendo al mondo quel ch’è del mondo e all’Io quel ch’è dell’Io (la verità), cessa di pascersi, quale psiche, di se stessa (delle proprie opinioni e fantasie).
(Provate ad esempio ad affermare che gli uomini hanno due gambe e due piedi, e vedrete che qualche campione dell’odierno intellettualismo, sganciato, come abbiamo detto, sia dalla realtà morta della coscienza intellettuale, sia dalla realtà viva di quella immaginativa, e quindi in preda all’astrazione, non esiterà a replicare che la vostra affermazione è frutto di una concezione “bipedista” dell’essere umano. Come non ricordare dunque quegli uomini che “si sono perduti – come dice Paolo (Rm1 1,21-22) – nelle loro vane elucubrazioni […] Sicché mentre si vantavano di essere sapienti, diventarono stolti”?)
“Poiché le decisioni riguardanti la verità – afferma appunto Steiner – non dimorano in noi, la verità ci costringe a reprimere in noi la vita delle brame (…) Di conseguenza tendere alla verità è in definitiva ciò che più di ogni altra cosa trattiene nella giusta misura il sentimento di noi stessi (…) L’anelito alla verità ci rende sempre più umili” (8).
(“Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”. “Come questa tazza”, disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?” [9].)
Teniamo ben presente che i pensieri si trasformano prima o poi in sentimenti, e che solo con questa trasformazione cominciamo davvero a cambiare.
Meditando, ad esempio: “Non è il colore che appartiene all’essere umano assieme con l’occhio, ma è l’occhio che insieme col colore appartiene al mondo”, possiamo arrivare a sentire che il colore e l’occhio (come il profumo e il naso o il suono e l’orecchio) rivelano le qualità del mondo, e non di noi stessi.
Si dice: “Senza l’occhio non ci sarebbe la luce”. E’ vero, ma non meno è vero che senza la luce non ci sarebbe l’occhio.
Dice infatti Goethe: “L’occhio è creato dalla luce per la luce”.

Durante la sua esistenza terrena l’uomo non accoglie in sé il mondo circostante terrestre, ma fra la nascita e la morte egli si inoltra in quel mondo esteriore.
È un fatto notevole che sul finire dell’“era oscura”, in cui l’uomo figge lo sguardo nel mondo senza sperimentare la luce dello spirito, neppure come un presentimento, la verità sulla relazione dell’uomo col mondo circostante diventi addirittura il contrario del vero
” (pp. 203-204).

Che sul finire dell’era oscura “la verità sulla relazione dell’uomo col mondo circostante diventi addirittura il contrario del vero” non ci stupisce, giacché sappiamo che il regno del diavolo non è che il rovescio del regno di Dio, per cui ciò che in questo è primo in quello è ultimo, e viceversa.

Se chi conosce immaginativamente si è spogliato del mondo circostante nel quale vive con la sua organizzazione sensoria, nello sperimentare si presenta un’organizzazione dalla quale il pensiero è portato, così come la percezione sensoria di immagini è portata dall’organizzazione dei sensi” (p. 204).

A un certo punto del nostro cammino, si sente (tanto più oggi) un vitale bisogno del “bello” (“Il bello è il trasparire dello spirituale attraverso la forma esteriore”) (10). La scienza dello spirito, spiega infatti Steiner, parte dalla scienza (dal pensare) e arriva, attraverso l’arte (il sentire), alla religione (al volere).
Giorni fa, riascoltando il Lohengrin, ho ancora una volta sperimentato la benedetta potenza della vera arte, di quella bellezza (“filocalia”) che, come dice Dostoevskij, “salverà il mondo”.
Lohengrin, figlio di Parsifal, è l’inviato del Graal. Ebbene, tutto ciò che, grazie allo studio, custodiamo devotamente nel pensiero, viene espresso da quest’opera con una forza (morale, più che estetica) che commuove, consola e allevia il dolore dell’anima.
Prima di poter “sentire questo sentire”, bisogna però pensare il pensare o, per meglio dire, percepire il pensare.
Di norma, infatti, percepiamo l’oggetto al quale pensiamo, ma non il pensare con il quale lo pensiamo. Per percepire quest’ultimo, dobbiamo far ricorso all’esercizio della concentrazione, e porci, per ciò stesso, in una condizione extra-ordinaria.
Scrive appunto Steiner: chi cerca “d’afferrare il pensare attraverso un semplice processo di osservazione, come fa per altri oggetti del mondo (…) non potrà mai afferrarlo, perché, come ho dimostrato, il pensare si sottrae propriamente all’osservazione normale. Chi non può superare il materialismo manca della facoltà di collocarsi in quello stato di eccezione sopra descritto, per cui egli diviene cosciente di ciò che rimane incosciente in ogni altra attività dello spirito” (nel sentire e nel volere) (11).
Solo sperimentandolo è possibile scoprire che il pensare è una realtà in movimento, un’attività o una forza: ch’è cioè un verbo, e non (come i pensati o le rappresentazioni) un sostantivo.
Mi disse una volta Scaligero: “Quando pensiamo, dovremmo arrivare a sperimentarci nello stesso modo in cui ci sperimentiamo quando ci muoviamo”.
Quando afferriamo, allungando un braccio, una cosa, siamo infatti coscienti di averlo fatto grazie a un nostro movimento (fisico), mentre quando afferriamo, pensando, un’idea o un concetto, non siamo coscienti di averlo fatto grazie a un nostro movimento (eterico).
E’ di questo, dunque, che dobbiamo prendere anzitutto coscienza. Solo così potremo scoprire, al di là o al di sopra dell’organizzazione fisica, l’organizzazione eterica (quale portatrice appunto del pensare).

Allora l’uomo sa di trovarsi collegato, mediante questa organizzazione del pensiero, col mondo stellare circostante, come prima si sapeva collegato con la sfera della terra attraverso l’organizzazione dei sensi. Egli si riconosce quale essere cosmico. I pensieri non sono più ombre; sono saturi di realtà come le immagini sensorie nella percezione dei sensi” (p. 204).

Abbiamo visto, a suo tempo, che il mondo vegetale sta tra “cielo e terra”: sta cioè in mezzo, tra una forza centrifuga, che lo attrae verso il cosmo, e una forza centripeta, che lo attrae verso il centro della Terra.
Ebbene, quando consideriamo l’organizzazione fisica dei sensi e l’organizzazione eterica del pensare, ci troviamo alle prese con la stessa dinamica: la prima è infatti centripeta, mentre la seconda è centrifuga.
Potremmo perciò dire, parafrasando “l’eterno femminino ci trae in alto” di Goethe: “l’eterno pensare ci trae in alto”.
Verso che cosa? Verso quei logoi, quelle essenze o quei pensieri universali detti, da Steiner, “saturi di realtà”.
Di questo riparleremo tra poco. Per il momento, conta soprattutto realizzare che una cosa è il pensare quale verbo (il pescare), altra i pensieri universali (i pesci), con i quali è “collegato”, e altra ancora i pensati o le rappresentazioni (i pesci pescati e morti).
Scrive appunto Scaligero: “Per il pescatore raffinato il pescare è più importante del pescato: così come, per il saggio, il pensare è più importante del pensato” (12).

Se poi l’uomo si eleva conoscendo all’ispirazione, si avvede di potersi spogliare di questo mondo, che si appoggia all’organizzazione del pensiero, così come si era potuto spogliare del mondo terreno. Scorge come anche con l’organizzazione del pensiero egli appartenga non all’essere suo proprio, ma al mondo. Scorge come attraverso la sua propria organizzazione del pensiero regnino in lui i pensieri universali. Si rende di nuovo conto di come, pensando, egli non accolga in sé delle immagini del mondo, ma di come egli si inoltri nel pensare universale con la sua organizzazione del pensiero.
Tanto in relazione all’organizzazione dei sensi, quanto al sistema del pensiero, l’uomo è mondo. Il mondo si costruisce dentro di lui. Perciò né nella percezione dei sensi, né nel pensiero egli è se stesso, ma è contenuto del mondo
” (p. 204).

Abbiamo parlato del pensare eterico, vivente o immaginativo; parliamo adesso del pensiero qualitativo o ispirato (dei pensieri), e quindi di ciò che si trova al di là della soglia.
Che cosa si trova al di là della soglia? Lo sappiamo: il mondo delle idee di Platone, il regno delle Madri di Goethe o il regno di quelle essenze che brillano, come stelle, di luce propria.
Solo a questo livello si penetra nella sfera animico-spirituale: ossia nella sfera in cui siamo (quali Io), e non solo (come in quella eterico-fisica) esistiamo (“anche con l’organizzazione del pensiero”, dice Steiner, l’uomo appartiene “non all’essere suo proprio, ma al mondo”).
“L’iniziazione – affermano i maestri – consiste nel morire prima di morire”.
In effetti, lo spogliarsi liberamente del corpo fisico, per scoprire il corpo eterico, e lo spogliarsi liberamente del corpo eterico, per scoprire il corpo astrale, sono atti che corrispondono ai fatti che si verificano necessariamente dopo la morte.
Dopo la morte dobbiamo tornare all’Io, mentre durante la vita, per mezzo della moderna iniziazione, vogliamo tornare coscientemente all’Io (a quell’Io che non abbiamo mai smesso, in realtà, di essere).

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Di Lucio Russo
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