Della “relazionalità”

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Scrive Mauro Magatti, in un editoriale a commento del discorso tenuto dal Papa a Strasburgo: “La diagnosi di Francesco è severa ma realistica: la sclerosi europea è conseguenza della chiusura dell’Io su se stesso (…) La grande storia europea ha il merito di aver fatto emergere l’Io individuo. Ma adesso questa storia è destinata ad arrestarsi se non riconoscerà la costitutiva relazionalità della persona. Nelle sue molteplici dimensioni. Tra terra e cielo: tenendo aperta la dialettica tra contingenza e trascendenza, fisica e metafisica, scienza e religione (…) Dopo il tempo della sovranità (individuale e statuale) viene il tempo della relazionalità (…) La storia della libertà non è destinata al vicolo cieco dell’individualismo radicalizzato o al suo contrario, il fondamentalismo identitario. Riconoscendosi in relazione, essa può aspirare a forme più alte di umanità e socialità” (1).
Non c’è però da sperare che la libertà possa “aspirare a forme più alte di umanità e socialità”, se non si riconoscerà che la qualità della relazione che si ha col mondo e con gli altri dipende in toto da quella che si ha con se stessi: ossia dal grado di coscienza che l’Io ha di sé.
Una cosa, infatti, è l’Io, altra la coscienza dell’Io (l’autocoscienza). E la qualità dell’esistenza dell’Io non dipende da quella della sua essenza, bensì dal grado di coscienza che il soggetto ne ha (in questo sta la libertà).
E qual è oggi il grado di coscienza che l’Io ha di sé? E’ quello della coscienza corporea o spaziale (rappresentativa) dell’Io basata sulla contrapposizione di soggetto e oggetto o di ego e non-ego. Quanti denunciano, come i cattolici, l’odierna “chiusura dell’Io su se stesso” non si avvedono quindi di denunciare (moralisticamente) l’ego e non l’Io, ch’è al contrario il soggetto della “dedizione” o del “sacrificio di sé”. A differenza dell’ego, l’Io si sa e si sente tanto più “soggetto” quanto più è dedito all’oggetto o all’altro: in breve, quanto più ama (“L’autentico insieme – scrive Henry Corbin – può nascere solo dalle solitudini e nella solitudine”) (2).
E’ vero, “la grande storia europea ha il merito di aver fatto emergere l’Io individuo”, ma è altrettanto vero che lo ha fatto emergere (che ha fatto emergere la moderna coscienza dell’Io quale ego) lottando contro le forze conservatrici che volevano allora impedirne la nascita (si pensi a Galilei o al Sillabo) e che vogliono oggi ostacolarne lo sviluppo (lo sviluppo della coscienza dell’Io e del pensare che lo rende possibile).
Fatto sta che l’ego sta all’Io come il bruco sta alla farfalla, ma con la differenza che il bruco, per metamorfosarsi in farfalla, non ha bisogno di trasformare il pensare e l’autocoscienza, com’è invece necessario all’ego per metamorfosarsi in Io o Sé spirituale.
I rappresentanti dell’“individualismo radicalizzato” amano dunque il bruco (l’ego), ma non la farfalla (l’Io o Sé spirituale), mentre i rappresentanti del “fondamentalismo identitario” non amano neppure il bruco (3).
Quanti affermano che “dopo il tempo della sovranità (individuale e statuale) viene il tempo della relazionalità” vorrebbero intraprendere una “terza via”, distinguendosi così, sia dai rappresentanti dell’individualismo (egoico-borghese), sia da quelli del collettivismo (teocratico o ideocratico).
Ma quella della “relazionalità” è davvero una “terza via”? C’è da dubitarne, e molto.
(Altro sarebbe dire, infatti, che l’Io è il soggetto del “relazionare” o del “connettere”, giacché quella del relazionare o del connettere è l’attività del pensare, e il pensare è attività o atto dell’Io.)
Già sul piano meramente logico l’identificazione del soggetto con una particolare categoria (Vito Mancuso: “Io = relazione”) (4) è tutt’altro che convincente. Per quale ragione, infatti, l’Io dovrebbe riconoscersi nella categoria della relazione, e non (per dirla con Aristotele) in quelle della sostanza, della quantità, della qualità, del dove, del quando, del trovarsi, dell’avere, dell’agire e del subire (oppure, per dirla con il cabalista, in una delle dieci sephiroth, e non nelle altre nove)? (5)
Si pensi al rapporto tra due soggetti: la qualità della loro relazione (della loro comunicazione, del loro linguaggio, dei loro gesti) non dipende forse dal grado di coscienza che entrambi hanno sia di sé che dell’altro? Non è evidente che è la qualità dell’autocoscienza a determinare quella della relazione (“Amerai il prossimo tuo, come te stesso” – Rm 13, 9), e non la qualità della relazione a determinare quella dell’autocoscienza?
L’ego, quale soggetto della (moderna) coscienza di sé, per essere e conservarsi tale, deve contrapporsi all’oggetto; per questo, è fatalmente portato a considerare “oggetti” (non-ego) anche gli altri soggetti.
Scrive Thomas Merton: “Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in se stessa. Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso “gli altri” in “incontri”, “aperture”, “solidarietà”, “comunione”. Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche l’“altro” è oggetto” (6).
Solo per l’Io o Sé spirituale l’altro è infatti un “Io o Sé spirituale”, e solo nell’“Io sono” (nel Logos) ogni Io è tutti gli Io. “L’unità originaria dei molti “Io” – afferma Scaligero – è la sorgente metafisica che nel mondo si attua come amore” (7).
Come l’ego s’illude, pertanto, di andare verso “gli altri” mediante “incontri”, “aperture”, “solidarietà” e “comunione”, così s’illude di andare verso “gli altri” mediante la “relazionalità” (“Tra terra e cielo: tenendo aperta la dialettica tra contingenza e trascendenza, fisica e metafisica, scienza e religione”).
Morale della favola: pretendere la “relazionalità” dall’ego è vano (come lo sarebbe pretendere che il bruco voli), giacché l’ego è intrinsecamente a-sociale; pretendere la “relazionalità” dall’Io è superfluo, giacché l’Io è intrinsecamente sociale (un “Io-Noi”).
La “sclerosi europea” è sì dunque “conseguenza della chiusura dell’Io su se stesso”, ma questa è a sua volta conseguenza di una stasi del processo di evoluzione della coscienza dell’Io, e di una patologica fissazione al suo stato egoico: stato cui si può porre rimedio trasformando l’ego, mediante la conoscenza e la disciplina interiore, in Io o Sé spirituale (“Sia santificato il Tuo nome”), e non di certo appellandosi, in modo del tutto astratto, a una “costitutiva relazionalità della persona” (la maggior parte degli uomini, diceva Fichte, preferirebbe essere considerata “una pietra di lava sulla Luna” piuttosto che un Io).
Quel che più preoccupa, comunque, è che affermare, come fa ad esempio Vito Mancuso, che l’Io “esiste in quanto frutto delle sue relazioni” (essendo l’Io “un insieme ordinato di relazioni, particelle che formano atomi, atomi che formano molecole, molecole che formano cellule, cellule che formano tessuti, tessuti che formano organi, organi che formano l’organismo”) significa affermare non che l’Io è il fondamento (Uno) delle (molteplici) relazioni, bensì che queste sono il fondamento dell’Io (8).
Non ci si accorge che, così facendo, ci si fa alfieri di una sorta di “neo-avicennismo” o di “neo-averroismo”. Come Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), infatti, dissolvevano l’individualità, dopo la morte del corpo, nella universalità, così i “relazionisti”, dissolvono l’Io, durante la vita nel corpo, nella rete delle sue innumerevoli “relazioni” (quasi si trattasse di un social network, e non dello spirito) (9).
In realtà, tale dissoluzione non è che l’odierna e intellettualistica versione della dissoluzione dello spirito (dell’Io) nell’anima, sancita dall’ottavo Concilio ecumenico di Costantinopoli (869-870).

Note:

1) Corriere della Sera, 26 novembre 2014;
2) H.Corbin: La Sophia eterna – Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 14-15;
3) cfr. Dell’ego-Caino, 18 aprile 2004;
4) cfr. La vita autentica, 11 giugno 2010;
5) ci si può fare un’idea di quanto sia a dir poco semplicistica l’identificazione dell’Io con la relazione, riflettendo sulle seguenti parole di Steiner: “Studiando l’ambiente circostante secondo il “quando” e il “dove” arriviamo a una conoscenza dell’io di tutti i giorni. Osservando la linea ereditaria arriviamo a conoscere come l’io si esplichi nel corpo eterico. Sperimentando il karma arriviamo a conoscere i modi in cui l’io si estrinseca nel corpo astrale. Arriviamo all’ultimo grado della conoscenza, attingendo conoscenze cosmiche; poiché qui è espanso ciò che nell’io puntuale dell’essere umano è compresso. Conoscenza del cosmo è conoscenza di sé” (R.Steiner: Risposte a enigmi della vita – Antroposofica, Milano 2012, p. 41);
6) T.Merton: Lo Zen e gli uccellin rapaci – Garzanti, Milano 1970, p. 32;
7) M.Scaligero: Dell’amore immortale – Tilopa, Roma 1982, p. 14. Scrive Steiner: “Questo “Io” è l’uomo stesso (…) L’“Io” vive nel corpo e nell’anima; lo spirito però vive nell’“Io”(…) Lo spirito s’irradia nell’“Io” e vive in esso come nel suo involucro, allo stesso modo in cui l’“Io” vive nel corpo e nell’anima come nei suoi involucri” (R.Steiner: Teosofia – Antroposofica, Milano 1957, pp. 32-33);
8) vedi nota 3);
9) nel suo L’intelligenza collettiva – Per un’antropologia del cyberspazio, il filosofo francese Pierre Lévy dedica un capitolo ai rapporti tra la filosofia araba e la cibernetica. Convinto, al pari di Avicenna, che vi sia un solo intelletto “agente” per tutti gli uomini, e che la coscienza dell’Io sia quindi un fenomeno accidentale (dovuto al contingente inerire dell’intelletto collettivo al corpo individuale), Lévi propone la sostituzione di tale intelletto con la “rete” o col “cyberspazio”, in qualità di “cervello collettivo” o di “ipercorteccia” – cfr. Di fronte all’Islam, 12 maggio 2002.

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Di Lucio Russo
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