Rappresentazioni e immagini (simboli)
Prima di esaminare il punto di vista di Jung, sarà bene trattare, seppur brevemente, dell’attività immaginativa: attività del pensiero che deve essere rigorosamente distinta da quella concettuale.
Scrive Hegel: “Sentimenti, intuizioni, appetizioni, volizioni ecc., in quanto se ne ha coscienza, vengono in genere denominati rappresentazioni: si può dire perciò, in generale, che la filosofia pone, al posto delle rappresentazioni, pensieri, categorie e, più propriamente, concetti. Le rappresentazioni in genere possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti” (27).
Si dicono “rappresentazioni” tutte quelle immagini che derivano dalla percezione dei sensi e che devono trovarvi necessario riscontro. Le rappresentazioni sono immagini mnemoniche: quando non sono mnemoniche, sono allora immagini percettive. Se si osserva un oggetto e poi, chiusi gli occhi, lo si rivede mentalmente, se ne ha un’immagine mnemonica (bidimensionale); mentre lo si osserva, se ne ha invece un’immagine percettiva (tridimensionale).
Le “immagini” (i simboli) non derivano dalla percezione dei sensi. Osservate e valutate dal punto di vista sensibile risultano pertanto bizzarre, errate o prive di senso.
Le rappresentazioni, in quanto si limitano a rispecchiare la realtà esterna, si mostrano energeticamente spente (non-esseri), giacché forniscono il riflesso della realtà, e non la realtà.
Le immagini sono invece viventi (esseri): non solo sono morfologicamente strutturate in modo indipendente dalla realtà sensibile, ma si mostrano anche corredate di un’autonoma e specifica energia.
Nell’ordinaria attività rappresentativa, afferma Steiner, “l’essenziale dell’errore sta nella sua non concordanza con il mondo della percezione” (28). Possiamo tuttavia avere delle “rappresentazioni che, sebbene non si accordino con il mondo esteriore delle percezioni, destano d’altra parte forze animiche superiori in modo giusto e sano (…) quando non ci lasciamo guidare dal mondo esteriore sensibile, dal mondo delle percezioni, e neppure dalle forze che ci portano all’errore”, ma facciamo appello “alle forze dell’anima che dobbiamo anzitutto destare” (29).
Anche Jung afferma che i simboli “sono fatti in modo tale che sarebbero privi di senso se non avessero un significato simbolico. Un triangolo che racchiude un occhio è, sotto l’aspetto della pura realtà, cosa talmente assurda che chi l’osserva non può in alcun modo vedervi il risultato di un passatempo puramente casuale. Una tale raffigurazione impone immediatamente un’interpretazione simbolica” (30).
(Dalla percezione sensibile possono derivare il “triangolo” e l’“occhio”, ossia gli elementi che compongono il simbolo, ma non il simbolo stesso, quale insieme o sintesi di tali elementi.)
I miti, le fiabe e le leggende nascono dall’immaginazione. Dice Steiner: “Cosa sono i miti? Sono creazioni dello spirito, dell’anima creatrice inconscia. L’anima è governata da leggi ben definite. Per poter creare oltre se stessa, deve evolversi in modo prestabilito. Sul piano mitologico, essa fa ciò per mezzo d’immagini, ma tali immagini si sviluppano in accordo con le leggi dell’anima” (31).
Si potrebbe anche dire che le rappresentazioni sono “immagini morte della vita”, mentre le immagini sono “immagini viventi dell’anima” (32). Quando non sono viventi, quando non vi si avverte, cioè, – per dirla ancora con Steiner – una “eco dell’elemento animico”, si tratta allora di segni e non di simboli: ossia, di rappresentazioni che prendono il posto, per comodità o convenzione, di altre rappresentazioni.
Il dissidio tra Freud e Jung è sorto proprio in ordine al problema della distinzione tra “segno” e “simbolo” (imago). “Quei contenuti coscienti – scrive Jung – che ci danno degli indizi per accedere al retroterra inconscio sono scorrettamente chiamati “simboli” da Freud. Non sono tuttavia veri simboli poiché, secondo la sua teoria, hanno semplicemente il ruolo di “segni” o “sintomi” dei processi subliminali. Il vero simbolo è qualcosa di sostanzialmente diverso e andrebbe inteso come un’idea intuitiva che non può ancora essere formulata altrimenti o meglio” (33).
Il “vero simbolo” non è però “un’idea intuitiva che non può ancora essere formulata altrimenti o meglio”, bensì un’idea intuita o un’intuizione che si rivela o manifesta sul piano di coscienza detto, da Steiner, “immaginativo”.
E’ d’altro canto impossibile comprendere la vera natura del simbolo se non si riconoscono e distinguono diversi gradi di realtà e di coscienza. Un simbolo è tale, infatti, soltanto perché è un’epifania: ossia, una realtà di grado inferiore che ne rivela (media) un’altra di grado superiore.
La forma del corpo umano, ad esempio, è simbolica, in quanto rivela la vita, l’anima e lo spirito, mentre quella di un minerale non lo è in quanto rivela soltanto ciò che si mostra ai sensi: non quindi la vita come la forma vegetale, non la vita e l’anima come la forma animale, non la vita, l’anima e lo spirito come quella umana.
Si potrebbe anche dire, volendo, che si dà un “segno” tutte le volte in cui il significante, stando sullo stesso piano di realtà e di coscienza del significato, non permette un’elevazione, un’anagogia o un trascendimento.
Detto questo, domandiamoci: di quale tipo erano le immagini incontrate da Breuer?
Per rispondere, ci rifaremo al caso dal quale Freud trasse ispirazione per la dottrina del fatto traumatico.
Osservando la prima delle due esemplificazioni riportate – quella della ripugnanza ad assumere liquidi provocata dalla vista del cagnolino che beve in un bicchiere – subito ci si avvede che si tratta di rappresentazioni. C’è però un problema. Come mai queste rappresentazioni, pur non essendo che delle spente immagini o degli inerti riflessi della realtà esterna, possiedono tanta energia da risultare patogene?
Ciò si verifica – risponderebbe Freud – perché la reazione emotiva (la “ripugnanza” e lo “schifo”) suscitata dal primo evento è stata trattenuta, rimossa, dissociata dalla rappresentazione originaria e infine scaricata sulla rappresentazione dell’atto del bere.
Secondo Freud e Breuer – spiega appunto Elémire Zolla – i sintomi isterici insorgono “quando un processo mentale con una grossa carica affettiva non può per qualunque ragione dare sfogo a quella carica attraverso le vie normali che conducono alla coscienza e al movimento. Avviene allora che l’affetto, che è stato in qualche modo “strozzato”, imbocca una via sbagliata e si scarica nell’innervazione somatica, per un processo detto di “conversione”” (34).
Questa spiegazione non dà però ragione della abnorme reazione primaria di fronte a un evento di per sé niente affatto sconvolgente.
Ci si preoccupa di seguire le vicissitudini della “grossa carica affettiva” legata al processo mentale e di conoscere i motivi che possono aver indotto il soggetto a “strozzarla”, ma non ci si preoccupa di comprendere il perché una “grossa carica affettiva” si sia venuta inizialmente a collegare con l’ordinario processo mentale (con l’immagine percettiva e con la rappresentazione).
Quale individuo “normale”, infatti, svilupperebbe uno stato fobico per il solo fatto di aver visto un cagnolino bere da un bicchiere? Ma la paziente – si obietterà – era isterica, non “normale”. D’accordo, ma in questo modo si spiega il trauma per mezzo dell’isteria e non, come vorrebbe la dottrina del fatto traumatico, l’isteria per mezzo del trauma.
Di questo diremo ancora. Per ora invece domandiamoci: che cosa è dunque successo nell’intimo della paziente? Per quale ragione un’esperienza tutto sommato ordinaria si è trasformata in un trauma?
Per poter rispondere, occorre riflettere sulla seconda esemplificazione. Il suo quadro d’insieme si presenta infatti come un ibrido, giacché vi compaiono tanto delle rappresentazioni (la parete, l’ammalato e le dita della mano) quanto delle immagini o dei simboli (la serpe nera e i serpentelli terminanti con un teschio).
Volendo pertanto considerare (con Breuer) tale episodio quale evento originario della malattia, in che cosa consisterebbe allora l’evento? Forse nel fatto che la giovane fosse seduta, depressa e preoccupata, accanto al letto del padre malato? Non è plausibile. Plausibile, invece, è che tale penosa (ma per nulla sconvolgente) circostanza sia stata resa traumatica dall’irrompere (facilitato dal dormiveglia) d’immagini estranee e simboliche nel contesto dell’ordinaria esperienza percettiva e rappresentativa della paziente.
E’ vero, dunque, che la malattia è insorta a causa di un “fatto traumatico”, di un “fatto” però extrasensibile, e non sensibile, consistente appunto nell’improvvisa irruzione d’immagini nella sfera delle rappresentazioni, con conseguente alterazione del pensare, del sentire e del volere che sarebbero rimasti altrimenti adeguati alla sfera sensibile.
Nel caso del cagnolino, le immagini non sono venute alla luce; in quello della visione al capezzale del padre malato, si sono viceversa palesate.
Ciò dimostra che gli eventi materiali esterni non possono spiegare l’insorgere di un disturbo mentale. C’è piuttosto da pensare che qualsiasi fatto possa tramutarsi in un trauma qualora nell’ordinario contesto percettivo e rappresentativo s’insinui o precipiti un’immagine o un simbolo che lo alteri e virulenti.
Non esistono, insomma, oggettivi fatti traumatici (come crede il realismo ingenuo), bensì esistono soggettive reazioni traumatiche ai fatti.
Non sono perciò i primi a spiegare le seconde, ma viceversa.
Inconscio personale e inconscio collettivo
Per comprendere il punto di vista di Jung, converrà tornare al momento in cui Freud scoprì che i “fatti traumatici” altro non erano, per lo più, che fantasie dei pazienti.
Caduto il fatto, restavano in piedi due realtà: quella della “reazione impropria di difesa” e quella del suo rapporto con una particolare immagine inconscia. Abbiamo visto che Freud venne a trovarsi a quel punto di fronte a un bivio. Ebbene, se Freud ne imboccò la strada naturalistica (materialistica), Jung, più tardi, ne imboccò invece l’altra.
Scrive infatti: “Come possiamo riconoscere un archetipo? E quando siamo costretti a rifugiarci in questa ipotesi? Io proporrei di indagare se ogni reazione psichica sproporzionata alla causa che l’ha provocata non sia in pari tempo dovuta anche a un archetipo” (35).
Come si vede, anche Jung considera le immagini inconsce causa delle reazioni improprie; non le riduce però, come Freud, da immagini (simboli) a rappresentazioni (segni), bensì le mette in relazione con la vita più profonda dell’anima.
La reazione impropria – dice – deve “in pari tempo” essere attribuita “anche a un archetipo”. Che cosa significa? Che una rappresentazione, morfologicamente ed energeticamente adeguata alla realtà esterna, è stata “toccata” e per ciò stesso alterata da una immagine di diversa natura e potenza.
L’effetto di un “contatto” del genere potrebbe essere paragonato a quello di un corto circuito: l’immagine “toccando” la rappresentazione la investe del proprio potenziale energetico (della propria forza) e la deforma in ragione delle proprie esigenze espressive (della propria forma), dando così luogo a una reazione impropria.
Dare a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio: la salute dell’anima risponde a questo principio. Le rappresentazioni e le immagini dovrebbero espletare le loro funzioni a livelli (di coscienza) diversi. Quando tra loro si determina un’interferenza, una dis-locazione o uno scambio si vengono a instaurare gli stati patologici.
Jung abbandona dunque gli ingenui presupposti realistici che avevano irretito Freud. Con la scoperta, al di là di quella dell’inconscio personale, della realtà dell’inconscio collettivo, l’anima viene sottratta al ruolo di semplice specchio della realtà esterna e riconosciuta “creatrice” o “mitopoietica”.
Solo Steiner, però, è in grado di spiegare che le immagini sorgono quando i contenuti animici (di cui si dirà) si riflettono nel vivo “corpo eterico”, mentre le rappresentazioni sorgono quando gli stessi si riflettono nel morto “corpo fisico” (nella corteccia cerebrale).
Le rappresentazioni e le immagini manifestano dunque gli stessi contenuti, ma a livelli diversi. Ogni livello ha una propria morfologia e un proprio potenziale energetico.
(Scrive Steiner: “Impulso, desiderio, cupidigia sono designazioni per la sostanza del mondo animico. Questa sostanza può essere chiamata “astrale”. Guardando più alle forze del mondo animico, si potrà parlare di “entità” di brama. Non va però dimenticato che qui la distinzione fra “materia” e “forza” non può essere così rigida come nel mondo fisico. Un impulso può altrettanto bene essere chiamato “forza” quanto “materia”” [36].)
L’idea-forza del Padre, ad esempio, è una (l’“archetipo in sé” di Jung), ma può manifestarsi, a un primo livello, come rappresentazione del padre naturale (il “complesso paterno” di Jung) e, a un superiore livello, come “immagine archetipica” del Padre spirituale.
Si pensi ad esempio a un sogno in cui il sognatore si veda minacciato dal padre che brandisce un coltello. Il tema è chiaramente simbolico (Dio, Abramo e Isacco), ma a rappresentarlo, alla stessa stregua di un attore preso dalla strada, viene deputato il padre naturale. Eventuali “reazioni improprie” del sognatore nei confronti del genitore deriverebbero quindi dal fatto che il suo rapporto col padre naturale non è realistico (rappresentativo), bensì irrealistico, in quanto inconsciamente alterato da quello col Padre spirituale.
Durante l’infanzia sono attive anzitutto le immagini; solo più tardi, al maturare della coscienza oggettiva (intellettuale), esse si “ritirano” dallo stato di veglia per attestarsi, quali forze del sentire, nella sfera del sogno e, quali forze del volere, in quella del sonno (senza sogni). “Durante l’infanzia e l’adolescenza – scrive Karl König – mentre la mente sguscia fuori dall’esistenza animica, un’altra parte del nostro essere si ritrae invece nel regno dell’inconscio” (37).
Dall’infanzia alla prima maturità (nel corso della cosiddetta “età evolutiva”) si assiste a un graduale e incessante discendere della coscienza dal grado immaginativo a quello rappresentativo: si assiste, cioè, a una graduale caduta degli Dei. La realtà esteriore e manifesta del mondo, l’unica che sia dato apprendere mediante la percezione dei sensi, sorge allorché l’uomo, grazie all’intelletto (vincolato ai sensi), diviene capace di farsi delle rappresentazioni oggettive (rievocando tale momento, sempre König scrive: “Quanto più si faceva brillante il lume della mente, tanto più sbiadivano i colori dell’anima”) (38).
L’ordinaria coscienza rappresentativa (“oggettuale”, direbbe Freud) nasce dunque nello stesso momento in cui l’uomo fuoriesce, come un pulcino dal guscio, dalla placenta immaginativa che lo ha avvolto e nutrito.
Questo livello di coscienza, inattingibile senza la mediazione dell’apparato neuro-sensoriale, è però un “Giano bifronte”: per un verso, infatti, è l’ultimo della “caduta”; per l’altro, invece, è il primo della “risalita” (in quanto primo e basale livello dell’autocoscienza, quale coscienza riflessa, corporea o spaziale dell’Io).
“Al nostro tempo, – avverte Steiner – non c’è vera Iniziazione, che non passi per l’intelletto. Chi vuole oggi condurre agli “arcani superiori” evitando di passare per l’intelletto, non capisce nulla dei “segni dei tempi” e non può far altro che porre suggestioni nuove al posto delle antiche” (39).
L’iniziazione si colloca dunque al di sopra della coscienza intellettuale, mentre la nevrosi e a maggior ragione la psicosi se ne collocano al di sotto.
Lasciamo però da parte l’iniziazione e cerchiamo di mettere in luce un altro fatto. Abbiamo detto che Jung ha scoperto, al di là di quella dell’inconscio personale, la realtà dell’inconscio collettivo. Non esistono, però, due livelli d’incoscienza, uno personale e uno collettivo, bensì esistono due livelli di coscienza, uno rappresentativo e uno immaginativo. E’ una stessa realtà, insomma, a darsi in forma rappresentativa (personale-sensibile) a chi l’affronti munito della sola coscienza intellettuale e in forma immaginativa (archetipica-sovrasensibile) a chi, oltre a quella intellettuale, ha sviluppato la coscienza immaginativa.
Quella che si crede (ingenuamente) una gerarchia degli “oggetti” della conoscenza è in realtà una gerarchia dei gradi della conoscenza (e dell’autocoscienza).
Se è salutare dunque arrivare, nel corso della prima metà della vita, a percepire e pensare il sensibile, “dimenticando”, per così dire, il sovrasensibile, sarebbe salutare arrivare, nel corso della seconda, a pensare e percepire il sovrasensibile, senza “dimenticare” il sensibile.
Nelle nevrosi, il sovrasensibile, poiché insufficientemente “dimenticato”, interferisce col sensibile, mentre nelle psicosi, poiché eccessivamente presente, fa “dimenticare” il sensibile.