Freud, Jung, Steiner (5)

F

Corpo, anima e spirito

Scrive la Jacobi: “L’origine di un archetipo rimane oscura, la sua natura impenetrabile; esso risiede infatti in quel misterioso regno d’ombre che è l’inconscio collettivo al quale non avremo mai accesso diretto” (55).
E’ questo un esempio della versione sognante, crepuscolare o misticheggiante di quell’agnosticismo che nella sua versione intellettualistica assume invece il carattere di un freddo, verboso e coatto problematicismo.
Chi volesse sottrarsi alla presa di questa morsa agnostica dovrebbe riflettere sui rapporti vigenti nell’ordinaria cognizione sensibile tra l’oggetto, la rappresentazione e il concetto.
Perché un oggetto possa essere percepito occorre che gli venga rivolta attenzione. Questa, quale espressione della volontà del soggetto (quale atto dell’Io), è un presupposto della percezione o, più precisamente, dell’immagine percettiva. Altro presupposto dell’immagine percettiva è il giudizio. E che cos’è un giudizio? E’ un rapporto tra concetti. “Il cavallo” e “il bianco” sono ad esempio due concetti, “il cavallo è bianco” è un giudizio: un giudizio che costituisce il presupposto di quell’immagine precosciente che, proiettata nel mondo esterno, si dà come immagine percettiva e, riflessa dalla corteccia, si dà (dopo 500 millesimi di secondo) come rappresentazione.
Come si vede, l’immagine precosciente precede tanto l’immagine percettiva quanto la rappresentazione.
“Le immagini interne – scrive Ernst Bernhard – formano la realtà concreta e non viceversa. Certo, il mondo esterno e il mondo interno delle immagini sono in costante relazione reciproca, l’immagine si cerca un cosiddetto oggetto di proiezione – l’oggetto costella un’immagine interna – ma “prima” è l’immagine” (56).
Bernhard si avvede dunque del fatto che l’immagine interna precede l’immagine percettiva, ma non avvedendosi del ruolo svolto dal contenuto della percezione (dal percetto) e dal concetto nel processo di formazione delle due immagini, non è in grado di spiegare per quale ragione “il mondo esterno e il mondo interno delle immagini” siano “in costante relazione reciproca”, né in base a quale criterio l’immagine scelga proprio quel “cosiddetto oggetto di proiezione”, e non un altro.
Nella vita quotidiana, tale processo si svolge inconsciamente e solo i suoi risultati (l’immagine percettiva e la rappresentazione) giungono alla coscienza. Ne consegue che questi saranno tanto più adeguati alla realtà quanto meno l’anima, quale organo di mediazione fra gli stimoli (fisici) e i concetti (spirituali), interferirà nel processo (con le sue simpatie o antipatie). Perché si diano percezioni e giudizi oggettivi, e non pertanto illusioni, allucinazioni o deliri, è necessario che l’anima (la psiche) si disponga, “dimenticando” sé stessa, ad assolvere umilmente e castamente il proprio ruolo di mediatrice.
Dovrebbe valere, per l’anima, ciò che vale di norma per gli organi di senso: come si sa, tanto meglio si ode mediante le orecchie quanto meno si fanno udire le orecchie o tanto meglio si vede mediante gli occhi quanto meno si fanno vedere gli occhi.
Tutto questo conferma la validità della triarticolazione di corpo (immagine percettiva tridimensionale o “scultorea”), anima (rappresentazione bidimensionale o “pittorica”) e spirito (concetto unidimensionale o “nota musicale”).
Decisivo è realizzare che un concetto, in sé, non è rappresentabile. Ci si può rappresentare un leone, ma non il leone. Con il concetto (che è forma, ma non ha forma) si esce dal mondo dell’anima e si entra in quello dello spirito.
Abbiamo visto che Jung ha insistito (come ricordato dalla Jacobi) sulla necessità di distinguere “l’archetipo non percepibile e solo potenzialmente presente” da quello “percepibile, attualizzato, “rappresentato””, giacché “solo quando, espresso dal materiale psichico individuale, l’archetipo ha preso forma, esso diventa “psichico” ed entra nell’area della coscienza”.
Una cosa, infatti, è il “concetto in sé” (spirituale), altra il concetto che “espresso dal materiale psichico individuale”, prende “forma”, “diventa “psichico” ed entra nell’area della coscienza” nelle vesti (soggettive) d’immagine percettiva e di rappresentazione.
Riconoscere nell’archetipo la realtà luminosa del concetto (un’entità spirituale) è cosa diversa dal vedervi – come dice la Jacobi – una realtà di origine “oscura” e di natura “impenetrabile”, così come considerare il mondo al quale appartiene un mondo spirituale “inaccessibile” soltanto alla coscienza ordinaria (rappresentativa), è cosa diversa dal considerarlo un “inconscio collettivo”: ossia, “un misterioso regno d’ombre” cui “non avremo mai accesso diretto”.
“Lo spirito – afferma Steiner – non può mai venir afferrato con il concetto di inconscio perché uno spirito inconscio sarebbe come un uomo senza testa (…) Quando si oltrepassa la soglia della coscienza si giunge sempre nel campo dello spirito: è del tutto indifferente se si giunga in una sfera subconscia o sovraconscia, si entra comunque in una regione spirituale, ma in una regione in cui lo spirito è cosciente in un certo modo, qualunque forma di coscienza abbia sviluppato. Dove vi è lo spirito, vi è anche coscienza” (57).
Il mistero dell’“archetipo in sé” cela dunque quello del concetto puro: ossia il mistero di un’entità spirituale conoscibile e sperimentabile da chiunque abbia la buona volontà e la sagacia di sviluppare gradi superiori di coscienza (58).
(Nel nostro Amor, che ne la mente mi ragiona [lo studio de La filosofia della libertà pubblicato dall’“Osservatorio”] abbiamo detto: Jung non si è accorto che quella degli “archetipi in sé” è la realtà dei concetti. Perché non se n’è accorto? Perché l’ha sperimentata come una realtà forte che può ammalare e guarire, e che, come tale, non può avere a che fare con quella astratta (nominalistica) dei concetti di cui abbiamo ordinaria coscienza. S’immagini un tizio che incontrando dei cavalli non li riconosca come tali, perché questi, a differenza di quelli che ha visto esclusivamente nelle foto, scalciano, galoppano e nitriscono. Ebbene, Jung ha incontrato nella psiche i concetti, ma non avendoli riconosciuti come tali li ha chiamati “archetipi in sé” e li ha relegati in un’immaginaria sfera “psicoidea”).
Ma torniamo a noi. Nello stato di normalità, gli stimoli provenienti dall’ambiente si traducono in rappresentazioni. Queste risultano adeguate solo al mondo inorganico. In questa sfera, vi è infatti concordanza tra l’inerzia delle rappresentazioni e l’inerzia dei fenomeni. Le scienze della natura inorganica (in specie la meccanica) possono perciò risolvere i fenomeni in leggi ed esprimerle matematicamente.
Nel mondo organico, ciò ch’è misurabile e quantificabile non costituisce però l’essenziale. Quanto vive si rivela all’anima umana mediante l’immaginazione. Le rappresentazioni, in quanto vincolate alla percezione sensibile, ci rendono dunque coscienti del contenuto esteriore del mondo, mentre le immagini ci rendono coscienti del suo contenuto interiore.
Solo in questo modo è possibile restituire il mondo all’uomo e l’uomo al mondo. La psicoanalisi freudiana restituisce l’uomo al mondo, ma lo priva dell’anima e dello spirito, mentre la psicologia analitica junghiana reclude l’uomo nell’anima (nella psiche), privandolo così e del mondo e dello spirito. Il soggetto junghiano si trova di conseguenza imprigionato in un fantasmagorico (e in definitiva estetizzante) universo popolato di figure che rispondono ad esempio al nome di Ombra, Puer, Senex, Anima e Animus.
Confessa Jung: “Sono ben lungi dal sapere cosa sia lo spirito per se stesso, ed altrettanto lontano dal sapere cosa siano gli istinti. L’uno è per me un mistero tanto quanto gli altri (…) Istinti e spirito sono in ogni caso al di là della mia comprensione. Sono termini che noi usiamo per esprimere forze potenti, la cui natura ci è sconosciuta” (59).
L’uomo di Steiner è dunque uno spirito che ha anima e corpo, l’uomo di Jung è un’anima che non ha corpo né spirito e l’uomo di Freud è un corpo che non ha anima né spirito. Il primo può quindi trovare se stesso nel mondo e il mondo in se stesso, mentre il secondo non può che perdere il mondo e il terzo se stesso. All’uomo di Jung ben si attagliano queste parole di Steiner: “L’autoconoscenza che crediamo di conquistare rimuginando su noi stessi non sarà mai una vera autoconoscenza” (60).
S’immagini un paziente adulto che abbia avuto – come usano dire gli addetti ai lavori – una “madre negativa”. Come andrebbe intesa un’affermazione del genere? Andrebbe intesa così: il paziente è stato in rapporto con una madre naturale interiormente e inconsciamente condizionata dall’immagine archetipica della Strega: ossia da un’immagine veicolante un contenuto morale negativo. Nella sua infanzia, il paziente si è trovato dunque alle prese con una forza morale (spirituale) negativa mediata psichicamente e fisicamente dalla madre. Sostenere che il paziente sia rimasto vittima della madre naturale equivarrebbe perciò a sostenere che una persona colpita da un proiettile sia rimasta vittima di una pistola o di un fucile. Il paziente è rimasto invece vittima del contenuto morale in cui si è precocemente imbattuto e che ancora lo affligge, nei suoi effetti, da adulto.
Uno stimolo morale negativo non può suscitare (soprattutto da bambini) che un’immediata reazione morale negativa (paura, rabbia, rancore, odio, ecc.); e tanto più questa sarà precoce e inconscia tanto meno si presterà a essere riconosciuta, controllata e trasformata da chi ne patisce gli effetti (magari nella forma di un disturbo psicosomatico).
Ogni reazione, però, presuppone tanto uno stimolo quanto un terreno che ne consentano l’insorgere. Sollecitati da uno stesso stimolo, terreni diversi produrranno reazioni diverse.
Il terreno (la cosiddetta “predisposizione”), è rappresentato dalla costituzione (sul piano fisico), dal temperamento (sul piano eterico) e dal carattere (sul piano astrale).
Jung si è occupato, com’è noto, dei “tipi psicologici” (61). Ci sarebbe molto da dire sulla sua (sopravvalutata) teoria, ma non potendo qui discuterla in modo esauriente ci limiteremo a formulare tre soli interrogativi:
1) è plausibile che tra le quattro cosiddette “funzioni” (il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione) di cui tutti, a suo dire, dovremmo naturalmente disporre, non figuri la volontà?
2) non sarà che tali quattro ipotetiche funzioni risultano da una confusa (e inconscia) mescolanza delle tre attività animiche (il pensare, il sentire e il volere) con i quattro temperamenti ippocratici (il collerico, il sanguigno, il flemmatico e il melanconico)?
3) il pensiero e l’intuizione sono due funzioni diverse, o non piuttosto due diverse manifestazioni di una stessa funzione?
Cogliere, nel suo complesso e dinamico insieme, un quadro tipologico, significa in realtà cogliere tanto un aspetto del destino (del karma) individuale quanto sciogliere l’enigma, a esso congiunto, della cosiddetta “scelta della malattia”.
Vedere nei contenuti spirituali o morali l’effettiva realtà degli “archetipi in sé” è frutto di un livello di coscienza che comprende e supera, a un tempo, quelli di Freud e Jung.
Come Freud, infatti, ha visto l’inconscio personale perché ha osservato il fenomeno dal punto di vista rappresentativo, e come Jung ha visto l’inconscio collettivo perché ha osservato il fenomeno dal punto di vista simbolico, così Steiner ha visto il mondo in cui risiedono gli “archetipi in sé” (il “Regno delle Madri” di Goethe), perché ha osservato il fenomeno da un ulteriore e più elevato punto di vista (detto, “ispirato”).
Non si fa così che penetrare sempre più profondamente in una stessa realtà (nella realtà della coscienza cosmica), svelandone via via i diversi livelli grazie all’uso dei corrispondenti mezzi conoscitivi (livelli di pensiero).
Tali livelli rappresentano i diversi limiti qualitativi (gerarchici) che la coscienza pone a se stessa, altro non essendo, l’inconscio, che la coscienza di cui non si è ancora coscienti o il pensiero che non si sa ancora pensare. Esauriti i limiti, coscienza umana e coscienza cosmica (il presunto “inconscio collettivo”) verranno a coincidere.
Solo in questo modo è possibile realizzare un’effettiva “coincidentia oppositorum”: coincidentia che nella dottrina junghiana può solo permanere, a causa delle insufficienze rilevate, allo stato di sognante e indistinta aspirazione.

La Libido

Chi scopre la natura spirituale dell’“archetipo in sé”, solleva anche il velo che ha finora ricoperto la natura della Libido.
Scrive il freudiano Charles Brenner: “Nessuno ha mai visto l’energia psichica e nessuno mai la vedrà, non più facilmente, certo, di quanto qualcuno abbia mai visto una qualsiasi forma di energia fisica” (62).
Wilhelm Reich, pur avendo intrapreso una via diversa da quella freudiana ortodossa, nutre la stessa convinzione: “Freud diceva: non possiamo cogliere direttamente la pulsione. Ciò che proviamo sono soltanto i “derivati” della pulsione: “immagini e affetti sessuali” (…) Io interpretai Freud nel modo seguente: è perfettamente logico che la pulsione stessa non può essere cosciente, poiché è ciò che ci governa e domina. Noi siamo il suo oggetto (…) La libido di Freud, conclusi, “non è la stessa cosa” della libido dell’epoca pre-freudiana. Allora si considerava la “libido” come il desiderio sessuale cosciente. La libido di Freud è e non può essere altro che l’energia della pulsione sessuale” (63).
Anche Jung esclude ogni possibilità di accedere in modo diretto e consapevole alla Libido (quale “energia psichica” o “neutra energia vitale”).
Ci troviamo dunque al cospetto di quella energia in sé che caratterizza, come abbiamo in precedenza accennato, il “realismo metafisico”. Non è difficile accorgersi, infatti, che tale energia non viene assegnata al mondo della percezione, poiché si crede che in tale sfera sia possibile coglierne soltanto i “derivati” o gli effetti, né viene assegnata al mondo del pensiero, poiché s’immagina che abbia una natura affine a quella sensibile (che sia, come s’insegna oggi, una “grandezza fisica”), e quindi altra da quella del pensare che ne pone il concetto (Freud l’immagina per l’appunto “chimica”, Reich “orgonica” e Jung “vitale”). Proprio perché tale idea non poggia sul terreno dell’esperienza (dell’osservazione e del pensiero), il realismo che la propugna viene detto, da Steiner, “metafisico”.
E’ comunque “strano” che Freud, Reich e Jung non abbiano preso in considerazione, oltre a quella sessuale e a quella psichica (affettiva), la manifestazione pensante della Libido.
E’ vero che il pensare ordinario (rappresentativo) non sarebbe apparso loro che un ulteriore “derivato” della Libido: avrebbe però presentato, rispetto agli altri, il vantaggio di potersi osservare e pensare senza dover uscire, per questo, da sé. Una cosa, infatti, è il pensare che osserva e pensa le pulsioni sessuali o i moti affettivi, altra il pensare che pensa e osserva se stesso. Un pensare che imparasse a osservare e percepire se stesso non sarebbe più ordinario, e quindi non più astratto. In quanto sintesi incipiente di pensare, sentire e volere comincerebbe infatti a darsi non solo come forma, ma anche come forza: ossia, come vita o volontà dell’Io (si ricordino, in proposito, quei magnetisti che parlavano di “un pensiero differente dal pensiero normale”, di un pensiero “potentissimo” perché libero “da tutte le limitazioni che le dure necessità dei nostri sensi” e “le leggi del tempo e dello spazio impongono al nostro spirito”).
Immaginando la Libido come una “matassa” che svolgendosi (a partire dall’Io) dia conto di sé, a un primo livello (dormiente) quale volere, a un secondo (sognante) quale sentire, e a un terzo (vigile) quale pensare, quest’ultimo si rivelerebbe essere il suo “bandolo”: ovvero, il punto di presa che, grazie al superamento della identità riflessa che lo caratterizza (la stessa che caratterizza l’immagine restituita da uno specchio), permette alla coscienza (alla forma) d’incontrare la forza senza dover rinunciare, per questo, a se stessa, o al pensiero d’incontrare la volontà (la cosiddetta Libido) all’interno di sé senza dover rinunciare, per questo, a se stesso.
Ciò che conta, ovviamente, è il puro movimento del pensare, e non il pensiero di questo o di quello. Prima che afferri un determinato “pensiero” (un concetto) o che si coaguli in un “pensato” (in una rappresentazione), il pensare è infatti puro movimento o pura forza fluente.
Chiunque riesca, grazie a corrette tecniche di concentrazione interiore, a sperimentare il volere nel pensare (il pensare continuo o vivente) avrà chiaro che la rappresentazione dell’energia in sé (propria del realismo metafisico) deriva dalla proiezione sul mondo della sconosciuta e vivente forza del pensare, così come quella della cosa in sé (propria dell’idealismo critico) deriva dalla proiezione sul mondo della sconosciuta realtà del concetto o dell’idea.
Affermando che la Libido “ci governa e ci domina” e che ne siamo “oggetto”, Reich dimostra, suo malgrado, a quale alienante risultato si perviene quando si considera il mondo prescindendo dal pensare e dai pensieri con i quali lo si pensa.
Nella stessa misura in cui la ignora, la coscienza tende ad attribuire la propria forza immanente a quanto è altro da sé, e, in specie, alla realtà dei fenomeni che indaga. In questo modo, l’oggetto si “inflaziona” a tutto detrimento del soggetto che l’osserva e lo pensa.
Scrive Scaligero: “L’uomo conosce e in qualche modo domina il mondo mediante il pensiero. La contraddizione è che egli non conosce né domina il pensiero. Il pensiero permane un mistero a se stesso” (64).

Il Sé (Selbst) e l’io

L’Io conosce la realtà sensibile perché è in grado di oggettivarla, e quindi di distinguersene. Non riesce invece a conoscere la realtà spirituale (cioè a dire, se stesso) perché non è in grado di oggettivare altrettanto lucidamente l’anima e il corpo, e quindi di distinguersene.
Non è azzardato affermare che la più essenziale delle predisposizioni alle malattie mentali cosiddette “psicogene” (ma anche, in verità, a quella “malattia” noetica ed etica rappresentata dalla normalità “egoica”) è costituita dalla indebita identificazione dell’Io spirituale con l’anima o con il corpo.
Dalla psicologia junghiana l’identificazione dell’Io con l’anima viene addirittura istituzionalizzata: il cosiddetto “complesso dell’io” non è infatti, per Jung, che uno dei vari complessi che formano, alla stessa stregua di organi o di apparati, il “corpo” dell’anima (osserva Viktor Frankl: “Nell’immagine junghiana dell’uomo manca l’istanza la quale, di fronte alle “creazioni dell’inconscio”, prenda le sue decisioni” (65): cioè manca, diciamo noi, l’Io).
A detta di Jung, il “complesso dell’io” godrebbe, al pari di un primus inter pares, del privilegio di poter “integrare” gli altri complessi: non è chiaro, tuttavia, donde gli derivi tale privilegio. Solo un io che presentasse una qualche continuità con il Sé potrebbe godere di un privilegio del genere. Ma come tra il soggetto trascendente (il Creatore) e quello immanente (la creatura) non si dà, per i monoteisti, continuità, così tra il Sé e il complesso dell’io non si dà, per Jung, continuità di forza né di forma (per Steiner, invece, tra l’Io spirituale e l’io abituale, l’ego, si dà continuità di forza, ma non di forma).
Scrive Jung: “Poiché la totalità [il nda], che consta di contenuti sia coscienti che inconsci, è un postulato, il suo concetto è “trascendente”” (66); e aggiunge: “Lo scopo dell’individuazione è raggiunto” quando l’io ruota attorno al Sé come la Terra attorno al Sole, o quando “l’io individuato si sente oggetto di un soggetto ignoto e superiore” (67).
Non si accorge, dunque, che tale dualismo vanifica ogni possibilità di realizzare la “coincidentia oppositorum” quale meta del “processo d’individuazione”.
Per meglio chiarire la questione, osserviamo più da vicino la teoria junghiana dei “complessi”.
Grazie agli studi e agli esperimenti sull’“associazione verbale”, Jung (che, nel 1902, aveva seguito per un semestre le lezioni di Janet alla Salpetrière) si rese conto dell’azione patogena svolta dalle immagini inconsce (suffragando così i risultati delle ricerche di Freud). Da questi studi, ricavò la teoria dei complessi intesi quali “gruppi di rappresentazioni a tonalità affettiva” attivi, sì, nell’inconscio personale, ma orbitanti, a un più profondo livello, intorno a un nucleo archetipico. Ad esempio, le varie “rappresentazioni a tonalità affettiva” della madre (formanti il “complesso materno”) ruotano intorno all’unico “archetipo in sé” della Madre (Grande Madre). Come per formare un tessuto occorrono più cellule di uno stesso tipo, così per strutturare un complesso occorrono più rappresentazioni di una stessa “tonalità”: tonalità che viene loro conferita dall’archetipo intorno al quale gravitano.
Gli archetipi, una volta posti (per dirla in termini hegeliani) come “esseri determinati” (“essenze”) dal Sé, che in quanto “essere” tutti li contiene e unifica, instaurano tra loro un rapporto di opposizione (quali esseri “in sé”) e di complementarietà (quali esseri “per l’altro”).
Una coniunctio oppositorum presuppone infatti una oppositio coniunctorum, e questa presuppone, a sua volta, una coniunctio originaria: quella appunto nel Sé.
Insieme all’idea della Madre nasce quella del Padre, insieme all’idea del Maschile (Yang) nasce quella del Femminile (Yin), insieme all’idea del Conscio (luce-pensiero) nasce quella dell’Inconscio (tenebra-volontà), e così via. Nel Sé si ha dunque una coniunctio originaria, mentre “fuori” del Sé si creano delle differenziazioni qualitative o delle polarità cariche di tensione: di una tensione che anelerebbe a placarsi reintegrando, a un nuovo e superiore livello, l’unità originaria.
Tale processo di differenziazione si svolge anche all’interno di uno stesso archetipo. All’interno di quello della Madre, ad esempio, si costituisce una polarità secondaria tra la Madre “positiva” (la Iside luminosa o celeste) e quella “negativa” (la Ecate tenebrosa o infera), così come, all’interno di quello del Padre, se ne costituisce una analoga tra il Padre “positivo” (lo Zeus luminoso o celeste) e quello “negativo” (l’Hades tenebroso o infero).
Ebbene, come l’archetipo (in sé) della Madre supera e risolve la polarità secondaria che origina dal suo seno, così, a un superiore livello, il Sé supera e risolve le polarità primarie che s’instaurano tra gli archetipi (in sé).
Inutile dire che si può arrivare a vedere nel Sé l’Io (spirituale) e negli archetipi (in sé) i concetti, le idee o le entità spirituali solo se si è capaci di osservare e conoscere, grazie alla scienza dello spirito, il modus operandi dell’intelletto, della ragione e dell’evoluzione della coscienza umana.
E’ la nescienza di queste realtà a favorire, come detto, l’insorgere dei disturbi mentali psicogeni (sintomatici ed esistenziali).
Quando l’Io si riflette nell’anima per prendere coscienza di sé, si trova di fronte a un’immagine condizionata, morfologicamente ed energeticamente, dalla natura o dalla qualità del complesso che gli fa (inconsciamente) da specchio.
Scrive Hegel: “L’astrarre dell’intelletto è il violento afferrarsi a una determinazione, uno sforzo per oscurare e allontanare la coscienza dall’altra determinazione che colà si trova” (68). Un paziente cosiddetto “materno”, ad esempio, è un Io che sa di sé solo quel tanto che se ne può sapere quando è il complesso materno (“una determinazione”) a dare forma (coscienza) alla forza dell’Io. Nessuna sorpresa, dunque, se in un caso del genere si scopre poi attivo nell’inconscio, in veste di Ombra, il complesso paterno (l’altra “determinazione che colà si trova”).
Essendo i complessi strutturati polarmente, è impossibile all’Io identificarsi con uno dei due poli senza sentirsi per ciò stesso incalzato e minacciato, nell’oscura forma di un non-io, da quello complementare.
L’acqua è costituita di idrogeno e ossigeno. Ma che cosa accadrebbe se non fosse capace di riconoscersi come tale? Si identificherebbe sicuramente con uno dei suoi componenti. Una volta identificatasi magari con l’idrogeno, dovrebbe poi però affrontare gli assalti dell’ossigeno che, al fine di rivendicare i suoi giusti diritti, si costituirebbe come Ombra (come una realtà “psicodinamica” che non ha nulla a che fare, checché ne pensi Käte Weizsäcker, con il “doppio” di cui parla Steiner). Tale sarebbe lo stato nevrotico. Quello psicotico (prescindendo, ovviamente, da eventuali cause fisiche) s’instaurerebbe invece allorché l’acqua, stremata dalla lotta ingaggiata con la propria Ombra, finisse col cedere, dicendo: “Va bene, sono l’idrogeno e sono l’ossigeno”.
In questo caso (fuor di metafora), i due termini, anziché riunirsi in un principio superiore che li trascenda (nell’Io), si contenderebbero il soggetto (l’ego) che li sperimenta come opposti. A questo, per accontentare entrambi, non rimarrebbe allora che scindersi o dissociarsi.
Come si vede, quando non sono gli opposti, salendo di livello, a vedere risolta in modo sano la loro scissione, è il soggetto, scendendo di livello, a dissolvere in modo patologico la propria unità.
L’uomo giunge alla conoscenza scientifica (oggettiva) del mondo sensibile solo quando, superato lo stato sognante della cosiddetta “participation mistique” (Lévy-Bruhl), gli si contrappone al modo di un soggetto di fronte a un oggetto. Finché vi è simbiosi, empatia o identificazione, non è possibile una conoscenza oggettiva.
Nei confronti del mondo animico-spirituale, l’uomo moderno si trova però in uno stato sognante o dormiente. Quando non s’identifica col corpo, s’identifica allora con l’anima, e quindi col pensare, sentire e volere. Anziché affermare: “Sum, ergo cogito”, afferma infatti : “Cogito, ergo sum”.

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Di Lucio Russo
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